William Doyle è uno dei “nostri”.
Intendiamo uno di quegli artisti su cui questo blog – nel proprio piccolo – ha sempre insistito, con lo spirito dei cercatori che trovano un nuovo filone d’oro e la voglia di mostrarlo a un mondo che sembrava non essersi del tutto accorto di quella lucentezza.

Quando, nel 2019, in occasione della pubblicazione del suo terzo disco “Your Wilderness Revisited”, a causa dell’abbandono della vecchia ragione sociale (East India Youth), William Doyle era momentaneamente uscito dai radar di molti, ci precipitavamo a elogiarne la “britannicissima miscela di melodie lunari, passaggi canterburiani, sintetizzatori tra Sheffield e Richard Barbieri, chitarre frippiane e sassofoni bowiani” e successivamente nel 2021, in occasione del secondo lavoro a proprio nome, “Great Spans Of Muddy Time, provvedevamo a pubblicare un’intervista che lo stesso William aveva avuto la gentilezza di averci concesso.

Nel 2024, lo ritroviamo ancora più consapevole dei propri mezzi, con un lavoro, “Springs Eternal”, che sembra concedersi atmosfere più solari e pop, senza per questo confezionare un lavoro più leggero… anzi: nella più classica tradizione di artisti britannici come David Bowie, Brian Eno e David Byrne (nomi importanti, ma – credeteci – non scomodati in maniera inopportuna), si tratta di un lavoro che usa le forme immediate del pop per veicolare inquietudini molto profonde (non a caso a far da collante tra i vari episodi ritroviamo tematiche e paure apocalittiche).
Come ascoltatori e appassionati non possiamo che capitolare di fronte alla bellezza lunare e inarrivabile dell’incipit “Garden Of The Morning”, al funk robotico di “Now In Motion”, a una “Relentless Nest” che parte con un riff alla Blur per poi richiamare Beck, a una “Soft To The Touch”, dove la voce diventa uno yodel country e la chitarra sfoggia accordi e reverberi da “Trinity Session”, alla perfezione pop della “quasi title track” che saltella tra melodie canticchiabili e armonie celestiali, allo straordinario gioiellino pop di “Cannot Unseen”, alla sincopata “Surrender Yourself” che si muove disinvolta tra rock alternativo, armonie vocali alla Sufjan Stevens e un sax che infioretta tutto…

Garden of the Morning


Potremmo proseguire a descrivere un disco che appare come una serie di scatole cinesi sotto forma di Pop Rock, ma abbiamo preferito contattare nuovamente William Doyle per fargli alcune domande.

Ciao William,
ben trovato e complimenti per l’ennesimo lavoro che non lascia dubbi sul tuo talento. Tre anni fa in occasione del nostro precedente incontro, sostenevi che “un buon hook non deve necessariamente essere una melodia solida, ma può essere un ritmo o anche una sezione parlata”, ma dicevi anche che “la tradizione cantautorale che amo di più è molto basata sulla melodia e non mi sembra di sentirla molto in giro nei nuovi gruppi, ma questo non significa che quella tradizione stia morendo. Probabilmente tornerà in giro in qualche altra forma”.
In questo disco ci sembra tu ti sia fatto carico di questa tradizione e abbia dato vita a un disco pop, nel senso più nobile del termine, ricollegandoti alla tradizione inglese che ritiene artisticamente più efficace e valido veicolare i propri messaggi tramite forme che possano risultare immediate. Cosa ne pensi?
La melodia è probabilmente la chiave di tutto ciò che musicalmente mi stimola, in particolare la forma e la cadenza. Costruire melodie è lo scopo della mia vita. Ho messo questa ricerca alla base dell’album e ne sono molto soddisfatto. In Inghilterra negli ultimi anni c’è stata una pletora di persone che si è avventata sul post-punk, io vorrei fare esattamente l’opposto.

Sei partito da una elettronica estatica che non prevedeva necessariamente la presenza di parti vocali per giungere – almeno per il momento – a un disco fortemente orientato verso la canzone. Come è avvenuto questo processo? Come musicista come hai vissuto questo passaggio? E come ti ha arricchito scrivere “Eternal Springs”?
Ho iniziato con le canzoni e il canto quando avevo 14 o 15 anni. Si tratta, quindi, di un qualcosa che scorre naturalmente nelle mie vene e ho la sensazione di stare tornando in un certo senso alle mie radici, riavvicinandomi alla forma canzone. Chissà, forse a un certo punto tornerò anche all’elettronica strumentale. Mi espando e mi contraggo, come l’universo.

In Inghilterra negli ultimi anni c’è stata una pletora di persone che si è avventata sul post-punk, io vorrei fare esattamente l’opposto.

Perdonaci se torniamo sulla nostra vecchia intervista, ma in quella occasione sostenevi che “anche a causa di cose che sono accadute nella mia vita, tendo ad avere una visione molto frammentata di me stesso, e forse sto cercando di esplorare questi frammenti e metterli insieme attraverso quello che faccio”. Leggiamo in cartella stampa che “Springs Eternal presenta uno strano ed emozionante cast di personaggi che vanno dai cowboy ai naufraghi e che potrebbero essere proprio lo stesso Doyle, una o due generazioni fa”. Ti va di approfondire questo discorso?
In questo album è stato un esperimento concettuale molto interessante quello di immaginare il me “presente”, che stava scrivendo i pezzi, e provare a esagerare e amplificare quello che stava provando. 
Trovo noiosa la pura autobiografia. In un pezzo sono sull’orlo di un esaurimento nervoso, in un altro sono alcolizzato e muoio alla fine dell’ultimo. Non ho davvero “provato” realmente nessuna di queste sensazioni nella maniera in cui le descrivo nell’album. Non credo nella “autenticità”. Tutto nella musica è una costruzione e va bene così. 

Nel disco abbiamo notato una maggiore presenza e rilevanza della chitarra. Ti sei semplicemente trovato a dare più spazio a questo strumento durante la costruzione dei brani o è stata una scelta voluta a priori? 
Dopotutto è il mio strumento principale, che ho rinnegato in alcuni miei dischi negli anni.  Ora mi sento in sintonia con voce e strumento, e li uso maggiormente per scrivere le canzoni. Penso che il mio prossimo album sarà esclusivamente chitarra e voce. Ancora una volta sto tornando alle mie radici!

William Doyle - 'Now In Motion' (Official Audio)

Il disco ha davvero un suono spettacolare: denso, ma dinamico, pulito, ma niente affatto freddo. L’equilibrio tra tasti e corde poi è davvero esemplare. Questa volta ti sei fatto aiutare alla produzione da Mike Lindsay. Poiché – come già fatto in passato – sei un musicista che può fare tutto per proprio conto, come mai hai voluto coinvolgere un produttore esterno e quale credi sia stato l’apporto specifico di Lindsay? E in generale che valore e funzione attribuisci alla figura del produttore, ruolo nel quale ti sei peraltro cimentato tu stesso?
L’obiettivo di lavorare con qualcun altro era quello di introdurre più vita e dinamismo nell’esperienza, e di idealmente trasmettere al disco un senso di divertimento e giocosità, nonostante i temi particolarmente intensi. Sono stato estremamente fortunato che quel “qualcuno” fosse Mike! Ci siamo divertiti moltissimo e la nostra amicizia è diventata molto solida. Mike ha un grande orecchio, un sacco di strumentazione interessante e sa utilizzarla molto bene… ma soprattutto è divertente lavorarci! Anche perché niente sembra preoccuparlo troppo. Non potrei chiedere un partner migliore.

Permettici infine una domanda da fan terminali di Brian Eno: anche in questa occasione hai avuto l’onore di collaborare con King Brian. Cosa rappresenta per te e in generale per la musica rock la figura di Eno? Da queste collaborazioni senti di essere cresciuto in qualche modo come musicista e come artista?
Ho imparato molto da Brian negli anni, sia prima che dopo averlo incontrato. E’ un pozzo senza fondo di ispirazione. Sono stato fortunato a poter contare su di lui anche solo per un piccolo contributo per l’album. Brian è il più grande istigatore nel mondo della musica. Riesce a pensare a uno scenario e a farci lavorare persone nella maniera più creativa e semplice possibile. 
Gli ho chiesto di mandarmi dei ritmi di batteria, dato che ne sforna in continuazione: me ne ha mandati ventisei! Alcuni sono finiti sull’album, ma è stato soprattutto un gran trampolino di lancio da cui iniziare a lavorare. Mi sento davvero molto in debito nei suoi confronti per il suo contributo e la sua influenza.

cover photo credit – Tough Love Records