Il nuovo disco dei Fontaines D.C., “Romance”, sembra perfetto per scatenare i classici discorsi sulle band che “non sono più quelle di un tempo” o far muovere accuse circa la “commercializzazione” di una formula prima genuina e adesso riproposta in versione liofilizzata per piacere a dei palati meno specializzati. Ma d’altronde non è mai facile rimanere affezionati a musicisti che si evolvono nel tempo e spesso non nella maniera in cui ci aspetteremmo o vorremmo che ciò avvenisse. Comprendere e accettare determinate scelte non sempre è facile e spesso si finisce con l’allontanarsi, un po’ come in una storia d’amore.
E di una piccola storia d’amore stiamo effettivamente parlando: i Fontaines D.C., i nostri “boys in the better land” preferiti sono stati regolarmente elogiati (anche su queste pagine), fin da quando il loro disco d’esordio “Dogrel” è arrivato dritto in faccia come un pugno, con l’immediatezza ruvida delle sue musiche e la raffinatezza lirica dei testi.
Nel marasma del revival post-punk, i ragazzi di Dublino finirono per farsi notare grazie ai notevoli intrecci delle chitarre di Conor Curley e Carlos O’Connell su cui venivano adagiate, con romanticismo bohemien e letterario, le parole urgenti di Grian Chatten, frontman a metà tra la ritrosia di un Ian Curtis e la sfacciataggine cafona di uno dei Gallagher:
Ascoltando la band, l’impressione però è sempre stata quella di un gruppo che avrebbe fatto strada, lasciandosi ben presto alle spalle il mondo delle label indipendenti e dei piccoli club: il loro mix letale di immediatezza, complessità e impatto emotivo aveva pochi eguali nel (disadorno) panorama rock contemporaneo. Su queste premesse e sulla bontà dell’esordio, gli irlandesi hanno costruito nel 2020 un seguito, “A Hero’s Death” che, se riproponeva il medesimo team di lavoro di “Dogrel”, in termini di etichetta (la Partisan Records) e produzione (affidata a Dan Carey), evolveva il proprio suono, concedendo maggiore attenzione alla cura del sound, che si colorava di suggestioni quasi psichedeliche con la voce di Grian Chatten spesso immersa in un ambiente sonoro più saturo e riverberato:
La collaborazione tra la band e Carey si interrompeva però nel 2022 in seguito alla pubblicazione di “Skinty Fia”.
Da molti considerato il capolavoro della band, certamente il loro lavoro più popolare, “Skinty Fia” è il primo disco dei Fontaines a entrare primo nelle classifiche e a rendere a tutti gli effetti i ragazzi delle star. Brani come “Jackie Down the Line”, “Roman Holiday” e “I Love You” diventano hit planetarie, senza alterare i punti cardinali di un suono ormai approdato a quella “classicità interna” propria dei grandi gruppi.
All’exploit in studio, fanno seguito anche l’affermazione e i consensi ricevuti dai loro live act, dove il mix al vetriolo di punk, poesia e melodia funziona alla perfezione, grazie anche a delle ottime esecuzioni e a una presenza scenica per nulla scontata, con ognuno dei ragazzi capaci di occupare il palco, ciascuno con la propria personalità (ricordiamo con estremo piacere la data di Giugno 2022 al Magnolia a Milano).
Le posizioni da headliner nei festival continuano ad aumentare, i tour si spostano nei palazzetti e la band passa alla XL Recordings, la stessa etichetta di Radiohead, Arca, Adele, Sigur Ros, Burial e infiniti altri.
Il passaggio a XL comporta anche un cambio alla produzione, portando in cabina di regia James Ellis Ford.
Ford, classe 1978, originario dello Staffordshire, si è distinto per la collaborazione di lunga data con Alex Turner, e più di recente per quelle con Beth Gibbons, Shame, Depeche Mode, Damon Albarn, Blur, Gorillaz), nonché per aver preso parte a progetti come Simian e Simian Mobile Disco o, ancora, per il bellissimo disco solista “The Hum”, di cui abbiamo abbondantemente parlato l’anno scorso. Insomma, sembrava il produttore giusto cui affidare l’arduo compito di traghettare la band verso lidi più ampi, senza snaturarne eccessivamente il suono.
D’altronde, dopo aver perfezionato la formula album dopo album, sembrava evidente come la carriera dei Fontaines fosse giunta a un punto di svolta: per evitare di ripetersi e replicare i propri cliché, occorreva scegliere cosa diventare “da grandi”. Le strade da percorrere a quel punto potevano essere diverse. Si potevano ricercare soluzioni non scontate e sperimentali, mettendo alla prova i propri ascoltatori, oppure ad esempio cercare di consolidare il proprio spazio nel mercato mainstream del “rock con le chitarre”, sgomitando per un posto accanto a gente come Blur o Arctic Monkeys….
“Romance” con il suo suono progettato per piacere più ai neofiti della band che ai fan della prima ora, sembra rispondere al quesito: fin dall’ascolto dei primi singoli estratti, la sensazione è stata quella di un suono reso potabile per le radio e un pubblico generalista, in cui le reiterazioni post-punk risultavano abbandonate in favore di una scrittura più rotonda e armonicamente ricca. E se il primo singolo “Starburster” sembrava anticipare una piccola rivoluzione, provando a introiettare nel sound del gruppo (che non a caso si presentava con un look totalmente differente…) elementi hip-hop e industrial, il resto del lavoro non sembra mantenere questa promessa.
Lo diciamo subito: “Romance” è un disco assolutamente valido che però non risulta all’altezza dei lavori precedenti. E non tanto per via di un sound “addomesticato”, quanto per via di una qualità dei brani che non regge l’intera durata dell’album stesso.
Se fino al quinto pezzo, la scaletta non sbaglia nulla, inanellando una serie di brani killer senza cedimenti e ben supportati da una produzione che vira brillantemente verso un rock indie-mainstream (ahimè categoria ormai esistente), il resto del programma cala di intensità con pezzi che si mantengono buoni (il brano alla Slowdive, “Sundowner”, ne è l’esempio migliore), ma che non regalano più dei picchi e anzi lasciano l’amaro in bocca con una “Death Kink” che risente di una produzione eccessivamente educata e una “Favourite” che come brano finale non fa il suo mestiere fino in fondo.
Ad ogni modo, brani come “Desire”, “In the Modern World”, “Here’s the Thing”, pur rinunciando alla classica complessità lirica del gruppo in favore di ritornelli e strofe più dirette, mostrano comunque un gruppo che mantiene ispirazione e personalità e questo al di là dell’avvenuto riposizionamento artistico e commerciale.
E se molti hanno voluto vedere il bicchiere mezzo pieno, resta comunque il dubbio circa la bontà dell’operazione: visto che la macchina funzionava benissimo, c’era davvero bisogno di cambiare il motore?
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