Ci sono molti modi di essere degli eroi di culto.
Puoi suonare in una delle formazioni più mitiche e allo stesso tempo maledette della Liverpool figlia dei Fab Four (i La’s), oppure puoi mettere assieme una delle più formidabili band di garage psichedelico degli anni Novanta, per poi scioglierla appena dopo il primo disco (gli Stairs); puoi prestare il tuo basso ad alcuni dei più importanti musicisti inglesi degli ultimi trent’anni (Ian McCulloch, Paul Weller, Johnny Marr), oppure puoi dissipare il tuo straripante talento in una sequela di sigle e album (Isrites, Big Kids, Edgar Summertyme, E.J. Free Peace Thing, E.J. & The Joneses).
Edgar Jones ha fatto tutto questo e molto di più.
Ha anche pubblicato uno dei dischi più genuini e sinceri dello scorso anno.
Un disco che ci é piaciuto talmente tanto che abbiamo voluto raggiungere Edgar con alcune domande, per chiacchierare del suo ultimo “Reflections Of a Soul Dimension” (del quale potete leggere la recensione qua) e chiedergli conto di qualcuna delle sue avventure passate.
Buona lettura!
Ciao Edgar,
Partiamo subito dal nuovo disco “Reflections Of a Soul Dimension”. Oltre a essere un disco particolarmente ispirato, ci é sembrato anche il classico lavoro “della maturità”, di quelli in cui ogni elemento risulta perfettamente calibrato: dalla scrittura delle canzoni, alle singole soluzioni di arrangiamento. Parlaci della genesi del disco e di cosa questo album rappresenta nella tua carriera.
Come accade per molti dischi, fatta eccezione forse per i debutti, il punto di partenza è spesso la fine del disco precedente… e infatti l’idea originale era quella di realizzare un altro album per la Skeleton Key Records, magari in studio e con James Skelly nelle vesti di produttore. Doveva essere un album completamente diverso, reminiscente della Detroit di metà anni ‘60, ma l’unica canzone che alla fine abbiamo tenuto da quel progetto è stata “The Walls Come Tumbling Down”. Ci sono parecchi motivi che hanno fatto saltare il progetto, ma quello principale è stato proprio l’abbandono da parte della label circa 8 mesi dopo l’uscita del mio disco precedente “Song of Day and Night”.
A quel punto, ho iniziato a lavorare a nuova musica con la mia carissima amica e scrittrice Lois Wilson… L’idea era quella di collaborare con qualche label statunitense già specializzata in musica soul, come ad esempio la “Daptone“, la “Big Crown” o la “Fat Possum”. Abbiamo spedito qualche demo, ma non alla fine non abbiamo concluso nulla, anche perché diversi discografici si concentravano più sui Peach Fuzz, ovvero sulla band che mi accompagnava nelle registrazioni, che su di me. Addirittura, loro hanno finito per abbandonare la loro musica e trasformarsi a tutti gli effetti in una band di supporto, sia in studio che dal vivo, per diverse etichette e diversi progetti.
A quel punto arriva il Covid e decido di posare gli strumenti, anche perché non avevo voglia – a differenza di molti colleghi – di scrivere qualche stronzata di protesta senza fondamento… Però durante il periodo di lockdown, ho cambiato idea: avevo solo un basso in quel momento ed ho iniziato a scrivere delle linee di basso, utilizzando le prime note della scala per differenziare gli accordi maggiori e i minori, ed è così che effettivamente sono nate “Torture” e “Place My Bets”.
Nathaniel Laurence dei Peach Fuzz mi ha aiutato, lasciandomi registrare qualche mese dopo nel suo studio casalingo. Ero decisamente allo sbaraglio, senza etichetta e soprattutto senza una band. Una persona più sana di mente avrebbe abbandonato la speranza, ma fortunatamente sono sempre stato abbastanza stupido: erano passati 5 anni dall’ultimo lavoro, avevo scritto una valanga di nuovo materiale e sarei impazzito a stare ancora fermo!
Per fortuna a quel punto succede qualcosa di inaspettato. Il mio amico e musicista James Cole, con quale ho lavorato più volte negli anni (anche in una cover band di Bowie dal nome “Live on Mars”), mi invia dei brani in stile “Northern Soul”, scritti da lui e Steve Parry, per chiedermi un parere.
HELL YEAH!
Ci incontriamo tutti e tre per registrare un singolo da pubblicare più avanti. “Place My Bets” era la mia scelta iniziale per il lato A: gliela faccio sentire e iniziamo subito a provare. In venti minuti avevamo già il brano e abbiamo registrato rapidamente batterie, basso e guide vocali, di lì a poco avevamo già completato il brano in un paio di “take”. In quel giorno registriamo anche “Lord Give Me the Strength” e “No Matter What”, dove ho suonato anche la chitarra e che si è rivelato il brano più complesso, in quanto sono stati necessari diversi artifici per aggiungere i ritardi e gli effetti che avevamo pensato.
Potrei parlare per ore di queste sessioni, ma vedo che sono ancora solo a metà della prima domanda, per cui cercherò di tagliare corto. Penso solo che sia anche opportuno dire che, una volta finita questa sessione, ero così esaltato che iniziai a scrivere a raffica, sconfiggendo tutti i blocchi creativi del caso, come non mi accadeva da tempo. Iniziai a mettere da parte il vecchio materiale per lavorare solo sui nuovi brani. E’ stato un bel periodo, anche se non avevo una lira e ho rischiato di essere sfrattato, ma mi sentivo lo stesso l’uomo più ricco del mondo!
Sento proprio che questo LP rappresenta una svolta nella mia carriera: mi ha reso sicuramente più spavaldo nel realizzare le mie idee musicali più recondite ed estrose. Nel passato sono stato spesso considerato come un “musicista per musicisti”, ma i valori e la produzione della Steropar (NDR etichetta indipendente inglese, specializzata in musica soul) stanno rendendo la mia musica accessibile a chiunque, senza troppi fronzoli. Penso sia un’ottima cosa.
Io vivo nella speranza che l’uomo possa ancora produrre capolavori del calibro di “Wichita Lineman”, “You Only Live Twice”, “Walk On By” o “The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore” e, se c’è qualcosa che posso fare per istigare la razza umana, lo farò!
La tua discografia é assolutamente eclettica e ondivaga: pop, psichedelia, tentazioni jazz, blues rurale, gospel, garage etc etc. In “Reflection” mi sembra che tu abbia compiuto alcune scelte ben precise. Da un lato hai abbracciato con decisione il soul come genere di riferimento (possiamo dire che la componente soul ha prevalso su quella psichedelica?) e dall’altro hai deciso di mettere il musicista al servizio del songwriter. E’ così?
Sì, hai ragione, grazie per averlo notato! Penso che il primo 7” che ho comprato sia stato “You Keep me Hanging On” dei Supremes e in più in quegli anni giravo spesso per locali “beatnik” su Lark Lane e Catherine Street (anche se in realtà non potevo neanche entrarci!) anche solo per sentire cosa passavano, e fu lì che ebbi le mie prime esperienze con la psichedelia, in particolare con Scott Walker e Nancy & Lee. In quel momento però non avevo nemmeno idea dell’immensa vastità e profondità della musica soul, che sarebbe poi arrivata in futuro. Penso sia proprio come Albert Camus scrisse sul retro di “Scott 4”: “L’opera di un uomo non è altro che questo lento cammino per riscoprire, attraverso i sentieri dell’arte, quelle due o tre grandi e semplici immagini alla cui presenza il suo cuore si è aperto per la prima volta”.Per me la scrittura è da sempre la cosa più importante: cerco ogni volta di ottenere quello che io chiamo “effetto Oliver” e di riuscire a mettere in fila una lista di canzoni, perfette da cantare per ogni viaggio in auto. Poi ovviamente, non disdegno nemmeno la possibilità di provare sonorità più strane o massimaliste: dopo tutto la varietà rende più divertente la vita. Direi che il mio motto è “fai quel che vuoi e solo dopo preoccupati di suonarlo dal vivo”.
Nella recensione che abbiamo scritto sul disco parlavamo di “soul versante northern, pieno di spiritelli sixties che (…) punta a trascendere le categorie di passato e presente, proiettandosi in un altrove temporale in cui questa musica non suona né vecchia né nuova, ma semplicemente esiste da sempre”. Che rapporto hai con il tempo e in particolare con il tuo tempo? Ti piace immergerti dentro di esso oppure preferisci fuggire, utilizzando stilemi musicali che rimandano a stagioni mitiche?
Il mio rapporto col presente? Direi decisamente folle! Negli ultimi anni ho scoperto il canale Youtube “Esoterica” del dottor Justin Sledge. Ho approfondito un po’ i fondamenti dell’Antico Testamento e ho capito che siamo sempre stati dei folli. Una persona o un gruppo decide uno stato attuale e un’idea delle cose e così si decide cosa tramandare alle generazioni successive, non importa quanto stupidi siano i votanti. Per questo motivo sono un po’ scettico riguardo alla religione, ma anche molto affascinato dai suoi aspetti sociologici. Proprio ora sto scrivendo una canzone intitolata “The Veil”, che mette in contrapposizione quei tempi col nostro contesto sociopolitico.
Tornando a discorsi più musicali, quello che hai scritto nella recensione a proposito di Amy Winehouse penso sia verissimo anche per me. Ho coniato il termine “pop neoclassico”, facendo riferimento alla corrente degli anni ‘30 in cui i compositori classici iniziarono a tornare alla tradizione dopo un decennio di sperimentazione fatta di dissonanze e rumorismo. Stravinskij, Prokofiev e co. decisero di ritornare alle melodie e all’armonia tipica di Mozart, Beethoven, Brahms, definendosi “neoclassicisti”. Io vivo nella speranza che l’uomo possa ancora produrre capolavori del calibro di “Wichita Lineman”, “You Only Live Twice”, “Walk On By” o “The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore” e, se c’è qualcosa che posso fare per istigare la razza umana, lo farò! Canzoni e dischi del genere per me sono quasi una religione, in quanto la loro fruizione è un’esperienza che ancora non riesco a descrivere.
A proposito di stagioni mitiche: torniamo ai fasti degli Stairs, band che abbiamo amato moltissimo e che tu una volta hai definito come l’incrocio tra James Brown e i La’s (band di cui hai pure fatto parte per un breve periodo…). Se il primo disco “Mexican R n R” é puro mito, raccontaci delle band successive che hai formato (Isrites, Big Kids, Edgar Summertyme, E.J. Free Peace Thing, E.J. & The Joneses) e che spesso sono durate davvero poco: ce n’è una che avresti voluto durasse di più?
In realtà, penso che la citazione si riferisse agli Isrites. Avevo da poco finito il mio periodo nei La’s ed ero nella mia fase “James Brown”.
Gli Stairs, sono stati la mia prima band, formata quando frequentavo il Liverpool Youth Music Project, un progetto a quei tempi finanziato dal governo inglese: imparavi un mestiere e studiavi musica due ore a settimana, oppure potevi suonare delle jam con altri musicisti. Avevo scelto di studiare elettronica e di imparare le basi della registrazione multitraccia in uno studio molto spoglio. E’ lì dove abbiamo registrato i demo con i La’s e dove tornavamo ogni volta con Lee (Mavers ndr) per capire dove volesse arrivare con le sue idee. Paul Maguire è arrivato circa sei mesi dopo e non perdevamo occasione per suonare insieme ogni qual volta ce ne fosse l’occasione. Era bravissimo per essere un novellino e apprezzavo le sue intenzioni e il suo umorismo. Ero già amico di Pete Baker, che studiava arte ai tempi, e fu lui a presentarmi Ged Lynn, un batterista altrettanto bravo con la chitarra. Fu così che nacquero gli Stairs.

Se devo invece parlare delle mie band post-Stairs, penso che i Free Peace Thing non abbiano mai raggiunto neanche lontanamente il loro vero potenziale e forse non ne ho mai parlato adeguatamente prima d’ora…. Forse perché quando finì quel progetto ero così disperato e depresso che ci ho sempre messo una pietra sopra… ma ora sono passati quasi quindici anni! Quindi, direi che é tempo di parlarne… Ecco la storia: avevo lavorato a del materiale un po’ più pesante e aggressivo con Jamie e due membri dei Joneses Oz. In quel periodo i “The Pedantics”, gruppo dove suonava mio nipote Nick (Miniski, batterista dei Free Peace Thing ndr), stavano per sciogliersi anche loro. Mio fratello Trevor mi suggerì di provare a far suonare Nick e il loro chitarrista, Stuart Gimblett, su questo nuovo materiale che avevo scritto. Il risultato fu molto esuberante e ci vidi parecchio potenziale. Ho iniziato a pensare a chi includere nel gruppo e Nick e Stu risposero immediatamente ai miei messaggi, mentre Jamie e gli Oz ci misero qualche settimana, così decisi di continuare solo con Nick e Stu. Incidemmo dei demo che si trasformarono in poco tempo in un album pubblicato su internet in maniera indipendente e con l’obiettivo di trovare delle date. In qualche modo Noel Gallagher (fan dichiarato di Stairs, Soothing Music e Pedantics, per cui penso che qualcuno gli abbia fatto sentire qualcosa) ricevette una copia e ci invitò ad aprire i concerti degli Oasis il mese successivo! Il problema era che avevamo solo tre brani, quindi annullai tutti gli impegni, comprai una cifra di caffè ed erba, e in una settimana scrissi tutto il materiale per il nostro disco di debutto. Uscivo giusto per comprare latte e sigarette. Provammo tutto il materiale e andammo in tour. Andò piuttosto bene, il pubblico sembrava apprezzare il nostro spettacolo e la nostra musica.
Una volta tornati dal tour, registrammo altro materiale con mio fratello nel suo studio casalingo, che però non ci permise mai di registrare dal vivo, ma solo con dei suoni terribili in cuffia… insomma, c’era così poco spazio e tempo che non riuscimmo mai ad ottenere né il suono che cercavamo, né le performance giuste: ad esempio le esecuzioni di Nick non erano granché, piene di sbavature, errori di percussione e fuori tempo, che potevamo nascondere solo con volumi folli, ma era il massimo che potesse fare in uno spazio di casa così ristretto, ed è stato un gran casino suonarci sopra. All’inizio riuscii a starci dietro, ma col tempo mi disinnamorai del progetto per come stavano andando le cose. In più iniziai ad avere problemi alla gola a causa dei volumi molto alti, così decisi di mettere da parte tutta quella situazione. Era il momento di sviluppare la band e di consolidarla ed essere andati subito in tour con gli Oasis di certo non aveva aiutato. Fu lì che iniziarono i problemi. I miei sensi di ragno e la reazione del pubblico mi aveva convinto che stavano per succedere grandi cose e che il progetto potesse davvero decollare: iniziai dunque a spingere quei due verso la grandezza che pensavo potessimo raggiungere solo tutti tre insieme. Preparammo la stanza col mio 8 tracce per registrare tutto quello che facevamo (da queste registrazioni poi ricavai i brani per la release su “Viper”). Il problema era che gli altri non avevano né i mezzi né l’esperienza per capire dove bisognava migliorare per far decollare il progetto e così restammo ancorati per dei mesi. Ci vedevamo ogni giorno alle 11. Pian piano iniziarono ad arrivare sempre più in ritardo, e iniziavo anche a ricevere chiamate dalle loro compagne per sapere quando sarebbero tornati… Le settimane diventarono mesi, io ero a terra e finii pure in ospedale per gravi problemi allo stomaco. La goccia che fece traboccare il vaso fu una jam con un gruppo di 17 persone. Suonammo per circa 8 ore e ricavammo tantissimo materiale, così mi ricordai anche com’era lavorare con persone appassionate al progetto. Due giorni dopo decisi di sciogliere la band. C’era così tanto potenziale, che cazzo di spreco…
Sei molto stimato dai colleghi: Noel Gallagher ti ha voluto per aprire alcuni concerti degli Oasis, Johnny Marr ti ha spesso supportato… Che rapporto hai con la fama e la notorietà? E’ qualcosa che insegui o lo status di cult hero (al netto dei soldi che non sono mai abbastanza) ti sta bene e lo senti come un vestito che ti calza particolarmente bene?
Sì, sono stato molto fortunato, spesso e volentieri dei pezzi grossi mi hanno elogiato a gran voce, ma non ho mai avuto bisogno di quel particolare tipo di fama. Ho sempre pensato che una piccola fortuna potesse farmi comodo, finché riuscissi comunque a mantenere l’anonimato e a prendere l’autobus. Mi piacciono i mezzi pubblici, mi trasmettono un senso di uguaglianza tra tutti coloro a bordo. Non ho mai avuto eroi particolari da giovane, penso che le mie idee vengano anche da lì. Mio fratello maggiore è sempre stato il mio eroe durante la mia infanzia, era sempre al lavoro e al passo coi tempi (finché non è entrato nel vortice della 4AD, ma quello era troppo anche per me…), quindi non ho avuto grande interesse a crearmi altri eroi. Ricordo il mio primo viaggio a New York con la band di Ian McCulloch. L’etichetta organizzò per tutti una cena enorme e pacchiana in un ristorante e io ero così intento a fumare una canna di Skunk che chiesi al chitarrista “perché Dustin Hoffman è seduto di fronte a noi?” e lui rispose ridendo “è Leonard Cohen, coglione!”.
Sì, sono stato molto fortunato, spesso e volentieri dei pezzi grossi mi hanno elogiato a gran voce, ma non ho mai avuto bisogno di quel particolare tipo di fama. Ho sempre pensato che una piccola fortuna potesse farmi comodo, finché riuscissi comunque a mantenere l’anonimato e a prendere l’autobus.
A proposito di vestiti: sei sempre molto stiloso e si vede che curi molto l’abbigliamento con l’attenzione tipica di una certa cultura mod. Si tratta di un gioco divertente o, come per la musica, è una maniera di affermare la propria identità e l’appartenenza a una cultura?
Grazie per il complimento! Non mi aspetto mai che qualcuno lo noti, ma mi fa indubbiamente piacere. Ho avuto la fortuna di trovare dei capi adatti a me molto presto, da lì in poi li ho solo ritoccati occasionalmente per adattarli alle tendenze degli anni. Ho provato a uniformarmi un po’ intorno ai miei 25 anni, soprattutto durante il periodo James Brown. Non ha funzionato un granché, da lì sono tornato al mio stile, che ho conservato negli anni. Mi sono sempre posto a metà tra i mods e gli hippie… esiste un termine adatto? “Mippie”? Mi ha sempre affascinato la stravaganza del Dr. Who di Tom Baker durante l’adolescenza, è stata una grande ispirazione. Ho anche avuto molta fortuna coi negozi di seconda mano, soprattutto per quanto riguarda le camicie. Sono un fanatico delle camicie, e mi diverto a recuperare quelle abbandonate dalle altre persone. Un consiglio per i giovani: se la camicia è bella, fottetevene della lunghezza del colletto!
Sono previsti dei concerti in Italia? C’è qualche possibilità di vederti all’opera dal vivo?
Mi piacerebbe tantissimo venire in Italia, ma anche nel resto d’Europa, negli USA, anche in Irlanda. Me lo chiedono spesso, e vorrei davvero realizzare i desideri dei miei fan. Ma la vera realtà dei fatti è che in questo periodo della mia vita sono sommerso dai debiti e non posso permettermi di prendermi grossi rischi col lavoro nell’immediato futuro. Non ho materialmente una fanbase abbastanza grande per far funzionare un ipotetico tour e non posso rischiare di perdere la mia chitarra e il mio basso, non è un rischio che posso o voglio correre. So che è brutto da dire, ma così stanno le cose. Mi sento uno stronzo a non poter essere in grado di soddisfare i miei fan. Tante persone possono affezionarsi a un artista come me, ma a volte non realizzano quanto sia difficile vendere biglietti per i concerti, vorrei davvero fosse diverso.
Peace and love Edgar x
Dicci cosa ne pensi