Il tempo è esploso, così come la quantità di dischi prodotti. I paletti tra i generi sono definitivamente caduti e il mainstream è la nuova frontiera della sperimentazione, anche perché è diventato facilissimo da infiltrare (sabotare?) da parte dell’underground (e viceversa…). La popular music è stata storicizzata e si è cominciato a trattare come roba seria musica prima considerata di consumo (riabilitando incidentalmente anche parecchi generi considerati deteriori). Gli appassionati di musica devono districarsi fra una moltitudine di dischi e di opinioni, anche per via di una ormai necessaria (?) apertura del gusto.
Tutti questi cambiamenti sono atterrati su una contemporaneità fortemente influenzata dai social e dalle dinamiche individualiste e solipsistiche che questi incoraggiano e che hanno spinto, dopo i concerti, a utilizzare anche i dischi più come status symbol da sbandierare che come manufatti culturali.
Il risultato finale di quanto sopra è la frantumazione di ogni scena, il flusso incontenibile e non interamente sondabile delle pubblicazioni e soprattutto la fine dell’aggregazione nella pratica dell’ascolto, che sembra aver sottratto alla musica, depotenziandola, la sua capacità di creare mito, racconto (personale, ma anche corale e a volte generazionale). Abbandonata la propria funzione mitopoietica, la musica sembra ridotta a semplice strumento per manifestare il proprio gusto elitario e egoriferito: anche consigliare un disco sembra più un’autoaffermazione di raffinatezza d’ascolto che una condivisione di esperienza e identità. Una serie di consigli e segnalazioni che sembrano, anche in corso d’anno, confluire verso un unico punto di caduta: la classifica di fine anno.
C’è dunque da chiedersi quale ruolo rivestano in questo processo queste celeberrime compilazioni. Le classifiche hanno il compito di segnalare il disco che per qualche ragione ci si è persi, oppure quella di suggerire lavori e artisti che dovrebbero assumersi l’onere di incarnare il famoso “spirito dei tempi”? (D’altronde cos’altro rappresenta quest’ultimo se non l’individuazione di qualcosa che unisce le passioni di un gran numero di cultori?)
Partendo dalla premessa che una classifica non può che essere personale e legata al gusto del compilatore, è altrettanto innegabile che la sommatoria delle varie classifiche fa emergere un quadro più grande che, indicando quali dischi hanno funzionato e quali no, può fornire indicazioni più ampie in merito ai desideri che hanno accomunano più persone.
Più che concentrarsi sui dischi, sarebbe dunque forse il caso di puntare il riflettore su quali bisogni (musicali e non) quei dischi hanno soddisfatto.
Venendo alla nostra piccola redazione, non possiamo che chiederci come mai – confrontando le nostre top ten finali – gli unici dischi presenti in tutte e tre le compilazioni sono stati quelli di Smile, in particolare “Cutouts”, dei Vampire Weekend, “Only God Was Above Us” e di Mount Eerie “Night Palace” Non possiamo dunque non chiederci cosa ci ha spinto a scegliere questi tre dischi e a preferirli ad altri. Quali desideri hanno incarnato e soddisfatto.
Proviamo dunque a stendere l’ennesima mappa (la settima nella storia di questo blog), partendo dai bisogni musicali che abbiamo espresso con le nostre preferenze.
Buona lettura!
Se dovessimo individuare gli elementi di cui siamo andati in cerca (magari inconsapevolmente), potremmo partire dal bisogno di ascoltare musica poliritmica, ma resa fruibile da una struttura melodica capace di addolcirne la complessità. Gruppi come i sottovalutatissimi Beak> (ebbene sì, tra il tanto sbandierato disco di Beth Gibbons e l’uscita carbonara della band di Geoff Barrow ci siamo ritrovati a preferire la seconda…), gli Smile o i “nostri” Maverick Persona hanno incarnato il nostro desiderio di ascoltare musica psichedelica, ritmicamente complessa, capace di unire jazz rock, prog, motorik e persino echi di afrobeat. Musica che si propone di essere un luogo sincretico di commistione, facendo da tramite fra mondi spesso non così distanti, in cui é possibile trovare in purezza gli elementi inglobati.
Per alcuni anni, i Beak> hanno rappresentato un punto di riferimento per tutti gli amanti del krautrock versante motorik. I loro dischi univano revivalismo e una qualità garantita da un peso massimo come Geoff Barrow, che nella propria vita fuori dai Portishead ha coltivato in particolare la dimensione strumentale, dividendosi appunto tra i Beak e le colonne sonore con il partner Ben Salisbury. La discografia della band è caratterizzata da un’ottima qualità media, ma fino a questo momento mancava il balzo in avanti definitivo, arrivato finalmente con “>>>>“ (e il “finalmente” rischia purtroppo di essere definitivo per la defezione annunciata proprio da Barrow negli ultimi giorni). Ciò che rende differente e in ultima analisi migliore l’ultimo album è la capacità di coniugare l’anima motorik con un songwriting sorprendentemente maturo, che dà vita a un efficacissimo ibrido di forma canzone krauta, estremamente personale. Brani capaci di soddisfare non solo gli ascoltatori nostalgici, ma anche chi è alla ricerca di canzoni con un elevato peso specifico. Si tratta di brani che ambiscono a “restare” e a sfuggire alla memoria a breve termine di questi tempi che divorano tutto e che si caratterizzano per uno spleen tipicamente britannico, che abbiamo ritrovato anche nell’ultimo disco degli Smile.
Il progetto di Thom Yorke, Jonny Greenwood e Tom Skinner ha originariamente fatto diffidare qualcuno, quasi come si trattasse solo di un lezioso o addirittura fittizio cambio di ragione sociale, che non giustificava la nascita di un nuovo soggetto. Qualcuno ha addirittura derubricato l’intero progetto a versione depotenziata e leggermente groove oriented dei Radiohead. Nell’anno appena trascorso però l’accoppiata dei due dischi Wall Of Eyes e Cutouts ha definitivamente convinto non tanto della bontà degli album, quanto della necessità dell’intero progetto. E se “Wall Of Eyes” si lascia forse preferire per le canzoni, Cutouts ha messo tutti d’accordo raccogliendo, dalle session comuni ai due dischi, i brani che meglio coltivano le specificità del progetto. La maniera di suonare le chitarre di Jonny Greenwood e il modo in cui queste si incastrano con le ritmiche di Tom Skinner non possono ormai che essere considerate un marchio di fabbrica della band; così come le fughe strumentali che richiamano e modernizzano l’esuberanza di certo (prog) rock britannico dei Settanta; senza contare le melodie del disco che sembrano finalmente aver abbandonato parecchio del languore, fragile e depresso, dei Radiohead per abbracciare una propria poetica.
Come gli Smile, anche i Maverick Persona hanno segnato il nostro 2024 con due dischi. A rendere tutto più prezioso e affascinante ha contribuito la circostanza che i due lavori hanno anche rappresentato l’esordio per una band che affianca al veterano della psichedelia italiana, Amerigo Verardi, un giovane ragazzo, Matteo D’Astore, appassionato di elettronica e jazz. I due dischi, “What Tomorrow ” e “In The Name Of“, hanno dunque avuto il privilegio di giungere dal nulla e proporre in maniera inedita alle nostre orecchie una formula che si caratterizza per una libertà espressiva assoluta, ma mai autoindulgente ed anzi sempre ben focalizzata su brani complessi, ma mai involuti. Merito di un lavoro ritmico che mischia musica programmata e sample, che si preoccupa di far pulsare continuamente un fondale sonoro sempre cangiante e manipolato, ancorando il tutto al terreno tramite gli spiritelli pop e psichedelici che da sempre infestano le produzioni di Verardi. Un lavoro sinergico tra due musicisti totalmente liberi da ogni etichetta o paletto di genere, dall’elevato contenuto politico, che si palesa non solo nelle tematiche affrontate, ma anche nella scelta totalmente autarchica e do it yourself dei due autori.
Il progetto dei Maverick Persona ha certamente soddisfatto anche un altro nostro bisogno: quello, escapista, di maneggiare manufatti difficilmente databili, che riescano a rendere in musica e in maniera concreta l’idea di “tempo esploso” che dovrebbe permeare la produzione musicale odierna. Una atemporalità che abbiamo riscontrato in lavori che sembrano giungere da un altrove che non si consegna esclusivamente al passato, al presente o al futuro, ma che passa attraverso queste dimensioni per giungere a noi privo di concreti riferimenti temporali. Caratteristiche che abbiamo riscontrato nei lavori di Cindy Lee (“Diamond Jubilee”), Nala Sinephro (“Endlessness“) e Alan Sparhawk (“White Roses, My God”).
Cindy Lee è stato uno dei dischi più chiacchierati dell’anno. Un hype per certi versi inspiegabile considerate le premesse: un doppio disco non distribuito sulle piattaforme (ma presente su youtube), opera di una drag queen solita pubblicare lavori dal forte gradiente hauntologico. Eppure, le due ore di musica che Cindy Lee ha estratto direttamente dal proprio mondo interiore sono riuscite a far rivivere non la mera forma di quell’età dell’oro che sono stati gli anni Sessanta, ma il loro più autentico spirito avventuroso. In questo modo, Cindy Lee ha consegnato un disco che non appartiene a nessun tempo o luogo, ma esclusivamente alla sfera emotiva e creativa del proprio autore. Un mastodonte, imbevuto di spirito sixties, dove le fonti originarie sono talmente deformate dalla visione personale del musicista da giungere all’ascoltatore come rinnovate. Nel pagare dazio al passato, lo si è oltrepassato, generando qualcosa di intimamente personale: un ibrido tra il modello originale, trent’anni di musica freak, indipendente e psichedelica, e la propria visione delle cose. Il tutto confezionato da una produzione nebbiosa e psichedelica utilizzata per conferire al disco una dimensione atemporale (e dunque tutt’altro che nostalgica o retromaniaca).
Cindy Lee ha così soddisfatto quel nostro bisogno di veder trasposto in musica un mondo interiore capace di trascinarti via con sé, come ha fatto anche – utilizzando un vocabolario completamente differente – la musicista belga, di origine martinicana e di stanza a Londra, Nala Sinephro. Il suo Endlessness coniuga orchestrazioni, spiritual jazz ed elettronica (per lo più analogica) in maniera originale e ispirata. Ed è proprio questa unione di elementi provenienti da momenti temporali differenti ad assicurare al disco un esito finale che non appartiene a nessuno di essi e dunque a sfuggire a una datazione precisa.
Così come vi sfugge anche il futuro illustrato da White Roses, My God di Alan Sparhawk, che sembra evocare un’umanità differente dalla nostra, ma così emotivamente pulsante da poter essere ancora riconosciuta come tale. L’utilizzo del vocoder e dell’elettronica, che ha fatto storcere il naso a molti, ha permesso all’autore di dare forma a una visione estrema e straniante della propria musica. “White Roses, My God” si rivolge a un fantasma elettronico e digitale e consegna una piccola pietra preziosa, che ci auguriamo rimanga come uno splendido episodio isolato nella carriera di Sparhawk, da ricercare in futuro tra le pieghe di questo tempo dispersivo.
Inutile dire che in “White Roses, My God” è presente un convitato di pietra o, se vogliamo, un grande rimosso: la morte della compagna di Alan Sparhawk, Mimi Parker. Una presenza/assenza che ha certamente influenzato l’emotività di un disco che riesce a giungere all’ascoltatore, nonostante i suoni sintetici e traslucidi che lo compongono.
Se dovessimo dunque individuare un altro bisogno che ci ha guidato nella ricerca dei dischi da amare quest’anno, potremmo citare la voglia di farci sopraffare dall’emotività di lavori in grado di metterci a colloquio, intimo e personale, con i loro deus ex machina.
Se due anni fa Alan Sparhawk ha perso la sua Mimi, Phil Elverum nel 2016 ha perduto Geneviève Castrée. Con il moniker di Mount Eerie, Phil aveva affrontato la morte della moglie con una serie di dischi dolorosissimi e sinceri (“A Crow Looked at Me, Now Only“), per poi riesumare la sigla Microphones (che non utilizzava dal 2003) in un disco fluviale e bellissimo (“Microphones in 2020“), che travolgeva e portava via con se l’ascoltatore con un’unica traccia di circa 45 minuti. Quest’anno è ritornato con la formula opposta, ovvero un disco di un’ora e ventuno minuti per ventisei tracce. A rimanere costante é stata la capacità di portare tutti noi in un mondo del tutto personale, trasposto nell’ennesimo ed eclettico manufatto sonoro (folk, lo-fi, metal, college-rock, psichedelia, noise, avant, drone, glitch, spoken, elettronica e molto altro ancora…), dove il dolore non manca, ma che con la sola sua esistenza dimostra come la musica sia, ancora e sempre, salvifica e vitale.
Un minimalismo autarchico che poco a che fare con il mastodontico ritorno dei Cure. Un ritorno che ha sorpreso molti, soprattutto quelli che – dati gli ultimi lavori di Robert Smith – non si aspettavano molto. E invece i Cure sono tornati con un lavoro che si pone da un lato in continuità con la propria storia, suonando quintessenzialmente “Cure”, ma che allo stesso tempo si presenta come notevolmente differente da qualunque altra cosa la band abbia mai prodotto. Mai infatti i Cure hanno suonato così funerei e monumentali, mai così massivi e terminali. Se per anni le composizioni di Smith hanno rappresentato un rifugio per diverse generazioni di giovani che vi hanno trovato un ristoro per il proprio spleen, adesso è giunto il momento per Smith – dopo che i quarant’anni avevano portato la prima pausa di riflessione ai tempi di Bloodflowers – di prendere atto di essere invecchiato, ma anche di averlo fatto assieme ai propri ascoltatori. Quello che ne è venuto fuori é un disco che porta con sé tutte le riflessioni che l’età e l’avvicinarsi della fine possono suggerire. E, al di là del giudizio complessivo sul disco, in relazione al quale lasciamo – senza fretta – che il tempo faccia il suo lavoro e lo collochi nel disegno complessivo della discografia del gruppo, ad aver conquistato é proprio questa empatica condivisione del tempo trascorso e consumato che ha unito musicista e ascoltatori., come vecchi amici che si ritrovano dopo tanti anni per condividere i medesimi pensieri.
Ritrovare i Cure a distanza di anni ci ha ricordato infine uno dei nostri generi d’elezione, ovvero quella canzone rock che riusciva a essere popular e che, nelle sue varie forme, ha avviato una storia che, dagli anni Cinquanta, è giunta fino al 2000, anno in cui “Kid A” ha posto fine al rock mainstream e alla sua egemonia sui consumi e sulla capacità di incidere sul costume.
Eppure, se dovessimo provare a immaginare un mondo in cui il rock continua in questa sua egemonia non faremmo alcuna fatica a vedere in “Only God Was Above Us” dei Vampire Weekend un esempio perfetto di quella storia. Il disco della band di Ezra Koenig utilizza il “linguaggio maggiore” del rock non per rendergli omaggio in maniera derivativa, ma – appunto – per farsi prosecutore di quella tradizione, ibridandola e facendola progredire con l’utilizzo di sonorità moderne. Un disco capace di unire forma e sostanza, vantare una perfetta sinergia tra scrittura e produzione e immaginare un tempo in cui è ancora possibile scrivere canzoni che abbiano la statura dei classici e in cui il rock riesce ancora a inglobare elementi provenienti da altre grammatiche senza farsene soffocare.
Ok, ci abbiamo provato, ma le compilazioni difficilmente mettono davvero ordine: più spesso suggeriscono percorsi, finendo per delineare mondi possibili e differenti, quelli che abbiamo creato nel nostro immaginario più intimo, concentrandoci su alcuni dischi piuttosto che su altri.
Se poi proviamo a sollevare lo sguardo, ci sembra che, non solo a livello musicale, manchi la sensazione che qualcosa di innovativo stia arrivando. Mutando (ma non troppo) le proprie forme, il Novecento sembra essere più vivo che mai e il mondo futuro che ci stavamo immaginando (digitale, privo di attrito, evaporato) sembra aver perso le sue chances di colonizzare il reale. In questa zona di passaggio, ben vengano le narrazioni individuali, quelle che ognuno di noi compie con le proprie scelte quotidiane di ascolto e di vita, nella speranza che le più virtuose possano aggregarsi per suggerire possibili ed ulteriori scenari comuni.
FINE…. o quasi:
Abbiamo riservato per ognuno di noi un piccolo spazio in cui indicare un disco che per ragioni personali abbiamo sentito particolarmente vicino. Considerato che da sempre su questo blog si persegue la sacra arte della scrittura “karmica”, abbiamo pensato fosse giusto darvi queste ultime dritte per sdebitarci fino all’ultimo con la musica e fornirvi una piccola appendice di segnalazioni.
THE LINE segnala CHROMAKOPIA di Tyler, The Creator:

“Tyler Okonma, Californiano classe 1991, si conferma una mina vagante nel mondo della black music, tra il prolifico e l’eclettico. CHROMAKOPIA arriva tre anni dopo il nudo e crudo “Call Me If You Get Lost”, successore dell’autoprodotto IGOR, primo tentativo nel mondo soul e r&b e considerato per ora il suo più grande successo. CHROMAKOPIA è un lavoro difficilmente catalogabile, che parte con una citazione di Bowie in copertina e prosegue sfuggendo ogni possibile catalogazione: se la title track sposa la causa soul e “Rah Tah Tah” è reminiscente del boom bap, “Noid” ci fa saltare dalla sedia coi riferimenti alla musica africana e le chitarre rock, mentre “Like Him” e “Balloon” ci ricordano qualche jazz club della ormai gentrificata Bowery Street. Non mancano sonorità da club meno eclettiche, ma CHROMAKOPIA trasuda amore e passione per la propria causa, così come la voglia di non prendersi troppo sul serio”.
MASON segnala Y’Y di Amaro Freitas

“Y’Y è innanzitutto un viaggio e non poteva essere altrimenti dato che nasce da un pellegrinaggio in Amazzonia. L’artista brasiliano immerge se stesso e il suo pianoforte nel mezzo della foresta tropicale e lascia che la natura circostante e la primordialità della cultura tribale permeino nel profondo la propria identità di musicista jazz. Anche il pianoforte viene coinvolto in questo percorso trasformativo: lo strumento viene “preparato” e utilizzato per far emergere in un contrasto generativo la natura percussiva e quella più lirica. I due aspetti trovano in particolare incarnazione rispettivamente in “Dança Dos Martelos” e “Uiara” e infine una perfetta sintesi nel vertice del lavoro, “Sonho Ancestral”. Ma il disco è un viaggio del quale l’Amazzonia rappresenta solo il punto di partenza: gradualmente l’album passa dall’astrattismo tribale della straordinaria prima parte a un jazz più classico, seppur contaminato, e da una performance in solitaria di Freitas a una collettiva, con il notevole contributo di ospiti di rilievo come Shabaka, Jeff Parker, Hamid Drake e Brandee Younger. Si tratta dunque di un lavoro che ci conduce, non solo nei meandri di una ricchissima esperienza musicale, ma anche in un percorso trascendente, al termine del quale giungere nuovamente a casa con uno sguardo arricchito e rinnovato verso ciò che ci circonda.”
DIXON segnala Saracena di Cesare Basile e Sulle ali del cavallo bianco di Cosmo.

“Cosa accomuna due dischi italiani che sembrano distanti anni luce per origine e sonorità? Certamente la loro qualità, con Cesare Basile che continua la sua inesausta ricerca personale tramite un’opera colta e capace di inglobare nel suo songwriting etno-blues elementi di elettronica d-i-y, e Cosmo che continua a sposare la sua ricerca elettronico/danzereccia con una impressionante facilità melodica. Ma soprattutto i due dischi hanno rappresentato per il sottoscritto le due facce di una medesima medaglia. Cesare Basile ha incarnato con il suo “Saracena” l’urgenza politica, l’indignazione verso crimini che, nonostante si ripresentino come costanti nella storia dell’uomo, non devono portare all’assuefazione e all’accettazione passiva del mondo; ma anche la voglia di combattere tramite il miglioramento di se stessi e la cultura. Cosmo è invece il desiderio (antitetico o forse no…) di scendere dal treno, magari di farlo deragliare e schiantare e ritornare al privato, affidandosi alle gioie più intime per allenarsi a un amore che dovrebbe espandersi in ogni direzione, investendo tutto. Due dischi preziosi, due salvagenti utili in un momento in cui la politica sembra trarre profitto nel parlare esclusivamente alla parte peggiore di tutti noi.”
E se non avete ancora abbastanza qua sotto potete trovare le Top 10 dei singoli autori e il link alle classifiche complete (Top 20 e per genere).
LE NOSTRE TOP TEN
THE LINE
Tyler, the Creator – CHROMAKOPIA
Mount Eerie – Night Palace
Mabe Fratti – Sentir Que No Sabes
Geordie Greep – The New Sound
Vampire Weekend – Only God Was Above Us
Xiu Xiu – 13″ Frank Beltrame Italian Stiletto With Bison Horn Grips
The Smile – Wall of Eyes / Cutouts
Godspeed You!Black Emperor – No Title
Nala Sinephro – Endlessness
Sega Bodega – Dennis
MASON
Beak> – >>>>
Cindy Lee – Diamond Jubilee
The Cure – Songs in a Lost World
English Teacher – This Could Be Texas
Amaro Freitas -Y’Y
Julia Holter – Something in the Room She Moves
Lemon Twigs – A Dream Is All We Know
Mount Eerie – Night Palace
The Smile – Wall of Eyes/Cutouts
Vampire Weekend – Only God Was Above Us
DIXON
Cindy Lee – Diamond Jubilee
Alan Sparhawk – White Roses, My God
Il sogno del marinaio – Terzo
Vampire Weekend – Only God Was Above Us
Cosmo – Sulle ali del cavallo bianco
Maverick Persona – What Tomorrow/In the Name Of
The Smile – Cutouts
Beak – >>>>
Cesare Basile – Saracena
Mount Eerie – Night Palace
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