Sulla copertina del disco d’esordio dei Maverick Persona compaiono due scimmiette che fissano un televisore posizionato su un grosso masso. Nel retro della copertina, le due scimmiette sono sostituite da due uomini accovacciati nella stessa posizione. I due uomini dovrebbero rispondere al nome di Matteo D’Astore (in arte “Deje”) e di Amerigo Verardi. “Dovrebbero” in quanto in realtà le due immagini, come quelle presenti nel booklet del cd, sono generate al computer da un programma di AI e forniscono uno dei leitmotiv del lavoro: il digitale che viene manipolato in modo da apparire reale e analogico, ma lasciando un retrogusto di sinistra manomissione. 
C’è questo in “What Tomorrow”, ma anche molto altro… al punto che abbiamo chiesto ai due autori di parlarne diffusamente, scoprendo di avere di fronte una coppia assolutamente ben assortita: da un lato una leggenda della musica indipendente italiana, dall’altro un ragazzo appena ventenne che sembra manipolare note e sonorità con la stessa facilità del proprio respiro.

Buona lettura!

Partiamo da te, Matteo. Innanzitutto perché Amerigo lo conosciamo da un po’… e poi perché vorremmo sapere come è nata questa particolare alchimia che si preannuncia – come avrete modo di dirci – proficua… 
Matteo: Io e Amerigo ci siamo conosciuti nel 2021, in occasione della creazione di una radio web che avrebbe dovuto operare su Brindisi. Amerigo era il coordinatore/direttore ed io mi ero proposto perché interessato da sempre al mondo delle radio, così come all’idea di avere un “luogo” in cui poter passare la mia musica. In un primo momento, non ho fatto alcuna menzione del mio essere anche un musicista… Un po’ perché mi vergognavo, un po’ perché ancora non avevo trovato una mia dimensione. Poi, chiacchierando, ci siamo accorti di quanto fossimo simili musicalmente e di come ad esempio entrambi fossimo cresciuti con il jazz e da lì credo che in Amerigo sia sorta l’idea di provare a collaborare…

Amerigo: Sì, chiacchierando con Matteo, nonostante la differenza di età, ci siamo accorti di avere tanto in comune e dunque ci siamo detti che, anziché uscire o andare fuori a bere, si poteva provare a fare qualcosa di nostro… insomma, potevamo provare a cucinare qualcosa in quello che sarebbe diventato il nostro piccolo studio, a casa di Matteo. Era l’estate del 2022 e il nostro metodo di lavoro è arrivato subito e in maniera spontanea: lavorare assieme nella stessa stanza, senza mandarci file o portarci il lavoro a casa separatamente. Tutto doveva avvenire in diretta con un continuo scambio di idee. Abbiamo capito subito che questo era il “nostro” metodo e così, con poche ma proficue session, abbiamo terminato il primo disco e sull’onda di questo flusso così veloce e stimolante ne abbiamo terminato un altro che abbiamo intenzione di pubblicare entro l’anno.

Con questo disco Amerigo Verardi torna a cantare in inglese… Come mai questa scelta? E’ stata dettata anche questa dalla velocità di lavorazione del progetto? Lavorare con l’italiano ti avrebbe “costretto” a un lavoro di cesello che mal si sposava con il flusso tumultuoso che ci avete appena descritto?
Amerigo: Sicuramente scrivere in italiano porta a un maggior cesello, ma penso sia naturale quando scrivi nella tua lingua…e dunque l’inglese assicurava una maggiore velocità che risultava più adeguato al nostro “metodo” che come dicevo è stato da subito di fare tutto dentro il nostro studio: tutto il processo creativo viene portato avanti insieme e questo perché ci divertiamo ed è bellissimo creare musica in questo modo e non vediamo perché dovremmo toglierci il piacere di “giocare” assieme. Il secondo motivo è che da subito ci è parso che quello che poteva venire fuori poteva avere un respiro internazionale, proponibile anche al di fuori dei confini italiani e dunque l’inglese ci é sembrata la lingua giusta semplicemente perché é la lingua più parlata… Se la lingua più parlata nel mondo fosse stata il somalo avremmo scritto il disco in Somalo. Poi chiaramente io non conosco il somalo, ma questo sarebbe stato solo un dettaglio…

Torniamo a te, Matteo. Parliamo dei tuoi inizi come musicista. Prima hai detto che all’inizio non ti sentivi pronto ad esporti e a “dichiararti” come musicista… Cosa ti ha fatto capire che eri pronto?
Matteo: Beh, innanzitutto va detto che non si é mai pronti come musicisti e che – al di là delle banalità – davvero non si smette mai di imparare… Ad ogni modo, ho iniziato a suonare la batteria a otto anni. Prima in band di musica prog, funk, fusion, poi in progetti di hip hop, in cui suonavo le basi per degli amici… Diciamo che fino ai 18 anni ho sperimentato parecchio, fino a quando ho dovuto fermarmi per problemi fisici che non mi consentivano più di suonare la batteria. Ho cominciato allora ad approcciare la produzione hip hop: andavo ancora a scuola, l’hip hop era diffusissimo e poi era la cosa più semplice e pratica da fare! Prendi un campione, un sample, lo tagli, ci metti le batterie sopra e la base è pronta per chi vuole rapparci sopra… Però a quel punto ho cominciato a studiare meglio il pianoforte: usavo i synth da un po’ e sentivo il “richiamo” dello strumento. Il momento in cui mi sono sentito più sicuro di me stesso come musicista è stato probabilmente quando ho cominciato a studiare seriamente l’armonia e in particolare l’armonia jazz… e allora ho cominciato a comprendere meglio quello che facevo e questo ha influenzato anche tutta la mia attività di producer e di manipolatore del suono.

Il vostro suono è davvero molto contaminato e interessante. Si va dal jazz, alla sperimentazione più libera, dalla musica etnica alla fusion alla Pat Metheny. Una serie di influenze che non suonano mai fredde o scolastiche, grazie anche agli spiritelli pop e psichedelici che da sempre infestano le produzioni di Amerigo, ma anche a una bella commissione fra musica suonata, programmata e campionata… Da dove partivate per giungere al brano finito?
Matteo: Per lo più dalle percussioni e dalle batterie. Quasi sempre da un sample di batteria o magari da un drone o un bordone di tastiera… La cosa bella di lavorare nella stessa stanza é proprio questa: quando prendo a costruire l’armonia con gli accordi, subito Amerigo comincia a cantarci sopra. Poi magari si aggiungono altri campioni o delle linee di tastiera per vedere se funziona! 

Amerigo: E’ davvero tutto molto spontaneo e naturale. Mentre Matteo sta cercando una buona progressione armonica o magari sta smanettando sul suono, io sto già scrivendo una parte di testo o spogliando un libro per trovare l’ispirazione o “campionare” qualche frase… Insomma, in breve il pezzo si evolve e dallo scheletro del pezzo si arriva alla traccia finale. 

Amerigo, in passato hai avuto delle collaborazioni musicali molto stimolanti. Ne cito due su tutte: quella con Alessandro Saviozzi (chitarrista degli Allison Run) e quella con Silvio Trisciuzzi (Lotus, Freex). Parlo di musicisti con cui mi sembra tu abbia stabilito una connessione particolare, di quelle che sono capaci di unire due individui tramite la materia musicale… La domanda é: quella con Teo è una partnership di quel tipo? 
Sicuramente i due nomi che citi sono stati dei musicisti straordinari con cui ho davvero condiviso tantissimo a livello umano, musicale e spirituale, ma ce ne sarebbero altre come ad esempio Giovanni Ferrario, con me nella seconda formazione dei Lula. 
Si tratta di unioni particolari che prescindono il rapporto di amicizia. Parliamo di affinità e di sensibilità intellettive… la musica è una cosa che bacia chi vuole lei… e non è detto che a una bellissima amicizia tra individui, corrispondano dei buoni risultati artistici. Con Matteo oltre al livello umano e di amicizia fraterna ci muoviamo anche su un terreno artistico. 

Poi entrando nel merito del rapporto, la mia esperienza con Teo è assolutamente peculiare: una persona più giovane di me e con un background per certi versi anche molto differente è riuscito a tirare fuori da me risorse che non ero mai riuscito a far venire fuori. Prima fra tutte la velocità nell’approccio alle cose, ma anche nella realizzazione e nello sviluppo delle idee musicali: se nella vita sono uno che se la prende comoda, nella musica sono sempre stato un iperattivo, una persona consumata dall’ansia di vedere realizzata la visione musicale che lo aveva colto. Il piacere di fare musica per me è sempre stato tale che mi ha sempre proiettato avanti nel tempo, più avanti del tempo necessario per la sua stessa realizzazione. Con la velocità di realizzazione dei Maverick Persona, è come se si fossero finalmente allineate la mia fame ed ansia di musica e la sua realizzazione. 
Un desiderio di velocità che ho sempre posseduto e che oggi la tecnologia e le nostre abilità stanno rendendo per la prima volta davvero possibile, creando – come fosse un volano – una sinergia e un entusiasmo che enfatizza in un circolo virtuoso la nostra stessa efficienza.

Di “What Tomorrow” colpisce l’atmosfera musicale che percorre tutto il lavoro e a cui concorrono dei testi molto interessanti, che ci sembrano figli di un approccio allo stesso tempo politico e visionario? Come sono nati?
Amerigo: Nello stesso modo in cui é stata lavorata la musica, né più né meno. E dunque stimolandosi a vicenda nelle suggestioni che i suoni ci davano e utilizzando le parole di altri libri come “campioni” da immettere all’interno dei testi che stavo scrivendo, in modo da generare strane commistioni, che magari solo ore o giorni dopo svelavano il loro significato.
D’altronde è quello che mi succede anche con i testi in italiano: a volte capisco con settimane o mesi di distanza il “perché” di un testo… certo, a volte magari non lo capisco mai e allora mi accontento di sentirlo dire dagli altri, che sicuramente è molto più comodo e spesso anche più divertente… 

Parliamo adesso della scaletta del disco che mi sembra un’altra delle ragioni della riuscita del disco. Mi sembra una scaletta strutturata con una precisa dinamica. La prima canzone vera e propria. “I’m in the kitchen, she’s in the car” arriva solo al sesto brano, mentre prima ci si trova in balia di un magma eccitante con parti musicali che entrano, escono e poi ritornano, riff che si susseguono e voci che intonano cori e melodie. Un bombardamento interrotto da “I’m in the kitchen, she’s in the car” e soprattutto da “What Tomorrow”, forse l’apice dell’equilibrio tra la scrittura pop di Amerigo e le alchimie sonore di Matteo. Dopo il buco nero rappresentato da “Dark Hotel”, pezzo colossale, deriva psichedelica con un momento centrale iper dilatato, con protagonista un synth a metà tra una tromba morriconiana e un organo di Robert Wyatt (confesso di aver pensato: “Wow! Nessuno aveva mai messo assieme Morricone e Robertino Nostro!”) arriva un finale sinistro ed evocativo su cui torneremo… Insomma, il disco ha una dinamica e struttura forte. Come è nata? E’ stata decisa a tavolino oppure é stato solo un assecondare il “flusso”?
Matteo: Finiti i brani, abbiamo fatto diverse prove di scalette, tutte molto diverse… in comune probabilmente solo il pezzo di apertura e quello finale… cercavano di farci guidare dalla musica stessa, dai rimandi tra un pezzo e un altro, tra gli attacchi e i finali dei vari brani… Insomma, una cosa di pancia, cercando di creare una montagna russa che passasse dalla bellezza, al soul, scendesse, risalisse arrivasse a Dark hotel che è un ecosistema a parte perché sono quattro pezzi in uno… fino a quando abbiamo delegato a una persona esterna la decisione!

Amerigo: Vero: alla fine per la scaletta ci ha aiutato la mia compagna, Anastasia Luceri. Non sono bravissimo a trovare un ordine alle cose e anche a dare nomi e cose così… Anastasia è una persona molto empatica e quando ha tirato fuori questa scaletta, ho detto: “é questa!”. Matteo é stato d’accordo e così abbiamo deciso. Prima citavi “Dark Hotel” ed effettivamente è uno dei brani di cui andiamo più orgogliosi. E’  diviso in quattro parti ed è nato da un assemblaggio di spunti interessanti, cui ha fatto da contraltare l’immagine di questo albergo abbandonato nel tempo, vissuto da presenze misteriose ed oscure e poi  ecco le scimmie del giardino, l’umanoide che sembra essere il tipo che sta nella hall e dà le chiavi e ti porta nelle stanze e poi il corridoio dove accadono cose misteriose con personaggi che sembrano appartenere al passato o forse al futuro… poi si prende l’ascensore e si arriva ai piani alti dove si sta svolgendo questo meeting fra partiti politici oscuri e presenze inquietanti, dove si fanno patti dai contorni non definiti e criptici… d’altronde anche “Dark Hotel” è un’espressione che appartiene al mondo degli hackers … C’è stato un rimando continuo tra il testo e la musica: se le sonorità hanno ispirato le prime parole,  man mano che la visione diventava vorticosa, la musica ne scriveva le evoluzioni… E’ stato un susseguirsi di influenze, un mandarsi degli stimoli a vicenda e il tutto con una rapidità non comune. 

Per quanto riguarda il momento centrale per il quale tiri in ballo Morricone e Wyatt, noi avevamo in mente Sun Ra, che in quel periodo ascoltavamo in continuazione, per cui quando è arrivato questo momento in cui il pezzo era planato su questa deriva desertica e Matteo ha cominciato a improvvisare sul synth ho premuto REC e gli ho detto di proseguire: se senti il tuo compare che sta andando da Dio che fai? Lo fermi perché si era deciso di passare a un altro segmento!?

… e infine si arriva al brano finale, “Change The Course Of Fate”, una chiusura perfetta che parte con questa voce tra il nasale e il paranoico che ricorda il Roger Waters degli ultimi Pink Floyd e poi nel crescendo finale si trasforma quasi in un accorato augurio per l’umanità con un testo che ripete più volte il desiderio e l’auspicio di cambiare il corso del destino e diventa quasi una preghiera, un’invocazione. L’ho trovato un finale bellissimo…
Amerigo: E’ stato in ordine cronologico l’ultimo pezzo che abbiamo finito e da subito ci è sembrato un pezzo di chiusura… un’apoteosi in termini di climax… Musicalmente  si tratta di un pezzo che rispecchia molto la nostra idea di manipolazione elettronica, perché sinesteticamente lo sento un pezzo che restituisce una sensazione di freddo, di rotondo, ma allo stesso tempo mantiene il calore dell’analogico…

Matteo: E’ il pezzo emotivamente più forte del disco. Alcuni passaggi mi mettono i brividi anche a livello di immagini, come quella del prete che bestemmia al cielo e conduce verso il finale della canzone e dell’intero disco. 

Ci perdonerà Matteo, ma – da autore di una biografia su Amerigo Verardi – vorrei sapere dalla sua viva voce come si colloca questo progetto rispetto alla tua ultima fase. Quella cominciata con “Hippie Dixit” e proseguita con Un sogno di Maila.
Amerigo: E’ una domanda difficile. Come sai, ho coltivato diversi progetti, inevitabilmente frammentari… nel momento in cui ami collaborare e hai il piacere di farlo con mille persone e su progetti spesso completamente diversi l’uno dall’altro. La conseguenza è che a volte non riesci proprio a capire dove sia o se c’è un filo conduttore capace di unire le cose che fai o se invece le cose si evolvono semplicemente in maniera naturale, grazie magari ad eventi straordinari, come ad esempio l’incontro con un’altra persona a te affine, che rappresenta sempre a mio avviso un evento straordinario… Posso solo dire che non sono interessato a mantenere dei modelli o ad attenermi a delle regole. Le mie canzoni, i miei album, le mie collaborazioni, la mia intera carriera… questa è vita e quindi come la vita può essere interrotta bruscamente da un evento oppure può essere la concatenazione naturale di eventi armonici…  come nel percorso della vita, né più né meno. Non ho mai inteso il mio fare musica come una carriera, ma come parte della mia vita.

Allora, proviamo noi a tracciare un filo conduttore tra “What Tomorrow” e i tuoi ultimi lavori solisti, partendo dal concetto di “musica viva”, intesa come musica capace di muoversi continuamente e di apparire sempre nuova all’orecchio, perché composta da fondali cangianti e sovrapposizioni di strutture… Anche nel lavoro dei Maverick Persona ritrovo questo tentativo di creare un disco cangiante, in cui – dati gli innumerevoli elementi presenti – a cambiare è di volta in volta l’elemento che la tua mente sceglie di mettere in primo piano e a fuoco, lasciando gli altri sullo sfondo, in un gioco che varia ad ogni ascolto…  
Amerigo: Per me questo della musica vivente è un credo: fare musica dovrebbe essere una cosa piacevole da fare e poi da ascoltare anche a distanza di tempo. I dischi che amo di più sono quelli che si muovono ascolto dopo ascolto e che nel corso dei giorni e delle settimane fanno affiorare suoni che non avevi percepito e che poi ancora nei mesi, negli anni e nei decenni fanno ancora affiorare tante altre cose che razionalmente non potevi cogliere, perché la musica ha tutta una serie di significati che non può essere colta tutta contemporaneamente e nello stesso momento. Quando si compone musica si dovrebbe cercare di lavorare per suggestioni, non puntare a creare degli strati di suono solo per il gusto di creare strutture complicate… per creare musica viva, occorre essere vivi come musicisti, accondiscendenti verso quella grazia che in qualche modo ti sta arrivando, in modo da preservarla nel migliore dei modi. Solo così quella magia – che non può essere frutto della mia o della sua mente, ma è qualcos’altro che viene da chissà dove… – si rivelerà poi nel tempo, magari svelando via via tutti i suoi significati.

Cosa vi aspettate dal punto di vista musicale dall’esperienza Maverick Persona?
Amerigo: La ricerca sonora. Certi suoni, certi campioni hanno la capacità di comunicare sensazioni che vanno al di là dei suoni stessi e creano una connessione con altre persone che li ascoltano. E questo credo abbia più a che fare con l’alchimia o con la magia nera ed è quello che cerco da sempre, di sicuro negli ultimi venti anni… incontrare un ragazzo giovane come Matteo che era già così preparato ad accogliere questa modalità di fare musica mi ha sorpreso. Quello che mi interessa di più dal punto di vista tecnico è l’elettronica: l’apparente freddezza del mezzo e la possibilità di creare mondi alternativi totalmente sintetici ed artificiali che però possono suonare più reali e concreti di certe musiche spudoratamente analogiche.

Matteo: A me interessava fondere l’elettronica e la manipolazione con il jazz, inteso come approccio mentale più che come genere musicale. Non mi interessa il jazz che si suona nei locali, ma la filosofia che lo innerva ovvero la libertà di improvvisare sulla musica in una determinata maniera che solo chi comincia a studiare e a smontare i meccanismi del jazz può comprendere. Io sto ancora studiando davvero come fare…

Ultima domanda: sappiamo che avete già pronto un nuovo lavoro… 

Amerigo: E’ già pronto e mixato. Siamo veloci anche grazie all’abilità tecnica di Matteo che quando comincia a lavorare é in grado di portare un prodotto che magari non é completo al 100%, ma lo è al 95%
E’ un lavoro figlio dello stesso momento creativo, registrato quasi senza soluzione di continuità rispetto al primo disco, ma sono presenti anche delle differenze.

Matteo:  Sicuramente si muove su altri piani… è molto molto più sperimentale almeno per ciò che mi riguarda, molto più elettronico nella sua struttura interna, ma non sono sicuro che suonerà più elettronico alle orecchie… ci sono campionamenti e programmazioni, ma allo stesso tempo, lo ritengo molto umano, in quanto abbiamo voluto emulare certe frequenze analogiche. 

Amerigo: Chi lo ha ascoltato lo ha definito più freddo più chirurgico… 

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Restiamo in attesa.