Che la tappa milanese del tour che ha segnato il ritorno dei La Crus sul palco potesse risultare in qualche modo speciale era prevedibile, visto il legame della band con la propria città d’origine.
Una Milano che il gruppo di Mauro Ermanno Giovanardi e Cesare Malfatti non ha solo cantato e celebrato, ma ha anche colto e fotografato in un momento in cui, all’alba degli anni Novanta, stava cambiando pelle e anima, trasformandosi dalla città che era stata a quella odierna, proiettata nel futuro all’inseguimento di modelli con buona probabilità sbagliati. Non era forse questo trapasso a ispirare quel senso di perdita e malinconia, sempre molto stilosa e composta, che si scorgeva tra le note della band?
Ma la conferma che si trattava di una serata speciale é arrivata quando persino Alex Cremonesi, terzo membro “occulto” della band (nonché protagonista in proprio di un vero gioiello intitolato “La prosecuzione dell’amore con altre forme”) si è palesato sul palco per cantare con voce malferma, ma piena di emozione “Io non ho inventato la felicità”, brano tratto dall’ultimo splendido disco, “Proteggimi da ciò che voglio”. Un’esecuzione, quella di Cremonesi, che ha avuto il pregio di regalare al pubblico una sorta di “dietro le quinte” del lavoro del gruppo, mostrando – con un senso di condivisione quasi familiare – una dimensione di solito non concessa ai fan: quella in cui nasce l’idea della canzone, prima di essere affidata alle calde e confortevoli corde vocali di Mauro Ermanno Giovanardi; ovvero il frontman del gruppo che si presenta vestito di pelle con i consueti occhiali scuri a schermare uno sguardo che si è fatto ancora più affilato, visti i tantissimi chili persi che lo hanno reso più fragile nell’aspetto, ma non nella resa vocale, che rimane sicura e perfettamente intonata in ogni momento della performance.
Alla sua destra il socio Cesare Malfatti si destreggia tra due chitarre acustiche, ritagliandosi il ruolo di regista defilato di una formazione completata da Leziero Rescigno alla batteria, Chiara Castello alle tastiere, cori e vocalizzi e Marco Carusino al basso.
Una band impressionante per coesione e capacità di gestire lo spazio sonoro: la scelta di lasciare un’unica chitarra, quella affidata alle parsimoniose mani di Cesare e alla sua economia di tocchi, si sposa perfettamente con l’atteggiamento altrettanto misurato di Chiara Castello (vero valore aggiunto della formazione: jolly vocale e strumentale), stimolando un interplay tra i due musicisti che risulta allo stesso tempo ricco e sobrio. La base ritmica è solida e puntuale, con il basso rotondo di Carusino e la batteria di Rescigno, che si concede anche raffinatezze nascoste, senza perdere mai di vista groove e mood dei brani.
E poi ci sono ovviamente le canzoni, prelevate da un repertorio ormai più che trentennale, da cui è facile pescare la scaletta perfetta. Come quella della serata che vi raccontiamo e che ha anche avuto il pregio di aver evitato l’effetto da “greatest hits” autocelebrativo, preferendo piuttosto dimostrare come “Proteggimi da ciò che voglio” non è stato un ritorno utile solo a riportare in giro una sigla storica, ma ha rappresentato piuttosto l’esito di un’ispirazione felicissima, i cui brani non sfigurano affatto accanto ai classici della band, ma vi sfilano a fianco senza soluzione di continuità in un flusso avvolgente e, come da poetica del gruppo, notturno.
E se dunque si sceglie di avviare le danze con il medesimo incipit del disco, la brachicardica e pulsante “La pioggia”, involuta come i migliori tormenti interiori, uggiosi e poetici, subito dopo arriva energica una “Mentimi” (da “Io non credevo che questa sera” del 2008), per poi tornare al nuovo disco con una “Shitstorm”, avvolgente grazie al calore confortevole della voce di Giò. Si ha il tempo di tornare indietro al 1997 con il classico “Come ogni volta” e al 1995 con il recupero per intenditori di “Nera signora”, per riproiettarsi verso il presente con lo stomp blues di “Mangia dormi lavora e ripeti”. Seguono senza soluzione di continuità classici passati (“Natale a Milano”, “L’uomo che non hai”), futuri (“Discronia”, “La rivoluzione” con una Chiara Castello che nel finale si fa carico della parte di Vasco Brondi) ed acquisiti come quella “Io Confesso”, entrata ormai a pieno titolo nel carniere dalla band.
Impreziosisce il tutto la presenza dello storico trombettista della band Piero Milanesi che si unisce al gruppo per “La nera signora”, “Natale a Milano” e per una “Tutto è dentro me”, scippata e mai più restituita ai Detonazione, che la tromba di Milanesi, l’acustica di Malfatti e la voce di Giovanardi rendono una sorta di preghiera officiata per un pubblico in religioso silenzio. Fino ad arrivare alla performance di Cremonesi di cui si diceva all’inizio.
C’è tempo per i bis che, oltre al rientro intimo di “Stringimi ancora”, celebrano due dei numi tutelari su cui é stata programmaticamente forgiata anni fa l’identità dei La Crus: Piero Ciampi e Giorgio Gaber. Il primo viene omaggiato con il classico, divenuto anche caposaldo della band, “Il vino”, in una versione cui riesce il trucco di risultare energica, ma senza perdere in poesia e intimità e di trasformare l’abisso di dolore di Ciampi in una catarsi collettiva, che trova il proprio culmine nel coro del brano, utilizzato dal pubblico anche per richiamare un ulteriore bis di Cesare e Giò, che accontentano un locale adorante e “sold out” con il secondo omaggio: i due La Crus rendono onore a uno dei brani più belli di Giorgio Gaber, “L’illogica allegria”, con una versione acustica e pacificata, perfetta per prendere commiato dal proprio pubblico e consegnarlo nuovamente alla città di Milano.
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