Se é vero che il passato é morto solo finché non arriva qualcuno capace di farlo rivivere ed evolvere, negli ultimi mesi abbiamo apprezzato tre dischi che mostrano tre differenti maniere di approcciarsi al passato e in particolare alle sonorità che il rock ha espresso a partire dai celebratissimi anni Sessanta. Ci riferiamo alla scrittura calligrafica dei Lemon Twigs, al classicismo contemporaneo dei Vampire Weekend e alla reverie, titanica e dimessa, di Cindy Lee.

Lemon Twigs “A Dream Is All I Know

Il gruppo dei fratelli D’Addario ha giocato fin dall’inizio della propria carriera con i codici del rock più classico, maneggiando le cosiddette “fonti” con devozione e creatività. Tuttavia, negli ultimi due lavori, la band ha cambiato il proprio approccio alla materia: dai primi “dischi frullatore”, zeppi di citazioni che pescavano sia dal rock più alto e nobile che da quello minore o, in qualche caso, persino deteriore (con uno stuzzicante senso del kitsch che però conquistava), si é passati a una scrittura meno irruenta e scombinata, che pare inseguire unicamente i modelli “alti” dei classici del rock anni Sessanta. La rinuncia alla sregolatezza sembra essere stato il sacrificio necessario per portare a maturazione una scrittura che sembra voler ricreare in vitro alcune delle band più celebrate dei sixties: dai Beatles, ai Beach Boys, dai primissimi Bee Gees, fino a Byrds

Quello che dunque fa arrabbiare i detrattori del duo, ma al contempo manda in sollucchero i fan è l’ostentato disinteresse verso la rinnovazione di quel linguaggio e l’esibita intenzione di scrivere dei perfetti “falsi d’epoca”, quasi come se con le loro incisioni i D’Addario si fossero proposti di vincere una personale scommessa: quella di scrivere brani che in una playlist possano passare “inosservati” tra una canzone di Macca e una di Brian Wilson. 

Una scommessa che in “A Dream Is All I Know” può dirsi vinta, grazie a brani che non nascondono i propri modelli di riferimento, ma anzi sembrano mostrarli con orgoglio: i Beach Boys di “In The Eyes Of The Girl”, gli Zombies di “How Can I Love Her More?”, i Byrds di “If You And I Are Not Wise”, il Paul McCartney di “A Dream Is All I Know”, il Lennon di “Church Bells” fino al corto circuito tra Marc Bolan e Brian Wilson di “Rock On (Over and Over)” che chiude il disco.

The Lemon Twigs - A Dream Is All I Know (Official Video)

Insomma, il dibattito é certamente aperto: da un lato i detrattori che lamentano l’assenza di mistero in canzoni che sembrano del tutto “svelate” già a partire dalla prima nota, mostrando da subito riferimenti e confini cui si atterranno, con un’aderenza alle forme che tradisce in realtà proprio lo spirito degli anni Sessanta, decennio d’oro proprio perché colmo di febbrile anelito all’innovazione; dall’altro i sostenitori che non si stancano di provare e riprovare le attrazioni del gigantesco luna park musicale messo in piedi dai fratelli D’Addario e ammirano – in questa visita guidata nei meandri del classicismo rock – una calligrafia talmente curata da bastare a se stessa.

Probabilmente proprio il raggiungimento di tale perfezione formale (difficilmente migliorabile?) potrebbe far giungere detrattori e sostenitori, da opposte direzioni, al medesimo auspicio, ovvero che – esaurita questa fase – i Lemon Twigs tornino a battere le strade più personali degli esordi, quando tutte le loro influenze venivano messe al servizio di una creatività che cercava una propria strada.

Vampire Weekend  “Only God Was Above Us”

Sfida del tutto differente quella che invece i Vampire Weekend lanciano alla canzone rock. Il gruppo di Ezra Koenig sembra infatti usare il “linguaggio maggiore” del rock non per rendere omaggio (da fan), ma per farsi prosecutore di quella tradizione (da pari), ibridandola e facendola progredire, utilizzando all’uopo sonorità moderne, intese non tanto come suoni allineati al gusto del proprio tempo, quanto figlie di quel tempo, tali da non poter essere concepite se non in quel preciso momento storico e tecnologico.

I nostalgici di quel rock che ambiva anche a misurarsi col mercato mainstream e a incidere su di esso probabilmente aspettavano da tempo un disco come “Only God Was Above Us”, capace di unire forma e sostanza e di vantare una perfetta sinergia tra scrittura di altissimo livello e produzione dalla forte identità. Un’opera capace di parlare contemporaneamente a cuore, corpo e cervello. Insomma un lavoro che, senza farci sperare in rivoluzioni impossibili, desse una misura del possibile e fornisse un’istantanea del presente alla quale ritornare negli anni per ricordarci del “qui e ora”.

E dunque, cosa ci racconta questo disco? Racconta di un tempo in cui è ancora possibile scrivere canzoni che abbiano la statura dei classici e in cui il rock è capace di inglobare elementi provenienti da altre grammatiche senza farsene soffocare.

Una canzone come “Capricorn” sembra provenire direttamente dalla storia maggiore del rock, senza mai dare l’impressione di ricalcare alcun modello predefinito, ma risultando perfettamente compiuta in sé; un brano come “The Surfer” con il suo intro in odore di Trip-Hop, o come “Connect” con il pregevole lavoro di manipolazione delle parti di pianoforte o, infine, come “Mary Boone”, che accosta elementi cripto-urban e cori bianchi riuscendo a camminare in perfetto equilibrio sul filo che divide il sublime dalla sua rovinosa caduta, mostrano un suono che accoglie mille influenze e sfaccettature, senza mai perdere di vista l’obiettivo di risultare perfettamente sinergico a una scrittura che non scopriamo certo adesso tra le migliori di questa generazione di autori. Il lavoro dei Vampire Weekend assale l’ascoltatore con la nitida sensazione che si tratti di “un’opera maggiore”, dove tutto è al posto giusto, dai ritornelli memorabili (“Prep-School Gangster”), alle chitarre sghembe di “Classical”, da quelle post-punk per hipster di “Gen-X Cops”, fino ad arrivare alla chiusura rappresentata da “Hope”, che dice molto di questo disco e in generale dei Vampire Weekend: sorta di personalissima versione di “Death is not the End”, rappresenta una chiusura epica, ma in qualche modo dimessa, che invita l’ascoltatore a perdersi nel singalong del brano alla stessa stregua di classici che chiudevano capolavori come “Beggars Banquet” o “Music From The Big Pink”.

Vampire Weekend - Hope (Official Visualizer)

Eppure, occorre anche constatare come “Only God Was Above Us” rappresenti anche la perfetta fotografia di un tempo in cui persino un’opera maggiore come questa risulta schiacciata dai tempi ipersaturi che la accolgono. Ci saremmo infatti aspettati che “Only God Was Above Us” ricevesse un’attenzione maggiore e un plauso unanime, mentre al momento in cui scriviamo ci pare che il lavoro sia passato piuttosto inosservato. 

Cindy Lee “Diamonds Jubilee”

In questa breve trattazione Cindy Lee e il suo capolavoro “Diamonds Jubilee” potrebbe apparire fuori luogo. Dopotutto Cindy Lee proviene dal circuito indipendente e, in passato, dopo aver sciolto la sua prima band (i Women), ha pubblicato dischi a metà tra il lo-fi e il cosiddetto pop ipnagogico, e dunque associarlo a “classicisti” come i fratelli D’Addario o al massimalismo di Ezra Koenig potrebbe sembrare un azzardo… ma – se pure l’approccio di Cindy Lee risulta del tutto differente a quello dei nomi sopra citati – uguale in fin dei conti appare l’influenza sul musicista degli anni Sessanta e l’amore verso il songwriting sviluppatosi in quegli anni. Con “Diamonds Jubilee” Patrick Flegel, titolare del moniker Cindy Lee, compie infatti un deciso passo verso una scrittura molto più attenta all’equilibrio della canzone e rinuncia alle pulsioni più avant e a quelle che – a ragione – lo avevano iscritto alla scena del pop ipnagogico assieme ad artisti come Ariel Pink, Neon Indian e Sun Araw.

Rispetto a Lemon Twigs e Vampire Weekend, il metodo adottato da Cindy Lee appare certamente più minimale: la sua tavolozza contempla pochissimi colori, ma – come spesso capita – la vera creatività può nascere proprio dai limiti che ci si è imposti… e così i pochi elementi scelti da Cindy Lee (la sua voce, la sua chitarra, qualche synth e sparute batterie/percussioni) vengono ricombinati in maniera continuamente differente lungo tutti i trentasei brani che compongono il disco, producendo due ore di musica, dove a fare la differenza sono i dettagli che piano piano si fanno strada nella memoria dell’ascoltatore, finendo per delineare le forme perfettamente compiute delle canzoni. Il lavoro straordinario di Flegel alle chitarre a volte sembra tremolare e sfocare la consistenza stessa del suono, come certi effetti vintage del cinema in bianco e nero, che introducevano le sequenze oniriche o i flashback. Tale perizia chitarristica viene perfettamente completata dall’abilità e dal gusto creativo con cui vengono arrangiati i brani, in un processo che fiacca l’ascoltatore, ma a cui lo stesso non può sottrarsi: melodie e arrangiamenti cominciano a farsi strada nella memoria, al punto che ben presto ogni singola nota del disco viene ricordata ed assimilata anche se magari non ancora ben collocata tra i singoli episodi. 

Questo non deve far pensare che “Diamond Jubilee” non sia composto da canzoni capaci di stare in piedi da sole, fuori dal flusso sonoro rappresentato dal disco. A partire dall’incipit dell’omonima canzone che apre il disco e che, quasi programmaticamente, fa seguire a un intro ipnagogico, sospeso tra veglia e sonno, una melodia meravigliosa che si staglia perfettamente compiuta, senza alcun rimando se non all’arte che essa stessa rappresenta. Cindy Lee farcisce l’intero disco di perle, passando dallo psych-blues di “Baby Blue”, al Syd Barrett country di “Demon Bitch”, dagli strumentali “Realistik Heaven” (infuso di una grandeur allo stesso tempo struggente e dimessa), “GAYBLEVISION” (un devastante synth-pop, trafitto da chitarre noise) e “Darling Of The Diskoteque” (che mischia chitarre liquide ed hawaiane e si concede piacevolezze country-jazz), fino al sogno anni Cinquanta di “Deepest Blue”, ai Beach Boys sabotati da chitarre fuzz di “If You Me Hear Crying” e al finale tutto in rarefatta elevazione di “24:7 Heaven”.

Cindy Lee - Demon Bitch

Cindy Lee allinea una dietro l’altro una serie di canzoni formidabili, finendo per consegnare un mastodonte imbevuto di spirito sixties, dove le fonti originarie sono talmente deformate dalla visione personale del musicista da giungere all’ascoltatore come rinnovate, in forza di una visione unica e originale, così come unico e originale è lo spirito del musicista, brillantemente trasposto nei solchi del disco. 

Diamonds Jubilee” ci ha fatto pensare a una versione moderna di “Oar” di Alexander “Skip” Spence e Patrick Flegel ci sembra abbia davvero  buttato il cuore oltre l’ostacolo, in cerca del nocciolo più vero della propria musica, che non è nostalgica, non ha sovrastrutture concettuali ed appare nuda e – finalmente! – davvero creativa. Nel pagare dazio al passato, lo si è oltrepassato, generando qualcosa di intimamente personale: un ibrido tra il modello originale, trent’anni di musica freak, indipendente e psichedelica e la propria visione delle cose. Il tutto confezionato da una produzione nebbiosa e psichedelica utilizzata per conferire al disco una dimensione atemporale (e dunque tutt’altro che nostalgica o retromaniaca).

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Cindy Lee, Vampire Weekend e Lemon Twigs scattano tre diverse fotografie del medesimo momento storico. Un momento in cui sembra finito il tempo in cui la “nostra musica” risulta capace di incidere sull’immaginario comune e sul costume. Ma nell’attesa della prossima rivoluzione – che confidiamo giungerà prima o poi – non possiamo che intrattenerci con dischi che celebrano nient’altro che il proprio momento artistico, sperando che questo riesca a entrare in connessione con l’ascoltatore.

Che sia il citazionismo alto dei Lemon Twigs, l’hipsterismo maturo e consapevole dei Vampire Weekend o la visita guidata apparecchiata da Cindy Lee negli angusti spazi interiori della propria scatola cranica, possiamo entrare in rapporto con una musica che pare intercettare il nocciolo della questione: scrivere canzoni che possano emozionare, divenendo uno di quei luoghi cui ci è caro tornare…
Come dicevano, d’altronde, i Boston? “I lost myself in a familiar song/ I closed my eyes and I slipped away…”