Essere o non essere (i Radiohead), questo è il dilemma! Ma è davvero così? Da quando si è saputo che Thom Yorke e Jonny Greenwood avevano messo in piedi una band di nome The Smile, il dibattito si è concentrato, forse inevitabilmente, su cosa e quanto il nuovo progetto si portasse dietro dalla band madre.
Se il primo singolo “You Will Never Work in Television Again” sembrava far pensare a un progetto che si giocava la carta del “back to basics” per ritrovare la freschezza e l’entusiasmo di un tempo, la prova sulla lunga distanza“A Light for Attracting Attention” aveva, invece, riproposto con forza lo spettro dei Radiohead. Un fantasma che si era materializzato in una serie di brani di qualità davvero elevata e in un lavoro complessivamente all’altezza dei nomi coinvolti, anche se appesantito da una certa disomogeneità e da una scaletta cui avrebbe giovato qualche taglio. A distanza di due anni, l’impressione, però, è che il disco sia stato penalizzato, nella sua ricezione generale, dalla tentazione di focalizzarsi più sulla questione “Perchè utilizzare un nome differente per fare un disco che suona praticamente come uno dei Radiohead?” che sulla qualità del disco stesso o, ad esempio, sul contributo del batterista Tom Skinner, “l’intruso” del caso. D’altronde, il progetto The Smile appariva più come una parentesi estemporanea in attesa di un nuovo lavoro della band di Oxford, che un progetto destinato a durare.
Ma, prima il maestoso singolo “Bending Hectic” nella primavera del 2023, poi l’annuncio dell’uscita a inizio 2024 del nuovo disco, riproponevano con maggior decisione il quesito: “Chi sono quindi The Smile?”.
“Wall of Eyes”, dunque, portava su di sé l’onere di rispondere, questa volta in maniera più decisa, alla domanda. E l’ascolto del disco fornisce una risposta lapalissiana: si tratta di un trio composto per due terzi dall’anima creativa dei Radiohead e da un batterista (ma anche tastierista) di formazione jazz. Un’assoluta banalità che, però, cela tra le righe una serie di implicazioni significative.
Innanzitutto, la riproposizione del progetto The Smile appare come un’auto affermazione del binomio Yorke-Greenwood. Probabilmente non sapremo mai le vere ragioni dello svincolamento temporaneo (?) dalla casa madre. Se sia dovuto alla voglia di muoversi in maniera più agile, senza pressioni esterne (media, casa discografica, etc) e legacci interni (democrazia e compromessi tra i 5 componenti), alla renitenza degli altri 3 membri di lavorare ad un nuovo album dei Radiohead, alla voglia di collaborare con musicisti diversi o altro ancora; ciò che appare certo, però, è che la priorità attuale dei due musicisti sia quella di lavorare insieme in studio e sul palco, poco importa sotto quale sigla.
E proprio la capacità del loro legame di travalicare lo steccato dei Radiohead ci dice diverse cose: prima di tutto, che si tratta di un sodalizio forte che, diversamente da quanto si poteva pensare fino a poco fa, non è stato logorato dalla routine dello show business. La progressiva dilatazione temporale tra gli album dei Radiohead poteva spingere a pensare che Yorke e Greenwood non fossero più così interessati a lavorare insieme, ma che si trattasse più di una sorta di dovere contrattuale; sebbene, occorre dirlo, i risultati continuassero ad essere eccellenti, se guardiamo ad esempio all’ultimo “Moon Shaped Pool”.
I due album a un solo paio d’anni di distanza a nome The Smile, sembrano invece suggerire proprio il contrario e indicare una sorta di simbiosi artistica tra i due: se Thom è uno dei pochissimi musicisti che riesce a strappare Jonny dal suo esilio dorato di compositore contemporaneo per riportarlo alla forma canzone, quest’ultimo è il solo che riesce a far fuoriuscire l’altro dalla sua comfort zone musicale prigioniera di una sorta di mono-tonia autoriale in salsa elettronica (cosa mai riuscita neanche a Nigel Godrich o ai rinomati membri degli Atoms For Peace).
Un legame con sé che porta due aspetti positivi: da un lato la certificazione che uno degli ultimi sodalizi davvero importanti per quella terra di mezzo situata tra rock mainstream e sperimentazione gode ancora di ottima salute, dall’altro che i due hanno anche trovato la modalità per sfuggire alle accuse, non del tutto infondate, di deja vu delle loro ultime uscite musicali.
Ed è qui che entra in scena Tom Skinner: colui che rappresenta il terzo vertice del triangolo, ma soprattutto, l’elemento estraneo all’ecosistema Radiohead, al quale spetta il compito (onere od onore) di sparigliare le carte. Una responsabilità sancita anche dalla scelta di accreditare i brani collettivamente a nome The Smile, ufficializzando, quindi, un coinvolgimento profondo del batterista.
Nel primo disco il suo apporto era stato notevole e fortemente riconoscibile grazie a un’approccio poliritmico, piuttosto differente dallo stile più rock oriented di Phil Selway. Nonostante ciò, rispetto all’ingombrante impronta autoriale di Yorke e Greenwood, il suo contributo era generalmente rimasto in ombra nelle discussioni.
Se, a prima vista, “Wall of Eyes” sembra ridurre l’apporto del drumming di Skinner, in virtù di un maggior numero di episodi ritmicamente a basso profilo, in realtà il suo contributo al nuovo album è, se non maggiore, più sottile e profondo (senza ovviamente dimenticare che Skinner si occupa, insieme agli altri due, anche delle tessiture di tastiere e synth). In un certo senso, il batterista mette in mostra uno stile figlio della sua formazione jazzistica, capace di valorizzare maggiormente la dinamica e lo spazio/silenzio, lasciando il segno anche quando il drumming è apparentemente in secondo piano.
Prendiamo ad esempio la title track, dove Skinner fornisce al brano uno scheletro bossa nova “esile, ma robusto”, unito a un utilizzo impressionistico dei timpani e delle percussioni trattate elettronicamente; o “Teleharmonic”, che cresce attorno al basico ritmo creato dalle bacchette sul bordo dei tamburi, arricchito progressivamente, ma discretamente, dal frusciare dei piatti e dei timpani sincopati. Ma anche “I quit”, dove la reiterazione di un semplice, ma efficacissimo pattern, fa da complemento alla chitarra trattata sulla quale è costruita la canzone o, ancora, la ballata orchestrale, “You know me!”, dove le percussioni si mescolano agli altri elementi, fornendo un ritmo che funge da sorta di battito cardiaco.
Ritroviamo, invece, un drumming simile a quello del primo album in brani che presentano tempi dispari e ritmiche intricate, come “Read the room” e “Under our Pillows” o nei crescendo di “Friend of a Friend” e “Bending Hectic”. La perizia tecnica di Skinner, messa rigorosamente al servizio della musica, sembra evocare in questi brani lo spirito dei migliori batteristi prog (per capirci un Michael Giles o un Bill Bruford piuttosto che un Carl Palmer).
E proprio questi brani sono quelli che mettono in mostra la direzione differente e avventurosa presa dal trio. Pensiamo, ad esempio, ad “Under our Pillows”: una mini suite la cui prima parte è caratterizzata dalla ricerca atonale/ritmica/quasi crimsoniana che da un po’ di tempo ossessiona il Greenwood chitarrista, per poi distendersi in una sezione centrale arrembante che si regge sul motorik di Skinner e, infine, dissolversi in un finale ambient noise. Il risultato è un brano che, al netto delle suggestioni vocali di Yorke, risulta differente dal classico suono Radioheadiano. Lo stesso può dirsi di “Read the room”, similmente strutturato in più sezioni, con ancora una volta il chitarrismo frippiano di Jonny a farla da padrone in apertura e conclusione, ma stavolta insieme alla voce suggestiva di Thom, amplificata in maniera efficacemente avvolgente.
Da un certo punto di vista la title track funge da manifesto programmatico nell’esprimere la transizione tra gli Smile più “radioheadiani” a quelli capaci di smarcarsi maggiormente dal proprio passato. La canzone infatti, si poggia su una classica linea melodica “alla Thom Yorke”, che suona alle nostre orecchie decisamente familiare; la stessa però, viene avviluppata e trasformata, nella seconda parte, da un anomalo crescendo emotivo, creato da una sorta di nube sonora formata dalle sovrapposizioni fantasmatiche della voce di Yorke, dal sinuoso arrangiamento orchestrale e da una chitarra atonale e “puntinista” di Greenwood.
Ritroviamo una dinamica simile in “Friend of a Friend”, caratterizzata da una spiazzante e inafferrabile ritmica in tempo dispari e da un crescendo che potremmo collocare a metà strada tra quelli di “I am The Walrus” e “A day in the life”. Oppure nell’epica ballad “Bending Hectic”, dove la quiete della prima parte basata sul dualismo tra il cantato di Yorke e il controcanto sottilmente dissonante della chitarra, viene prima avvolta da un crescendo orchestrale per poi essere definitivamente sommersa da un’impennata noise, tra le più rumorose in assoluto della carriera di Greenwood.
Se poi in alcuni brani il riferimento ai Radiohead è più diretto, come in “Teleharmonic” o nell’evanescente “You know me!”, che potrebbe rappresentare la versione della maturità di “How to disappear completely”, la qualità eccelsa del binomio scrittura-arrangiamento relega comunque questo aspetto decisamente in secondo piano.
A questo proposito, è da sottolineare come “Wall of eyes” rappresenti il primo album di Yorke e Greenwood senza la produzione di Nigel Godrich dai tempi di “The Bends”. Il suo posto è stato preso con ottimi risultati da Sam Petts-Davies, già tecnico del suono di “A moon shaped Pool” e del primo album del trio. E, se a un primo sguardo il suono sembra il medesimo, strutturato su un’estrema stratificazione, in realtà, con il progredire degli ascolti si nota che la produzione è meno caratterizzata dalla compressione tipica del sound di Godrich, ma beneficia di una maggiore ariosità e di più spazio tra gli elementi sonori. In fin dei conti conti quindi, anche il cambio in cabina di regia ha contribuito a tracciare una linea di demarcazione più netta tra Radiohead e The Smile (ndr pare che Godrich non sia stato coinvolto per un impegno pregresso, che vista la coincidenza temporale potrebbe essere identificato in “Tangk” degli Idles; se così fosse potremmo dire che di tale circostanza hanno beneficiato entrambi i gruppi e soprattutto noi ascoltatori…).
Tirando le somme, dunque, ciò che viene fuori è un album decisamente più maturo e completo rispetto all’esordio; un’opera che mostra un trio divenuto finalmente un gruppo a sé stante per identità e coesione, molto probabilmente maturate anche grazie alle esibizioni dal vivo (che dicono essere incendiarie). Un lavoro dove Yorke e Greenwood, liberi dall’ossessione di differenziarsi dal gruppo madre, ma concentrandosi su scrittura e suono con un piglio avventuroso e con un sempre maggiore coinvolgimento di Skinner, riescono ancora una volta a allargare il proprio orizzonte sonoro e autoriale, lasciando già a inizio anno un segno profondo e indelebile sul 2024.
Cosa volere di più?
Perciò lunga vita ai Radiohead, alla coppia Thom Yorke-Jonny Greenwood, ma soprattutto agli Smile!
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