Ho un’età per cui Paolo Benvegnù c’è sempre stato. 

Emergente negli anni Novanta con gli Scisma, in quel momento indimenticabile in cui il rock (in) italiano si stava imponendo – alle proprie condizioni – fino a lambire il mainstream e le classifiche; poi solista che, nel 2004, lasciava tutti senza fiato con un capolavoro, “Piccoli Fragilissimi Film”, che dava corpo e sostanza all’idea che fosse destinato a diventare uno dei migliori esponenti della nostra canzone d’autore. Un’idea che si confermava anno dopo anno, album dopo album, al punto tale che la statura artistica di Benvegnù finiva per diventare un fatto assodato. Un artista che non poteva deludere perché troppo vero e sincero in ogni sua manifestazione; dunque non si trattava tanto di giudicare la riuscita o meno di ogni singolo disco, quanto di seguire con attenzione un percorso poetico che proseguiva in maniera costante e invitava a ogni episodio a immergersi nella propria visione delle cose e del mondo. 

Non si discuteva Paolo Benvegnù, l’artista e l’uomo, due figure indistinguibili, tanto l’uno faceva parte della vita dell’altro, in maniera totalizzante. E dell’artista aveva il viso e la postura, la stessa di un principe fascinoso in grado di non prendersi mai davvero sul serio, perché tutta la serietà veniva ogni volta profusa nelle proprie composizioni.

L’ultima volta che ho visto Paolo Benvegnù è stato in un piccolo club disperso nella nebbia padana. Doveva esibirsi in uno spettacolo per voce e chitarra, con l’ausilio di un pianista. Prima del concerto aveva accettato di concedere un’intervista per un libro che avevo intenzione di scrivere su uno dei suoi più cari amici musicisti (altro che i dissing attuali: parliamo di una generazione composta da fratelli che, se allontanati dagli anni e dalle distanze, rimanevano vicinissimi in forza dell’amore e del rispetto reciproco). 

Aveva subito voluto abbracciarmi, per premiare il solo fatto di voler scrivere un libro su questo suo amico musicista. 

Avevamo chiacchierato a lungo quella volta: io ne subivo il fascino, mentre lui non cercava mai di approfittarne, concentrato com’era a rendere con parole precise e accurate la grandezza del collega e in generale dell’arte che da sempre guidava lui e una certa cordata di musicisti. 

Era serio e pieno di amore e le sue parole, una volta terminata l’intervista, avevano evidentemente continuato a ruotare attorno ai suoi pensieri, al punto che – al momento di cominciare il concerto – aveva preso la chitarra, non ancora amplificata, e senza microfono si era messo a cantare, a pochi passi da tutti noi spettatori, una sua vecchia canzone intitolata proprio all’amico musicista. La sua voce risuonava tramite l’acustica naturale della sala, in un fuori programma che avevo soltanto suggerito, ma che era figlio del groviglio dei pensieri che aveva cercato di comunicarmi pochi minuti prima. Nella sua voce c’era la solita forza e la solita intensità, quelle che avrebbe riversato su di noi per il resto dello show, alternando interpretazioni nude e potenti a introduzioni alle canzoni divertentissime e al limite del cabaret più surreale.

Questo era Paolo Benvegnù. 

Un artista vero, pieno di amore e gratitudine, ma anche di zone oscure e di riflessioni che spalancavano abissi.

Un uomo convinto di non aver dato ancora quanto doveva alla sua Arte. 

Si sbagliava.

Paolo Benvegnù - Io e il mio amore