“Nessuno vi può consigliare e aiutare, nessuno. C’è una sola via. Penetrare in voi stesso. Ricercate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate s’essa estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere. Questo anzitutto: domandatevi nell’ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere? Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta. E se questa dovesse suonare consenso, se v’è concesso affrontare questa grave domanda con un forte e semplice «debbo», allora edificate la vostra vita secondo questa necessità”.

R.M. Rilke, “Lettera a un giovane poeta

Prologo

Un giovedì di gennaio del 2024, Gianluca Massaroni, in arte Massaroni Pianoforti, si sta esibendo in un locale di Milano. Presenta in anteprima il suo nuovo disco, intitolato “Maddi”, quinta fatica del cantautore di Voghera, che segue di ben cinque anni il lavoro precedente “Rolling Pop”, edito nel 2019.
Tra i pezzi che Massaroni propone in anteprima, è possibile sentire “Enzimi”, brano che presenta i consueti elementi della poetica del ragazzo, enfatizzati dalla vulnerabilità tipica delle versioni piano e voce: una melodia che profuma di mainstream italiano anni settanta, una voce – a metà tra Claudio Baglioni e Rino Gaetano – capace di armonizzare ogni parola e adagiarla perfettamente sul rigo musicale e, infine, un pianoforte su cui appoggiare scale e accordi.
Nel finale del pezzo, Massaroni si domanda, assieme al ritornello: “Ma dove sta la felicità?” e, preso dall’intensità del momento, dopo una serie di scale al pianoforte, si ferma e, quasi si trattasse di un risveglio, fissa il suo sparuto, ma interessato pubblico e sussurra quasi sorridendo: “è qua…” e sembra davvero che quella consapevolezza lo abbia aggredito in quel preciso istante.
Tuttavia, ci permettiamo di sospettare che questa consapevolezza venga da più lontano… magari dal momento in cui Gianluca Massaroni ha capito che quello che lo definiva meglio e che voleva fare nella vita era “scrivere canzoni”.

Da quel momento, non ha voluto altro che essere riconosciuto come tale…

Ma partiamo dall’inizio, ovvero da quella Voghera che ha dato i natali a Gianluca. Al di là della “famosa” casalinga di Arbasino, Voghera rappresenta davvero la più classica provincia italiana, benestante e operosa, che avviluppa i propri giovani in quel raro (soprattutto in questi tempi ipersaturi) tesoro che è la noia, uno spazio bianco da riempire a proprio piacimento:

“La provincia ti consente di isolarti, di non essere in competizione con il mondo. Vivevo la vita di tutti i ragazzi del tempo, ma avevo qualcosa in più: era questo mondo che mi ero creato, in cui i miei amici erano i cantautori che mi parlavano di relazioni d’amore o di sentimenti e avevano un linguaggio che sentivo a me affine, come fossero amici con cui potevo confidarmi: Ciampi, Tenco, Baglioni, Venditti, Cocciante, Mia Martini, Fossati, De Andrè, ma anche Jeff Buckley. La mia “compagnia” era quella.”

In casa Massaroni, la musica rappresenta qualcosa di assolutamente naturale, essendo questo il mestiere dei genitori che possiedono un negozio di strumenti musicali (l’ironica ragione sociale “Massaroni Pianoforti” nasce proprio da lì…) ed è quindi normale per il ragazzo avere da subito a che fare con tasti e corde:

Studiavo chitarra classica, ma lo facevo più perché faceva piacere ai miei genitori… in realtà la musica per me non ha mai significato altro che scrivere canzoni… forse perché, conosciuta in età adolescenziale, la musica è giunta in mio soccorso: quando ho avuto l’esigenza – come molti ragazzi – di dover scrivere per buttare fuori qualcosa di tossico che avevo dentro e mi faceva stare male, grazie alla scrittura riuscivo a stare meglio e così ho finito per costruirmi un’identità in quella delicata fase di costruzione di se stessi. A quel punto, fin dai miei 17 anni circa, ho cominciato ad andare in giro per etichette a proporre le mie canzoni”.

“L’amore altrove”

Passano diversi anni di gavetta prima che qualcuno si accorga del suo talento e quando avviene sembra che le cose girino davvero per il meglio: ad ascoltare alcuni provini di Gianluca, passati su Radio Deejay da Alessio Bertallot, è nientemeno che Eros Ramazzotti, che decide di mettere sotto contratto per la sua etichetta Radiorama il cantante e produrre quello che sarà l’esordio del musicista: “L’amore altrove”. Il disco che uscirà intestato a Gianluca Massaroni, verrà distribuito nel 2009, su licenza Sugar, dalla Warner Bros. A Gianluca non interessa tanto (o non solo…) la visibilità che i nomi in ballo possono dargli, quanto quello di essersi assicurato un contratto che prevede la produzione di ben tre dischi: condizione perfetta per poter avviare una carriera che gli permetterà di “dirsi” musicista. Purtroppo, come vedremo, dei tre album preventivati soltanto “L’amore altrove” vedrà luce, ma lascerà a Gianluca l’orgoglio di essere arrivato da qualche parte, di aver messo un primo punto in quella famosa legittimazione di cui va in cerca.
Ma al di là di ciò che rappresenta per il suo autore, “L’amore altrove” rimane un lavoro che va a collocarsi nel classico suono mainstream a cavallo tra il primo e il secondo decennio del 2000: professionale, perfettamente controllato in ogni sua sfumatura pop-rock, ma probabilmente poco consono alla personalità del suo autore:

Avevo fornito i provini, mentre gli arrangiamenti erano tutti farina del sacco del produttore, Riccardo Piparo. Io non ho avuto praticamente nessuna voce in capitolo. Riccardo era bravissimo, così come i musicisti che hanno suonato durante le sessioni di registrazione a Palermo. Hanno creato degli arrangiamenti bellissimi, perfettamente suonati… ero io che vocalmente non ero ancora all’altezza! Però, tutto suonava un po’ troppo educato, mentre la mia voce non è affatto educata e anche i miei testi non lo sono… Sentivo una discrepanza tra degli arrangiamenti che volevano restituire un’idea di perfezione, mentre io andavo in cerca di altro… Non è un caso che alla fine delle incisioni ho avuto come la sensazione di essere stato “derubato” delle mie stesse canzoni e che il più coinvolto nel progetto era proprio Riccardo Piparo, giustamente orgoglioso del lavoro che aveva fatto”.

Se il suono può non essere del tutto allineato alla personalità artistica che Gianluca vorrebbe sviluppare, il disco ha però il merito di mostrare subito un talento già piuttosto formato. E se le sgrammaticature che cominceranno presto a fare capolino nella sua musica sono (quasi del tutto) assenti, la penna di Massaroni si rivela subito capace di coniugare leggerezza e verbosità: i testi fitti e stipati di parole, che magari possono spaventare l’ascoltatore mainstream (cui il disco – almeno nelle intenzioni dell’etichetta – sarebbe destinato), dovrebbero invece esaltare il fruitore più raffinato.
Situandosi in una terra di mezzo, “L’amore altrove” finisce per mettere subito in chiaro quale sarà l’equivoco della carriera di Massaroni ovvero quello di essere troppo indipendente e originale per poter suonare davvero “commerciale” e troppo mainstream per essere davvero abbracciato dalla cosiddetta scena indie.
Però da alcuni brani emerge in maniera prepotente un talento notevole, che spira nella melodia in crescendo di “Non più di te e me” che, nel gesto stesso di sfidare l’eccesso di enfasi, trova la sua ragione d’essere, vincendo la propria scommessa grazie anche al perfetto arrangiamento di Riccardo Piparo che dosa i vuoti degli strumenti e i crescendo dell’orchestra; o nell’immediatezza pop della saltellante “La città si sveglierà”. I prodromi del Massaroni Pianoforti che verrà sono invece rintracciabili in “Confesso che ho paura” in cui alcuni passaggi tra lo stralunato e il virtuoso mostrano come Gianluca riesca già a padroneggiare con dovizia la materia di cui sono fatte le canzoni (“quanto tempo è trascorso da quando/ respirando dell’elio ti dissi ora volo in alto”), così come avviene in “Monolocale rosso”, perfettamente a metà tra una sbilenca stramberia e la capacità di far distendere e lievitare la melodia, mentre il testo non fa altro che descrivere il monolocale in cui all’epoca viveva davvero Gianluca:

“Io non invento mai nulla… tutto quello di cui parlo riguarda sempre qualcosa che ho vissuto o comunque che ho visto accadere. L’intero disco, “L’amore altrove”, ad esempio raccontava attraverso i suoi episodi un amore estivo che avevo vissuto… di quelli che nascono e muoiono in vacanza, ma che finiscono per influenzare la propria quotidianità anche quando si ritorna, perché un amore sospeso è un amore che non appassisce mai”.

Massaroni Pianoforti - Moncolocale Rosso [L'Amore Altrove]

Non date il salame ai Corvi

L’amore altrove” non viene promosso, né al giovane viene data la possibilità di aprire i concerti di Ramazzotti, circostanza che avrebbe potuto certamente agevolare la promozione del lavoro (per dovere di cronaca, questo avviene solo una volta: una tragicomica esibizione al Bar del Filaforum di Assago, quando però il percorso che conduceva al locale era già stato chiuso per gli spettatori…).

Tuttavia Gianluca non si demoralizza e il nuovo disco riparte proprio dal bilancio che segue una grande occasione persa:

“Dopo “L’amore altrove” ho ripreso a suonare. A Pavia c’era un locale, Spazio Musica, dove venivano tanti artisti e che mi concedeva tantissime aperture. In uno di questi concerti, Giovanni Gulino, cantante dei Marta sui Tubi, mi propone di utilizzare il suo portale Musicraiser per raccogliere fondi per la produzione del nuovo disco. Io non avevo niente da perdere e mi sono buttato. Raccolgo i tremila euro necessari e Gulino mi procura anche un contratto con edizioni BMG e distribuzione Universal. Tutto va a rilento: la raccolta fondi avviene nel 2012, cerchiamo di capire come avviare la produzione e solo nel 2014 arrivo alla pubblicazione. Cambio ragione sociale, tolgo il nome perché non mi era mai piaciuto e pubblico “Non date il salame ai Corvi”, in cui si parla di certe buone occasioni che a volte capitano nella vita e quando ti deludono occorre poi tirarsi su e ricominciare, rimboccandosi le maniche. Il titolo citava ovviamente il “non date le perle ai porci” della Bibbia, ma in realtà avevo visto davvero un corvo che rovistando nella spazzatura aveva trovato una fetta di salame… potrebbe essere la mia musica, ma non solo… era più un “non date la parte migliore di voi stessi a chi non se lo merita.”

E il fantasma dell’occasione mancata riemerge subito nell’incipit di “Una buona occasione”, pop song dal calibratissimo sound elettro-acustico:

Avevo avuto una buona occasione ma non ricordo bene quando e come
So solamente aver chiuso un portone e tutti intorno a darmi del coglione
non ti nascondo che mi avevano dato tre monete per tapparmi il fiato
Ero talmente al verde ma fu un errore dopo un aborto così per poco non ne uscii.

cui fa seguito l’unico brano che regala un po’ di notorietà a Massaroni anche nel circuito degli appassionati di cantautorato indie, che in quel periodo celebrava i successi di Vasco Brondi, Calcutta, Dente, Brunori Sas, Thegiornalisti, ovvero “Carlo (Il passato é passato)”; tour de force narrativo che, prima di chiudere con i suoi “parapapapa” da ultimo Battisti mogoliano, racconta in prima persona la storia di un ubriaco che si è appena lasciato con la compagna e, dopo una serata passata a bere per dimenticare, si attacca alle cinque del mattino al citofono dell’amico Carlo, inscenando un monologo interiore, fino ad accorgersi all’alba di aver sbagliato portone.
Canzone manifesto che mette assieme lo struggimento parodico per l’amore perduto (Due anni insieme e già sembrava mia madre/ E io il figlio per bene/ Che non ha mai niente da fare/ Però a portare a spasso il cane/ Svuotare l’immondizia chi ci andava/ Mica la sua pigrizia), con l’ironia beona delle notti alcoliche (È tutta la notte che mi danno da bere/ Ed io per fare il gentile non ho saputo rifiutare/ Tu non sai quanto sia poco civile/ Non partecipare è da vile), fino al finale che porta con sé, oltre allo svelamento dell’equivoco (Ma che strano cancello/ Solo adesso mi accorgo/ Manco il numero è quello/ E poi che c’entra la scala in granito/ Qui sembra tutto più bello/ Carlo mi sono sbagliato/ Carlo è un altro isolato/ Carlo scusami davvero) anche qualche insegnamento che, tra i fumi del dopo sbornia, sembra avere quasi una valenza universale (Carlo mi sembrava assurdo/Carlo sono quasi arrivato/ Il passato è passato).
In “Carlo” la maturazione di Massaroni pare evidente: la voce ha una sicurezza maggiore e, se giunge spesso sopra le righe, recitando le proprie melodie, stempera intensità e dramma con testi spesso ironici. Ne viene fuori una personalità spiccata, spiattellata in faccia all’ascoltatore con l’arroganza di chi dice “questo sono io!”.

“Come dicevo: io non invento nulla e cantando di situazioni che ho vissuto la mia interpretazione non può che esserne influenzata. Se io urlo “Carlo sono ubriaco!” è perché quando ho sentito gridare “Carlo”, l’ho sentito gridare in quella maniera. Abitavo nel famoso garage “Monco locale rosso”, che si trovava vicino al cancello d’entrata del condominio e un tipo alle cinque del mattino si è messo a suonare i citofoni e a gridare “Carlo!”. Poi ho scoperto che erano due fratelli irlandesi, Giulio che gridava e Carlo che non rispondeva: non ricordava più il citofono e comunque Carlo non c’era perché era in Erasmus… Ad ogni modo, non potevo cantarla diversamente, perché il brano nasceva da quella nottata concitata e alcolica e io volevo restituirne tutto il sapore”.

Una voce, quella di Massaroni, che diventerà sempre più croce e delizia per l’autore: non educata, calda, abbastanza imprecisa quando serve, ma allo stesso accordata su una nota di struggimento che può stancare l’ascoltatore meno disposto verso quello specifico tono.

Non date il salame ai Corvi” viene prodotto in due sessioni differenti e con due produttori diversi. Il primo, Maurizio D’Aniello, si occupa della componente pop (la già citata “Una buona Occasione”, “Carlo”, la trascinante “Ferie D’Agosto” e il ritornello da singalong di “Lavanderia a Gettoni”), ma anche degli episodi più strutturati come “Alla fermata del 33”, il cui slancio melodico è degno del Cocciante più graffiante, modello che ritorna – assieme ai Pooh più barocchi – anche nella complessità enfatica de “I giorni si avvicinano” che, tra crescendo melodici e controcanti intrecciati e carichi di pathos sanremese, sembra perfetta per far storcere il muso a parecchi palati indie.
Tra i pezzi prodotti da D’Aniello va anche citato uno dei capolavori di Gianluca: “Provinciale”, tutta suonata su uno spettacolare pianoforte che arremba, aggredisce e puntella di note un testo che passa dallo stralunato nonsense (Ieri trentadue ore fa, ho chiesto a mio fratello se ha studiato Pirandello o si è fottuto pure lui il cervello con Arkanoid/ Poi cambia discorso e dice: “È un’attrice, sì, un’attrice e non guardarla come una puttana/ È un’attrice di una nota reclame/ E non è vero quello che si dice che se la paghi ci sta) a break di lirismo strabordante (Fai come credi qui ci vivo anch’io/ Ma sotto un cielo che non sento più mio/ Con questa luna che sfida dio/ È così snella che pare una cella/ Mi rinchiuderei fino a domani/ Per scriverti la lettera più bella/ L’affiderei soltanto alle tue mani/ Portata da una stella), fino a riflessioni e prese di coscienza (Tutto ciò che abbiamo recuperato è stato perso/Tutto ciò che ci è rimasto é l’ombra ormai di se stesso/ Ma stiamo ancora in piedi al centro dell’universo/ (…) Tutti qua in coda alla banca del seme a fabbricarci l’eternità / E chi ci salverà? Abituati come siamo a delegarci tutti all’aldilà).

Massaroni Pianoforti - Provinciale

Il secondo produttore, Cesare Malfatti (La Crus, The Dining Room) si “occupa” dei brani più scarni e cantautorali, prediligendo un suono più acustico e spoglio. La presenza dei due differenti registri non rende il disco poco omogeneo: accanto alla verve pop, non sfigurano infatti episodi più cantautorali come “La dama bianca”, a metà tra Branduardi e Ivan Graziani o il De André che fa capolino nel testo alluvionale dell’apparentemente scanzonata “Ornella”, dietro cui si nasconde la storia di una odierna Maria Maddalena e un narratore che si lamenta del fatto che la donna gli abbia preferito quello strano personaggio (Ornella parla con Gesù/ Ornella non mi chiama più/ Ma cosa avrà lui più di me/ Che di anni ne ha già trentatré). _Ne viene fuori una disinvolta contro-storia tra l’ironico e lo stralunato che prepara il finale del disco per una “_Come due amanti”, che in controluce lascia intravedere la sagoma di **Ivano Fossati **e, una ghost track, l’ironica “Finale”, a metà tra lo stornello e il canto ubriaco da osteria dopo l’orario di chiusura.

Il disco ottiene parecchie buone recensioni, ma la situazione non si smuove poi di molto: Gianluca si ritrova senza etichetta, costretto a raccogliere nuovamente i fondi in crowdfunding. In perfetta logica Do It Yourself decide: se punk deve essere, allora il prossimo sarà il mio disco più punk. Non nei suoni, ovviamente, ma nell’approccio e – com’è che si dice in quel mondo lì? – nell’attitudine.

Sì, nell’attitudine.

Giù” – I cantautori mi stracciano i coglioni.

“In “Palestra”, che è il primo pezzo del mio disco del 2017, “Giù”, cito un sacco di nomi di cantautori a me contemporanei, ma non per prenderli in giro, piuttosto per fissare la gente che andava in quel momento. Edroardo sarebbe Calcutta, poi sfilano i Cani, Iosonouncane, Thegiornalisti… nella canzone è la ragazza che mi chiede di suonargli le cover di questi musicisti qua… poi io gli faccio sentire Ivan Graziani e lei sbadiglia e dice: “i cantautori mi stracciano i coglioni”. Più che l’ironia, nel brano inserii la mia rabbia, la mia incazzatura… D’altronde, quel pezzo lì poteva anche non esserci, e il disco poteva partire direttamente con “Bocca aperta”, che è la classica intro da un minuto e mezzo, però finì per trovare spazio questa versione di “Palestra” (ne esisteva un’altra in cui in realtà citavo Fossati, Tenco, Baglioni e Mia Martini…).

In generale, era un periodo in cui era piuttosto “giù”: “Non date il salame ai corvi” non era andato come mi aspettavo, non avevo trovato nessuno che volesse supportarmi anche a livello economico. Dal punto di vista personale avevo appena chiuso una storia sentimentale… insomma mi ritrovai con una serie di brani che non piacevano ai produttori. Loro volevano un’altra “Carlo” o un’altra “Provinciale”, ma io ero abbastanza deciso: queste sono le canzoni. Il concept del disco doveva essere quello di un amore malato. Mi piace parlare di “lirismo tossico”: la necessità di scrivere per buttare fuori quello che fa star male. Peccato che ai produttori che incontravo pezzi come “Barche di carta” non arrivavano… A quel punto, visto che dovevo fare una raccolta fondi per finanziarmi, ho pensato: “allora il disco lo faccio come voglio io” e questo è “Giù”. Un disco che contiene canzoni che ancora oggi apprezzo molto e a cui sono molto legato”.

Giù” è un disco che conferma il talento di un musicista che, pur cambiando pelle, riesce a mantenere cifra artistica e identità. E così, mentre a livello di sound il disco suona diverso ai precedenti, grazie all’utilizzo di un’elettronica discreta che innerva sottopelle i brani e a una scrittura più divagante e libera, quello che rimane costante è il senso melodico dell’autore e una poetica che, pur crogiolandosi in un mood più oscuro, rimane riconoscibile nei suoi tratti principali: l’umorismo irriverente, stemperato da una filosofia da loser che non si prende più di tanto sul serio.

Responsabile delle influenze elettroniche del disco é Vito Gatto che, assieme a Maurizio D’Aniello, si occupa di una produzione che, senza togliere intensità ai brani, aggiunge fascino rendendoli più avvolgenti e notturni.
Il lavoro di Vito Gatto è infatti evidente fin dai loop che si increspano lievi tra gli arpeggi circolari della chitarra de “La Zanzara” e trova ne “L’incontro di un uomo e di una donna” l’apice dell’interazione con la scrittura di Gianluca, con la voce in falsetto di quest’ultimo sempre più dispersa e alla deriva nello spazio sonoro creato dal produttore (Perché l’incontro di un uomo e di una donna è qualcosa che va al di là di ogni convinzione/ (…) è il primo tratto dell’astrattista, é l’ambizione dell’apprendista, l’inarrivabile di un artista).

Sulla stessa scia “La notte di San Silvestro” la cui frase di piano reiterata fa da sfondo alla narrazione in forma di canzone di un capodanno che, dalle ventidue fino a dopo la mezzanotte e tre, vede Massaroni al massimo della sua poetica musicale e lirica:

La notte di San Silvestro io me ne frego del contesto
E me ne resto da solo come un avanzo di salmone affumicato dentro a un risotto mantecato
E un ricettario aperto a pagina ventotto due ore dopo le otto
E intanto fuori i primi botti i primi scoppi come vetri rotti
Qui tutto ha un costo aprite gli occhi no qui non siamo nel paese dei balocchi
Qui è tutto un fumo e niente arrosti questo è un paese che ci tratta come sciocchi
È ora di alzarsi aprite gli occhi… mezzanotte e tre
La notte di San Silvestro… ma si festeggerò lo stesso
Con il dovere di brindare e pisciare un fiume di spumante dozzinale
Ho un nuovo anno da indossare lo so ho un banale modo di vestire
Ma il sarto mio… sa rammendare e ricuce e scuce luce

Altrettanto paradigmatica per la poetica di Massaroni risulta essere “Adelio Adelio”, brano manifesto che, dietro le sembianze di canzone alcolica, ennesima variazione sulle corde di Rino Gaetano, nasconde una più profonda visione del mondo.

massaroni pianoforti - ADELIO ADELIO (GIU)

Il disco viene poi arricchito dalla folkeggiante “Non mi basto più”, con voce raddoppiata e iperacuti al limite dell’isterismo che si collocano da qualche parte nel percorso che conduce da Battisti al primo Iosonouncane. “Uguale a me” e “Filastrocca del cattivo umore” sviluppano e perfezionano il cantautorato filastrocca visto in “La dama bianca”, mentre “Lupo di Mare” e “Barche di Carta” sono buchi neri di tristezza, con la prima talmente poetica da riuscire a richiamare in note e parole lo struggimento del mare evocato nel testo (Ma tu vuoi farmela pagare perché a terra non so stare/ Se un attracco è già salpare/ Vuoi ballare ballare ballare ballare/ Ma tu che ogni goccia sei del mare, a chi mi vuoi già affidare/ senza rotte per tornare) _e la seconda che riesce a far piangere lacrime alla propria melodia solare (_ma che bella giornata/ che bei fiori che bei colori, sai che mi importa se la chitarra ha una corda rotta mi vedo ancora a strimpellarla su quel divano poi l’allontano con la mano”).

Cosa succede a un legame quando il nodo si disfa” risulta clamorosamente baglioniana, altezza “Poster”, mentre “Io non ti ho capita” inizia e finisce su un giro di chitarra elettrica, circolare e saturo, che cita certo rock britannico e conduce alla conclusione di “Ok”, acustica desolazione che nel ritmo arrembante e nella voce piena rende perfettamente l’idea di “lirismo tossico” e di canzone necessaria per espellere con rabbia tutto il male che altrimenti marcirebbe dentro.

Questo alla fine è “Giù“: un lavoro prezioso e di un’intensità rara che dispiace veder relegato tra i capolavori dimenticati o di cui – peggio ancora – nessuno si è mai accorto.

Rolling Pop

Mi sono detto che non poteva finire così… Decido non solo di fare un’altra raccolta fondi, ma anche che – se “Giù” era il mio disco più nero e introverso – quello successivo sarebbe stato quello in cui avrei riversato tutta la mia idea di pop: quella che andava da Ivano Fossati a Ivan Graziani. Comincio a racimolare i primi soldi, quando, su Instagram, mi contatta Boosta dei Subsonica, che si propone di produrre un mio disco per una rediviva Cramps che sta cercando di rilanciare. Io metto in chiaro che sto facendo la raccolta fondi e non posso certo sfanculare i ragazzi che mi hanno dato i soldi, lui mi rassicura e… ovviamente, accetto! Stavo già ultimando i provini del disco in solitaria assieme a mio fratello nello studiolo che avevamo messo su nel retro del negozio di pianoforti e l’idea era di portare la nostra “brutta copia” per poi rifarla in bella calligrafia con la produzione di Boosta e il patrocinio di Cramps e Sony… Finisce che Boosta parte in tour, arriva a produrre un solo brano e si limita a fare il mastering dei nostri provini registrati in economia: ormai non c’era più tempo!

Subito dopo arrivano due eventi che “sabotano” ancora di più il progetto: Boosta rompe con la Cramps e la Sony, lasciando il disco senza “padrino” in mano a una major che nemmeno sapeva chi fossi e poi ovviamente… arriva la pandemia.”

A volte, quando non si sa bene quale direzione far prendere alla propria musica, giunge un brano capace di indicare il percorso giusto, la pietra dietro la quale collocare tutti gli altri sassolini per giungere a ritroso verso la casa che si cercava. Nel caso del quarto disco di Massaroni Pianoforti il brano in questione è “Rollingstone“, canzone non a caso posta in chiusura del disco:

“Rollingstone” é l’unico brano che ho scritto in cinque minuti. Di solito ci metto dei mesi per chiudere una canzone. Questa mi è venuta fuori di getto, svegliandomi una mattina con questa melodia in testa e quando l’ho finita mi sono detto: “ecco… questo è il disco”. E’ una canzone molto importante per me, perché dico delle cose sul mio tempo, sull’amarezza che mi dà vedere la gente persa dietro i social. Vedo tanta gente sprecarci dietro tanto, troppo tempo, vedo i ragazzi galleggiarci sopra, senza mai formarsi e magari poi tutta questa gente scopre drammaticamente che quel tempo che hanno perso non tornerà più indietro… Rollingstone é la canzone che fa da spartiacque tra quello che ero e quello che sono diventato: non si può essere adolescenti per tutta la vita”.

Rollingstone” rivolge il proprio sguardo nuovamente verso la scena italiana coeva (Ci siamo sentiti indie come dinosauri estinti/ fino ad alleggerirci con la musica leggera pop/ se prima erano i vinti ora sembrano i più finti/in posa come bimbi sulla copertina RollingStone), _ma si concentra soprattutto su una contemporaneità in cui la vita _social ha definitivamente preso il sopravvento su quella reale:

abbiamo dato agli alibi le ali per volare
e pesi di un quintale a tutto ciò che è virtuale
per rimanere in piedi senza esserci mai alzati
e accorgersi ormai tardi che così ci hanno ammazzati.

Tutto il disco oscilla dunque tra due poli: la nuova età adulta, costretta nella superficie senza profondità degli schermi cellulari, e la definitiva perdita della propria adolescenza.

E così in “Popcorn (sei un bel film per tutti)” si mette in scena lo struggimento dell’ex al tempo dei profili social, per cui osservare la vita dell’amata – svelata e condivisa sulla pubblica piazza social(e) – rivela nella maniera più dolorosa la perdita dell’intimità, prima appannaggio dei soli amanti, e misura tutta la distanza di un rapporto ormai finito (sei un bel film per tutti/ per organi caldi/ per i freddi inverni/ per cuori distrutti/ per poeti sbronzi/ per tutti gli stronzi/ sei un bel film per tutti/ per giovani adulti/ per gli adolescenti/ per tutti i perdenti/per chi non c’ha il pane e nemmeno i denti), mentre in “50 Settimane” (unico brano su cui il Boosta produttore ha effettivamente lavorato, conferendo uno sprint “subsonico”) si susseguono le immagini che affollano la settimana della stessa (?) donna, con la velocità con cui si “scrolla” uno smartphone.

Dall’altro lato, invece, brani come “Jennifer” (tra il De Gregori più pop di “Fine di un Killer” e la “Berta” di Rino Gaetano) o l’incipit in odore di cantautorato maggiore de “Le Gattine” riflettono sulla perdita della propria adolescenza e l’arrivo dell’età adulta.

A livello musicale, “Rollingpop” è davvero uno splendido esempio di pop cantautorale, che snocciola una scaletta killer da cui sorprende non si sia riuscito a pescare una hit capace di raggiungere anche solo un breve momento di gloria. Avrebbe potuto riuscirci il quasi reggae di “Mattomondo” (il cui video, che mostra immagini di sbarchi e migranti, decontestualizza e svela il vero significato del brano) o la saltellante e irresistibile perfezione pop di “Caffex” o, ancora, gli incastri ritmici dell’ironica “Abberlino.

Tanto “Giù” era un disco splendidamente imperfetto, pieno di vuoti e di pieni, quanto “Rolling Pop” è un lavoro perfettamente focalizzato, in cui ogni brano vuole raggiungere una rotondità pop, senza perdere un grammo della propria cifra stilistica. In questo si può dire che il disco riesca perfettamente nella missione che si é dato.

ROLLINGSTONE (Official Videoclip)

Maddi

“Durante la pandemia mi sono esercitato parecchio con il pianoforte. Se per molto tempo ho voluto perfezionarmi nella scrittura di brani che “stessero in piedi da soli”, ho sempre avuto l’impressione che le mie esecuzioni fossero troppo elementari, che non fossero all’altezza delle canzoni. Ho preso dunque a esercitarmi e adesso mi sento più sicuro: riesco ad andare in giro da solo e a sentirmi a mio agio nel riproporre i miei pezzi con voce, chitarra o piano. Non è cambiato però il mio approccio: per me ha senso toccare uno strumento solo se ho una canzone da scrivere. E infatti anche in quel periodo di studio sullo strumento continuo a scrivere parecchie canzoni e a pubblicarle come singoli sulle piattaforme” .

E i singoli si chiamano “Buon riposo”, “Nodo alla gola”, “Bad boy”, “Cascamorto” e “Verme (tra le tue braccia)” e sono tutti brani notevoli che mostrano il lato più dimesso, romantico e intimista di Gianluca. Un mood che ritroviamo anche nelle “B.a.s.p. (Live session)”, raccolte in un album dal vivo, pubblicato solo in digitale, che presenta anche alcuni inediti (“Stai da dio”, “America”, “Andiamo a casa”) e soprattutto anticipa due brani che finiranno nel disco successivo: “America – L’età del piacersi” e soprattutto “Maddi Elèna” .

La canzone che ha dato il via al progetto “Maddi” é stata ovviamente “Maddi Elena”, un brano che avevo scritto tanti anni prima, al tempo di “Carlo” per intenderci… è da una vita che mia madre la sente al piano o alla chitarra, mentre la suono, e che mi chiede di inciderla… Ho voluto farle un regalo, ma poi mi ha preso un po’ la mano e ho finito per raccontare tutta la storia di questa ragazza del mio quartiere, molto libera e che tutti consideravano come una poco di buono. Si trattava dei classici pregiudizi che possono distruggere una persona. Era da anni che ragionavo su questi temi, che poi sono quelli di sempre, se pensiamo che la storia di Maddi é così simile a quella di Maria Maddalena… e così ho voluto raccontare la storia di questa Maria Maddalena dei giorni nostri. D’altronde avevo fatto qualcosa di simile anche in “Ornella”…

Una volta deciso il tema del disco e trovata un’etichetta, la Maremmano Records, che si occuperà di distribuire il lavoro, Gianluca decide di non coinvolgere nessun produttore: ha intenzione di fare tutto da solo, assieme al fratello Andrea Massaroni, polistrumentista con diverse esperienze all’attivo (tra cui Shandon e Ministri), partner ideale per giungere a quella maturità, intima e perfezionista, che sola poteva rendere giustizia alla storia di Maddi:

“Il disco è suonato e prodotto solo da me e mio fratello nel nostro studiolo. Per me era fondamentale non avere dei limiti d’orario e poter lavorare “in famiglia”, cambiare tutto con libertà senza aver paura di scontrarsi con un produttore e con la visione musicale di un altro. Doveva esserci solo la mia. Solo quella che Maddi mi suggeriva”.

Sarebbe facile vedere in Maddi un alter ego di Gianluca Massaroni (ne “L’ultima nota dell’autore” presente nel libretto del disco, Gianluca racconta di un episodio in cui il pregiudizio, ovvero “quel lato sgradevole dell’animo umano che può condizionare la vita di una persona che la subisce” ha colpito lui in prima persona, bambino di appena sette anni), ma forse é più corretto vedere Maddi come la vittima eterna di un vizio costante che da sempre accompagna la storia dell’uomo.

Dalla storia di Maddi Elena viene finalmente fuori il tanto agognato disco della maturità, quello verso cui Gianluca ha orientato il proprio percorso artistico, alla ricerca di un perfetto equilibrio tra la profondità del tema trattato e la maturità artistica e anagrafica necessaria per farlo:

“Ho sempre avuto timore di non rappresentare fisicamente al meglio le canzoni che scrivevo. Mi sono spesso sentito come un ragazzino troppo giovane per cantare le cose di cui avevo la pretesa di cantare. Forse é per questo che ho eliminato il mio nome dai dischi. Adesso dopo tante canzoni e qualche anno e ruga in più sul viso, magari mi sono allineato a quella che é sempre stata la mia poetica.”

E questo equilibrio viene raggiunto grazie ad arrangiamenti eclettici, meno sbarazzini e più grevi di quelli visti in ”Rolling Pop”, nonostante alcuni brani, come “Ragazza di vita”, “Secondo Giovanni” o “San Francesco”, stemperino con la loro vivacità melodica il tono generale del disco.

Maddi” recupera il classicismo della scuola cantautorale italiana, salvandolo dalla storicizzazione da museo nell’unica maniera possibile, ovvero con le armi della sincerità emotiva e della bravura compositiva.

San Francesco (Lyrics Video)

Sfilano così brani come “Maddi Elena”, che non ha paura di affondare in un arrangiamento d’archi epico la melodia del proprio ritornello, o l’omaggio al Leonard Cohen di “L’amore del piccolo Geko” o quello all’ultimo De Andrè di “Madre per sempre”, via via fino ad arrivare al climax finale di “Era già tutto deciso”, omaggio fin dal titolo a Riccardo Cocciante, che racconta un finale di storia che sfuma nel dramma, ma che viene anche sublimato dal perfetto connubio che si crea tra musica e parola (Ma era già tutto deciso/ L’incontro, il pacchetto di siga/ Svuotate in un giorno perfetto da starsene a letto… (…) saltare in braccio al presente/ o tra le spighe di un grano/ che cresce solo in oriente/ mentre ti prende per mano).

Ultimo lavoro di un’artista il cui percorso non sembra destinato ad esaurirsi.

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Ha raccolto molto Massaroni Pianoforti, magari non a livello di pubblico, ma certamente a livello artistico. Ha dato alle stampe cinque dischi notevoli, pieni di canzoni, di umori e sentimenti, dell’arte di saper raccontare e sapersi raccontare tramite “canzoni che stanno in piedi da sole”.

A tutti noi, il compito di approfittarne.