Ma come si fa a parlare di un disco come “White Roses, My God”? Intendo come si fa a scegliere innanzitutto la maniera di parlarne… il modo per non farsi influenzare da quel nome in copertina e dal lutto che ha colpito l’uomo, il musicista e, anche – certo in misura minore – tutti noi ascoltatori e appassionati… 

Come si fa a non giudicare innanzitutto la scelta, prima ancora del risultato, di affidarsi interamente all’autotune per le parti vocali? Quanti di noi – amando quella voce, triste e delicata come poche nella “nostra” musica – saranno tentati di reagire con stizza alla scelta deliberata dell’autore di negarcela?

Forse la maniera migliore di giudicare “White Roses, My God” è quella di valutarlo nella maniera più asettica possibile e solo successivamente aprire il giudizio al contesto in cui il lavoro è maturato. 

Insomma, quando ascoltiamo le undici canzoni del disco quali sensazioni riceviamo? Le ascolteremmo se non ci fosse – appunto – quel nome in copertina? Se non fosse il “disco del cantante dei Low”?

Alan Sparhawk - Heaven (Official Video)

Con il suo radicalismo sonoro, accentuato – nella percezione – dal raffronto con il passato del suo autore, “White Roses, My God” si è presentato da subito come un disco controverso e divisivo, al punto che anche chi lo ha apprezzato (non troppi, a dire il vero…) sembra averlo fatto in maniera timida, quasi sentendosi in dovere di “perdonare” al suo autore il suddetto radicalismo: come se ad essere apprezzata fosse più la (consueta) capacità di Alan di mettere in musica la propria sofferenza, piuttosto che non la musica in sé.

Per quanto ci riguarda, non consideriamo “White Roses, My God” un disco da apprezzarenonostante” il suono estremo ed eccessivo; non riteniamo vada ascoltato perché rappresenta alla fin fine una personale elaborazione del lutto, capace di unire intensamente elemento umano ed artistico; né abbiamo intenzione di tirare in ballo “Trans” di Neil Young o, più in generale, il filone dei “dischi nati dalla sofferenza”…. No, per quanto ci riguarda riteniamo che “White Roses, My God” sia un disco riuscitissimo. Un lavoro semplicemente grandioso. 

E ciò per una serie di ragioni: perché l’unione tra gli scenari sintetici creati da Alan e l’utilizzo della voce pitchiata si sposa alla perfezione; perché si tratta di un lavoro curatissimo, in cui ogni brano possiede dinamica e scrittura; perché sembra un disco che proviene dal futuro e non per via di qualche singola soluzione sonora destinata a fare scuola, ma perché evoca un mondo abitato da un’umanità differente dalla nostra, ma ancora così emotivamente pulsante da poter essere ancora riconosciuta come tale. 

L’intensità delle composizioni di Alan Sparhawk, che tanto abbiamo amato nei lavori a firma Low,  é rimasta assolutamente intatta, nonostante il contesto freddo e digitale, l’utilizzo massiccio dei synth e la voce contraffatta. Un brano come “Not The 1“, ad esempio, nonostante le sembianze aliene, lascia intravedere intatto il marchio compositivo del suo autore (e che un’impronta autoriale resista anche al tentativo estremo del proprio creatore di mimetizzarla o quasi di negarla è qualcosa di straordinario!). Un marchio compositivo che non smette di caratterizzarsi per la sua potenza emotiva e che rende difficile, anche a noi ascoltatori, liberarci da certi fantasmi del passato ( … nella voce che accompagna il cantato non sembra quasi di risentire Mimi? L’arrangiamento vocale non richiama forse quell’indimenticabile intreccio di voci? Non sembra quasi come se Alan avesse immaginato l’incontro con la compagna scomparsa in un altrove digitale? …)

Brani come “Not The 1” o “Brothers” (dove fanno pure capolino le care vecchie chitarre di Alan) non vanno pertanto apprezzati perché ricordano le cose della band madre, ma in quanto brani meravigliosi nella propria capacità di alternare silicio e sentimento. 

Ed oltre alla persistenza dell’elemento emotivo, quello che sorprende poi è la maniera in cui viene maneggiata la componente “elettronica” del sound, il cui utilizzo non restituisce affatto una sensazione di dilettantismo, tipica di certi artisti che – spesso proprio in campo elettronico – si spingono fuori dalla propria comfort zone. Ne rappresenta prova migliore proprio il controverso utilizzo dell’autotune: non solo Alan non ha nessuna paura di utilizzarlo per trasformare i propri vocalizzi in quella strana colata di miele liofilizzato che ha spinto alcuni critici a parlare della trap come di una nuova forma di psichedelia fantasmatica, ma decide addirittura di rilanciare sul piatto, rendendolo il trampolino per una visione ancora più estrema e straniante della propria musica, che non contempla affatto la voce umana.

Nella varietà dei registri utilizzati, “White Roses, My God” si rivela un disco tutt’altro che monocorde, un oggetto volante non identificato, partorito da una mente musicale raffinata che – lungi dal voler consegnare una semplice provocazione musicale (non è un “Metal Machine Music”, per intenderci…) – ha concepito un disco solido e piacevole all’ascolto.

E se la tentazione di psicanalizzare il suo autore rimane, vedendo nelle sue scelte una sorta di auto-negazione o comunque l’ammissione di non essere ancora pronto a scrivere musica che possa richiamare scopertamente il suo lavoro con Mimi, basterebbe guardare alla genesi dell’opera per abbandonare tale tentazione e cogliere piuttosto la natura di gioco musicale che sta all’origine del disco. E’ infatti cosa nota che l’album sia stato ispirato ad Alan dagli ascolti del figlio, grande appassionato di hip hop ed elettronica. Non é dunque difficile immaginare il padre smanettare con synth, drum machine, software di elettronica e ritrovare un interesse (disintossicante) per la musica, come anni prima era successo con la chitarra o il canto… Forse ragionare su tale genesi dovrebbe dissuadere dal caricare eccessivamente il disco, fino a vederlo come una sorta di monolite emotivo.

Certo, senza Mimi deve essere stato difficile proseguire il proprio percorso artistico, ma con “White Roses, My God”, rivolgendosi a un fantasma elettronico e digitale, Alan Sparhawk ha trovato una propria via. 

Un disco (adesso possiamo dirlo…) “necessario”, che ci auguriamo rappresenti, più che l’inizio di una serie di dischi per voce autotunata, uno splendido episodio isolato: una piccola pietra preziosa da ricercare in futuro tra le pieghe di questo tempo dispersivo.