La Romagna è plasticosa… 
in qualche modo artificiale: offre questo Shangri-La dove nessuno muore. 
Perché in vacanza nessuno può morire, nessuno è malato… 
Non c’è il quotidiano, il quotidiano evapora…
E poi in Romagna è possibile trovare anche lo scenario opposto: l’inverno. 
Nell’inverno romagnolo non c’è più nessuno, é come se fossero tutti morti. 
Questo dualismo mi ha sempre molto colpito”.

Fabrizio Testa – Il Lungo Addio

C’è una componente quasi spirituale nell’avvicendarsi delle stagioni nella riviera romagnola. Ogni anno si assiste a una rinascita estiva che, nella consapevolezza che presto le brume invernali ritorneranno, invita a godere quanto più intensamente di quella temporanea esplosione di vitalità. Federico Fellini, parlando della sua Rimini, raccontava la strana esperienza di vedere scomparire la città nella nebbia, lasciando la fede e la speranza che là sotto da qualche parte la città continuasse a esistere, in attesa della resurrezione estiva.

Questa componente trascendentale è finita inevitabilmente sotto la lente di uno degli osservatori più acuti e allo stesso tempo più stralunati di quei luoghi, ovvero quel Fabrizio Testa che, nel suo progetto Il Lungo Addio, ha fatto della Romagna il teatro perfetto per ambientare le sue malinconiche vicende esistenziali. Quello de Il Lungo Addio è uno dei progetti più originali in Italia, ma pare destinato a rimanere segreto per pochi, in un tempo che non sembra riuscire a scorgere le pieghe nascoste e malinconiche che si generano nel tessuto stesso del divertimento.

Non mi ha mai attirato il divertimentificio, la passeggiata o la sfilata nel corso, 
ma la gelateria degli anni ottanta sopravvissuta inspiegabilmente, sì… 
la vedevo come una base aliena rimasta per qualche motivo abbandonata lì. 
La Romagna del tempo che è stato ti rassicura e ti coccola. 
Si tratta di un non luogo che spinge alla perdita di identità…
Smarrire se stesso in una vacanza che non finisce mai…”.

In occasione dell’ultimo disco de Il Lungo Addio, “Adriatico”, uscito il mese scorso, abbiamo deciso di incontrare Fabrizio Testa. Un incontro carico di aspettative: oltre ai lavori come Il Lungo Addio, il musicista milanese ha avviato in parallelo una carriera solista con dischi pubblicati a proprio nome e caratterizzati da una totale libertà creativa. Dischi cui persino la categoria “avant” risulta stretta, considerata la natura estemporanea della loro ispirazione, che sembra riconciliare con l’idea di musica come gioco creativo, simile a un racconto di Barthelme o al gesto del bambino che porta all’orecchio il sonaglio in cerca del suono più buffo possibile.

Se dunque Il Lungo Addio ha rappresentato il “progetto pop” di Testa e i dischi solisti il lato sperimentale della sua capricciosa ispirazione, a partire da “Tropico Romagnolo” e proseguendo con l’ultimo lavoro, “Adriatico”, la distanza tra i due progetti si è fatta più sottile, al punto da invitare l’ascoltatore a leggere in parallelo i due percorsi.

Partito come divertissement acustico e lo-fi, Il Lungo Addio ha preso sempre più la forma della band, vedendo alternarsi tra le sue fila diversi musicisti, spesso tra i più blasonati del giro indie italiano (Bruno Dorella, Xabier Iriondo, Paolo Mongardi… giusto per fare tre esempi), fino a cristallizzarsi in una formazione più stabile che vede in Luca Ciffo (Fuzz Orchestra, Traum) l’alter ego musicale di Testa e in Sergio Montemagno alla tromba e Fabrizio Carriero alla batteria i rimanenti partner in crime.

Con questa formazione Il Lungo Addio ha spinto sempre più sul pedale della sperimentazione, trovando in “Tropico Romagnolo” una quadratura perfetta, nonché un piccolo capolavoro di cantautorato avant che sorprende in brani come “Lido di Classe” (ascoltate il ritornello desolato che strappa l’applauso con una struttura a chiasmo e un’anastrofe che modifica leggermente il significato della frase: Al lido di classe/Come se niente fosse/Come se non fosse niente/ Qui nel lido di classe”, oppure le fughe musicali del brano che si conquistano il palcoscenico, senza mai rubarlo alla canzone):

oppure in canzoni come “Nel pomeriggio” dove le parti melodicamente più struggenti sono abbinate in contrapposizione a versi apparentemente frivoli (“Oggi io non voglio fare un cazzo/ Oggi finalmente sono matto/ E vado al mare/ Con l’asciugamano e le ciabattine”), ma che rivelano presto un profondo disagio esistenziale (“e vado al mare così mi passa anche la voglia di morire, nel pomeriggio quando la spiaggia a volte sembra paradiso”).

IL LUNGO ADDIO - NEL POMERIGGIO

Ma se “Tropico romagnolo”, nell’avvicinare le due espressioni musicali di Fabrizio Testa, sembrava rappresentare un bellissimo approdo, occorreva adesso sparigliare le carte. E da questo punto di vista “Adriatico”, nel sacrificare sempre più la componente folk e cantautorale del progetto, finisce per rappresentare la perfetta prosecuzione di “Tropico Romagnolo”. Gli elementi del songwriting di Fabrizio Testa vengono ridotti all’osso con la voce che ripete poche frasi e non sembra voler più raccontare alcuna storia, mentre musicalmente il sound vira verso lidi plumbei e glaciali: percussioni etniche, atmosfere kraute, utilizzo massiccio di synth e bassi wave

Ma se l’aspetto narrativo sembra abbandonare la singola canzone, torna a rifarsi vivo al termine dell’ascolto del disco. Nell’avvicendarsi dei suoi episodi, “Adriatico” sembra raccontare la vicenda di un uomo che, invecchiando, cerca di scampare alla morte, rifugiandosi in quel non luogo che è la Romagna balneare. Un tentativo destinato allo scacco: l’uomo non riesce a trovare alcuna liberazione e via d’uscita, finendo per ritrovarsi intrappolato nella propria decadenza. E così, per la prima volta nei dischi de il Lungo Addio, la Romagna non sembra più essere la vera protagonista, bensì il perfetto sfondo per raccontare una sorta di personalissima “Morte a Venezia” dove però la morte non arriva mai:

Probabilmente si tratta dello stesso personaggio raccontato nei dischi precedenti, che ha acquistato una consapevolezza che prima non aveva. Non sapeva perché evitava la spiaggia, il divertimento, la folla… era alla ricerca di qualcosa… e forse adesso ha capito cosa stava cercando: una non morte. Ma capisce anche che per trovarla deve entrare in uno stato ulteriore, andare oltre quel divertimento apparente. Adesso vede con maggiore chiarezza come tutto si stia sgretolando in balia di un perenne invecchiamento. Penso siano state queste suggestioni ad ispirare i testi di questo disco…

Fabrizio Testa

Interrogato sulla genesi di “Adriatico”, Fabrizio Testa risponde:

Sono successe molte cose nel periodo tra “Tropico Romagnolo” e “Adriatico”. Sono invecchiato, ovviamente, ma quello capita a tutti, purtroppo o per fortuna, e sono entrato in un periodo, per così dire, mistico. Alludo all’inizio di una ricerca personale legata allo spirito e al trascendente, che nel mio caso ha preso una direzione che l’ha portata verso un cristianesimo spogliato di tutta la parte istituzionale e di “apparato”. Non sono mai stato un vero credente o un praticante e dunque non si tratta di un percorso interrotto… ho piuttosto intrapreso un percorso nuovo, di redenzione. Vedere il nostro Occidente accartocciarsi su sé stesso, preda di un’ideologia politica sempre più oscura e unifica, mi ha spinto verso un percorso interiore che inevitabilmente ha finito poi per influenzare la mia musica. Ed ecco che, come Fabrizio Testa, ho fatto uscire un disco solista intitolato “Ritorno al sacro”, dove affrontavo tematiche spirituali con un approccio musicale non così dissimile a quello che utilizzavo ne Il Lungo Addio: se nei precedenti dischi a nome Fabrizio Testa avevo sempre evitato di cantare o in alcuni casi anche di suonare, preferendo scegliere voci e strumenti ospiti da “assemblare” e manipolare, in “Ritorno al Sacro” per la prima volta suonavo e cantavo in prima persona. In quel periodo, assieme a Luca Ciffo, stavo pensando anche al nuovo disco de Il Lungo Addio ed ho pensato che se “Fabrizio Testa” aveva preso una virata verso “Il Lungo Addio”, pur rimanendo un progetto ben distinto, perché non fare andare Il Lungo Addio a sua volta verso Fabrizio Testa, introducendo anche qui l’aspetto mistico e le tematiche religiose che mi stavano ossessionando? Così è nato “Adriatico” e, nel cercare, in maniera quasi naturale, di “avvicinare” i due progetti, ho cominciato a lavorare in sottrazione sui testi, eliminando la componente più narrativa, portando all’eccesso quanto stavo già provando a fare con “Tropico Romagnolo”, dove questo processo era stato avviato. Dal punto di vista musicale poi l’idea di partenza era quella di fare un disco per sole voci e percussioni. Dunque siamo partiti dalle ritmiche, con dei pattern trovati sulle tastiere e le drum machine su cui ho iniziato a cantare delle melodie. Da lì sono nate tutte le canzoni.

Il periodo mistico di Fabrizio Testa si traduce dunque nell’ottimo “Ritorno al sacro”, ma anche in un lavoro strumentale, fascinoso, avvolgente e dall’afflato vagamente kosmische, intitolato “The Revelation Will Be Not Be Televised”, pubblicato a nome Coptic Light, sigla dietro cui si nasconde un trio formato da Testa al vibrafono e ai synth, Massimo Pupillo degli Zu al basso e Paolo Mongardi degli Zeus alla batteria. Lavoro che non a caso si presenta con la seguente breve nota descrittiva: “Prayers, mantras, spirituality. A journey to acquire tools against modern hypocrisy, confusion, daily damnations”…

Tornando ad “Adriatico”, il progetto originale di un disco composto solo da voci e pattern ritmici è ancora riscontrabile in molti episodi del lavoro, a partire dal suo incipit “Rimini non è Hollywood”, che ripete a mo’ di mantra la frase che dà il titolo al brano sopra un tappeto di percussioni tribali. Un incipit che rappresenta qualcosa di più di una intro, perché a ben vedere contiene in nuce tutto il disco che segue: la percussività etnica, oscura e pagana, i synth che svolazzano glaciali come uccelli meccanici e una voce che si inceppa su poche significative frasi, inseguendo l’effetto mantra. Non a caso sullo stesso solco segue “Zimmer”, i cui synth immaginano dei Depeche Mode coverizzati da una band industrial. La voce mantiene il tono catacombale e snocciola solo nomi di hotel, delineando un non luogo fatto di stazioni transitorie e per tale ragione inquietanti.

Il singolo “Giugno Luglio Agosto Nero” cita gli Area nel titolo, ma soprattutto esprime chiaramente la natura spirituale del viaggio, senza rinunciare alla consueta ironia del progetto:

Cerco dio e una minerale
Vorrei parlarti senza dirti niente
Vorrei parlarti al di là di tutto
Mentre affondo in queste spiagge mobili
Capire cosa c’è da capire

(…)

Troppo caldo sono senza ragione
Camere d’albergo e silenzi
Vorrei partire senza dover morire
Le ragazze in topless lo sai non ci sono più
Un ritiro quasi spirituale
Sono apparso alla madonna
Dietro la ghiacciaia dei gelati.

IL LUNGO ADDIO - GIUGNO LUGLIO AGOSTO NERO

Anche “Hotel Splendid” parte da una frase ripetuta fino allo sfinimento “Gioventù portami via/ dalla vecchiaia dalla malattia” su un tappeto ritmico, che subito si colora con synth che uniscono psichedelia e droghe sintetiche:

“Hotel Splendid” è dedicata al mio amico Alessandro Gori, comico e scrittore noto come Lo Sgargabonzi. La canzone descrive la sua vacanza tipica: andare all’Hotel Splendid per un mese e mezzo per illudere la morte e sentirsi immortale… una specie di ritorno all’adolescenza che consente di scappare dalla morte, dalla malattia, dalla vecchiaia e dalle cose che lo atteriscono. E ciò può avvenire solo grazie ai propri rituali: dal menù fisso a dieci euro, al momento in cui ascolta gli Alan Parson Project in balcone e via dicendo…”

Se “Kalumet” è l’unico pezzo che si può riagganciare alle vecchie cose de Il Lungo Addio, essendo l’unico brano che, nel raccontare di un rapporto sentimentale giunto al termine, mantiene una minima componente narrativa, Adriatico” rappresenta probabilmente l’apice del disco, almeno dal punto di vista strumentale: un synth glaciale urla stridulo come una sirena d’allarme e sembra invocare un remix dub estatico alla Andrew Weatherall, mentre l’io narrante del brano va in cerca de “la miglior morte possibile”.

Una morte che non pare giungere mai, come testimonia il brano conclusivo “Dove cadono tutti”, ballata afrobeat, che non sembra mostrare alcuna via di fuga, ma solo una stasi claustrofobica:

Volevo sperimentare. Volevo fare qualcosa di non rassicurante. A me non piace fare sempre lo stesso disco. Mi piace che il pubblico mi segua nelle mie cose. Sono cresciuto apprezzando artisti che hanno sempre sfidato il fruitore, scrivendo o suonando libri o dischi sempre diversi. Se dovessi tornare indietro oggi probabilmente eliminerei i miei dischi per così dire “rassicuranti”. Passerei da “Pinarella blues” direttamente a “Tropico romagnolo” e adesso ad “Adriatico”. In quel momento, ovviamente, sentivo di voler comporre dischi come “Estate Violenta” o  “Fuori Stagione”, ma oggi posso dire che, essendo attratto dai dischi che non sono “comodi”, non ho più voglia di rassicurare… forse perché quello che mi spinge a fare musica è la sfida che si può porre al pubblico sottoponendogli ascolti sempre più ostici… sperando ovviamente di risultare comunque interessante”.

Se dunque il “periodo mistico” di Fabrizio Testa ha finito per far convergere i due percorsi artistici, prima condotti in parallelo, viene da chiedersi, volgendo lo sguardo a ritroso, quali siano stati gli altri punti di svolta della carriera del musicista:

Dovrei partire dall’inizio… Diciamo che tutto è nato quando mi sono trasferito a Parigi. Ero andato via dall’Italia senza un progetto preciso ed ho finito per restarci circa sei anni, mi sono sposato, ho divorziato, ho gestito a lungo un locale e poi sono tornato… ma soprattutto ho cominciato a dare forma all’idea di voler fare qualcosa a livello musicale. A quel tempo cercavo una mia voce. Qualcosa che fosse originale e non suonasse come la copia di quello che sentivo già in giro. Ad indicarmi il percorso furono i Death In June e in particolare il loro disco, prevalentemente acustico, “The Rule of Thirds”. Mi innamorai di quel disco al punto da decidere di comprare una chitarra in un negozio parigino, acquistare in un negozio di articoli per il carnevale una maschera da elefante e cominciare a scrivere canzoni. La scelta della maschera era un po’ una presa in giro di quella ben più inquietante dei Death In June e dà la cifra di come non mi prendessi troppo sul serio… eppure, cominciai a incidere una serie di EP che sono stati poi raccolti nel disco d’esordio de Il Lungo Addio “Disperate abitudini”. Mi trovavo a Parigi… e quello che più mi mancava dell’Italia era la Romagna e così cominciai a scrivere brani che parlavano di quest’uomo che si aggira disorientato per la Romagna e fu come se percepissi che in quelle musiche e in quelle parole, per quanto acerbe e insicure, ci fosse qualcosa di originale e valido. A confortarmi furono le riviste a cui inviai il 45 giri di un brano intitolato “Cesenatico”, ricevendo in cambio delle ottime recensioni. Da lì si arriva, nel 2013, a “Disperate abitudini” che viene recensito bene e fa esplodere in me la voglia di continuare. Decido nello stesso periodo di fondare anche un’etichetta discografica chiamata Tarzan Records, con cui comincio a stampare vinili di artisti che mi avevano colpito. L’esperienza dell’etichetta mi consente di conoscere tutto il mondo dell’underground italiano che prima non frequentavo e, proprio grazie a queste frequentazioni, di stringere amicizia con i musicisti i cui contributi saranno la base su cui costruirò, sempre nel 2013, il primo disco a nome Fabrizio Testa, “Mastice”. A dire la verità, volevo esordire con un disco di field recording, con suoni registrati alle quattro del mattino in Normandia tramite un registratore Tascam preso a noleggio a Parigi. Tornato a casa, però, avevo cominciato a trattare i suoni, finendo per creare i “rumori” sui quali sarei poi andato ad innestare i contributi esterni che avrei poi chiesto in giro: Miro Snejdr, pianista dei Death In June, mi manderà la parte di piano di “Crudo”; in “Alce e Martello”, sulla mia base ritmica, suonata letteralmente con delle martellate, Roberto Bertacchini degli Starfucker inserirà una parte vocale; Gianni Mimmo ci metterà un sax sopra; Cesare Malfatti mi manderà la voce per “Senza orfanità”. Nessuno pretende nulla, a tutti piace semplicemente il progetto. Viene fuori un disco che serve innanzitutto a dimostrarmi che le cose si possono fare in assoluta libertà e che questa libertà è contagiosa e viene percepita anche all’esterno.

A questo punto è chiaro che, prima dell’accoppiata “Ritorno al Sacro”/“Adriatico”, l’inizio di questa avventura musicale è rappresentata dalla coppia “Disperate Abitudini”/”Mastice”. E’ dunque con quei dischi che Fabrizio Testa trova una voce personale che si esprime in due progetti ben distinti: da una parte la sperimentazione più radicale e dall’altra il cantautorato voce e chitarra. Due progetti che prima dell’avvicinamento cui abbiamo già accennato hanno sempre avuto comunque un punto di contatto: l’amore verso il cinema italiano degli anni sessanta che, pure nell’ultimo disco “Adriatico”, viene tirato in ballo con un inserto vocale preso da “Deserto Rosso” di Michelangelo Antonioni

Come ultima domanda chiedo dunque a Fabrizio Testa qual è il suo rapporto con il cinema italiano del passato, omaggiato con titoli spesso di nicchia come “Il giocattolo” di Giuliano Montaldo o “Le stagioni del nostro amore” di Florestano Vancini, ma anche con pellicole trash come “Graffiante desiderio”:

“Il cinema degli anni sessanta italiano è un altro Shangri-là…  qualcosa che non c’è più, ma che ancora oggi restituisce fotografie di un’Italia che credeva ancora a sé stessa. In film come “L’ombrellone” di Dino Risi si racconta un’Italia che nasconde i problemi sotto il tappeto, ma lo fa con una spensieratezza che si pensava potesse essere la spensieratezza che sarebbe arrivata negli anni futuri. Era un periodo in cui si poteva ancora coltivare dell’ottimismo. Ma la cosa davvero affascinante era poi la malinconia di fondo che sembrava suggerire come quella gioia e quell’ottimismo fossero solo di facciata. Che quella naïveté apparente nascondesse in realtà ben altre inquietudini o consapevolezze…Soprattutto i film ambientati nelle spiagge si portano dietro questo traballante sentimento di gioia e serenità che sembra nascondere una disillusione di fondo e mi ha sempre ricordato la mia giovinezza, quando vedevo crollare il mondo attorno a me dal punto di vista politico, morale e ideologico, e – senza neanche crederci in fondo –  permettevo che quelle estati, quella gioia di vivere, quelle atmosfere balneari mi rassicurassero e mi allontanassero dalle mie inquietudini. Questo vale ancora oggi, quando rivedo quei film e non ti parlo solo di film d’autore come “La prima notte di quiete” di Zurlini, ma anche di instant movie come “Abbronzatissimi” o di veri e propri trash movie come “Graffiante desiderio” di Sergio Martino. Film, questi ultimi, che fotografano l’Italia senza filtri artistici. Un film come “Graffiante desiderio” può certamente essere considerato trash, ma ha il merito di fotografare una Romagna tesa e invernale come in pochi hanno fatto: la sua maniera sciatta risulta paradossalmente più vicina alla realtà, simile alla foto che puoi scattare tu stesso con il tuo telefono. Si tratta di documenti non estetizzati dallo sguardo artistico e che forse paradossalmente restituiscono con più precisione e verosimiglianza un certo periodo. Ho sempre trovato molto interessante questa cosa e forse ne sono stato anche piuttosto influenzato”.