Certi dischi sembrano chiedere di non abusare di loro. Di non eccedere con gli ascolti e lasciare che il loro mistero rimanga tale e torni ogni volta assieme alla loro capacità di disorientare e stupire. La paura è quella che troppi passaggi possano svelare il trucco, rivelare il meccanismo e rendere quell’oggetto oscuro meno fascinoso, nel momento in cui ogni sua forma è stata delineata dall’esperienza.
Poi ci sono dischi, come “In the name of”, secondo lavoro dei Maverick Persona, duo brindisino formato da Amerigo Verardi e Matteo D’Astore, che – nonostante gli ascolti ripetuti – continuano a rimanere sfuggenti, muovendosi e ondeggiando come fossero animali fantastici, immersi in un contesto cangiante in cui non sai più se a muoversi sia il fondale o la figura in primo piano.
Il secondo disco dei Maverick punta proprio sull’interscambio tra fondale e figura, tra melodia e paesaggio sonoro, con i due elementi che si rincorrono e danno vita a una danza gentile in cui le linee vocali si stagliano chiare come fossero scolpite nella roccia, per poi venire travolte dal flusso sonoro e magari riemergere poco più in là ancora diverse e con maggiore forza. Si genera un flusso di coscienza sonoro che non si concede paletti di genere e invita l’ascoltatore a fare altrettanto e abbandonarsi alla marea psichedelica.
Un esempio concreto? Prendete il quarto brano del disco che intitola l’intero lavoro “In The Name Of”. I due musicisti si permettono di abbandonare quasi subito una bellissima melodia iniziale per voce e piano, proprio nel momento in cui sta per evolvere in una sinfonia melodico spaziale alla Spiritualized: il brano ripiega infatti prima in una mesta e malinconica ballata spettrale, per poi perdersi in un groove elettronico oscuro che preannuncia il finale industrial-blues..
O, ancora, in “Underworld Conspiracy”, il ritornello avvolgente (“This brutal isolation/ an underworld conspiracy”) viene travolto e portato via da una base elettronica in odore di IDM, su cui Amerigo si produce in uno spoken inquieto da cui riemerge, come fosse un campionamento rubato a un vecchio disco soul, il ritornello di prima.
Ma è tutto il disco a conquistare in forza di una libertà espressiva comunque mai autoindulgente e sempre ben focalizzata, con brani che spesso contengono diverse sezioni, senza tuttavia risultare mai involuti.
E se l’incipit di “Complete The Task” avvia le danze col suo vestito pop arrembante, già dal secondo brano, la sospesa e inquieta “Somewhere We Have Landed”, il disco molla gli ormeggi ed entra nel vivo del suo concept politico, che si propone di ragionare su certi meccanismi oppressivi del nostro quotidiano. L’album racconta infatti, in maniera non lineare, la vicenda di un ragazzo in fuga dal Sistema, che raggiunge la propria elevazione solo nella libertà contenuta nella vibrazione del suono. Una “trama” distopica che inquieta proprio nel momento in cui lascia intravedere il presente e che risulta perfettamente accordata al sound che la veicola.
E così di “Bite for freedom” si apprezza il soffio quasi canterburiano delle tastiere di Matteo D’Astore; di “Is it really all over?” il clamoroso proto-rap di Amerigo e l’oscurità blues tra Depeche Mode e Bad Seeds.
Echi del primo lavoro dei Maverick si ravvisano nel jazz-rock di “Where are you” o nella psichedelia di “Try to get the sun” che sfocia nel Vangelis dronato dello strumentale “Dreaming Laurel Canyon”.
Chiude tutto “Turn on the good music, louder!”, midtempo ultra-verardiano con ritornello estatico, su cui Matteo D’astore cuce un tessuto sonoro caliginoso, che sospinge tutto verso l’alto e verso il migliore degli auspici possibili:
“Get up and kill your better belief /Turn on the good music, louder!”
in un finale simile a quello che potrebbe ideare Brian Wilson per una delle sue sinfonie alla gioia…
Con “In The Name Of”, i Maverick Persona si confermano dunque come una delle più belle notizie giunte negli ultimi anni alle nostre orecchie. Il lavoro sinergico di due musicisti che riescono in maniera quasi magica ad accordare le proprie vibrazioni.
Come i migliori rabdomanti, il vecchio Ragazzo Magico ha scovato in Matteo D’Astore un altro esemplare della medesima specie: inquieta, politicamente non allineata, pronta a ricercare la libertà e la verità nella vibrazione del suono.
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