Quello di Bill Ryder-Jones è sempre stato un talento sfuggente. 

Una carriera avviata come chitarrista di quei Coral che con lui in formazione hanno vissuto la loro migliore stagione, quella caratterizzata da un rock acido che, pur debitore di certe vibrazioni sixties (prime fra tutte quelle freakbeat), sfuggiva a qualunque accusa di revivalismo grazie a una scrittura solidissima e a un approccio fantasioso e inventivo alla materia. 

Abbandonati i Coral, Bill Ryder-Jones cominciava una carriera solista che si era rivelata da subito ondivaga, ma certamente interessante. L’EP d’esordio del 2011 “A Leave Taking”  e, soprattutto, il primo disco solista “If” sorprendevano per la perizia e la sensibilità pop con cui venivano trattate composizioni strumentali e cameristiche, consegnando un dittico notevolissimo, che pochi si sarebbero aspettati da un giovane musicista che, fino al giorno prima, era considerato “soltanto” il classico chitarrista della più classica delle guitar-band inglesi.
Tra i pezzi strumentali di “If”, lavoro peraltro ispirato al romanzo del nostro Italo CalvinoSe una notte d’inverno un viaggiatore”, figuravano anche due canzoni, fragili e intimiste, “Give me a Name”  e “Le Grand Désordre“, che – oltre a far sentire la delicata voce del giovane Bill – suonavano come delle promesse per un futuro da songwriter intimista. Promesse che già nel secondo lavoro del musicista venivano ampiamente mantenute: “A Bad Wind Blows in my Heart” del 2013 ambiva fin dal primo ascolto al ruolo di classico gioiello nascosto di cantautorato acustico, in forza di una capacità armonica e melodica superiore alla media, che sembrava però fare di tutto per schermirsi e rimanere nascosta e appartata, proprio come quella voce di vetro, appena sussurrata, che sembrava sempre voler fuggire la scena.

Una formula che stupiva per misura e ispirazione, ma che – rivelando uno spirito inquieto e sommessamente insoddisfatto – veniva subito modificata dallo stesso autore che, nei lavori successivi, provvedeva ad aggiungere robuste dosi di chitarre e saturazioni, avvolgendo i brani con vere e proprie tempeste elettriche (“West Kirby Country Primary” 2016, “Yawn” 2018).

Quello che però è sempre rimasto costante nella discografia di Bill Ryder-Jones è stato un talento che è parso sempre incontestabile, seppure forse sabotato da un carattere tormentato.  Lo stesso che lo aveva portato – in preda a un esaurimento nervoso – dapprima ad abbandonare i tour dei Coral e poi la band stessa, per dedicarsi a una carriera solista che lo avrebbe condotto – zavorrato anche da alcol e droghe – a rifugiarsi nei suoi studi di West Kirby, da cui però ormai non giungevano dispacci da ben quattro anni.

Lechyd Da” arriva adesso a fugare ogni dubbio sullo stato di salute del talento di questo piccolo principe, che – pur presentandosi non meno sofferente del solito – sembra aver ritrovato la via per evitare che il dolore soffochi le proprie canzoni, ma anzi costituisca il  carburante per giungere a una splendida sublimazione.
Il disco recupera le sonorità di “A Bad Wind Blows in my Heart“, aggiungendo un’ulteriore maturazione in fase di produzione, ben supportata da una scrittura assolutamente ispirata. Il legame con il secondo album non è infatti dato solo dalla presenza di alcune citazioni (la presenza del terzo capitolo della canzone che titolava il lavoro del 2013 o ancora di una “Christinha” che cita la “Christina That’s the Saddest Thing” presente in “A Bad Wind…”), ma – più in generale – dal recupero della dimensione più acustica della musica del cantante che, rispetto alle saturazioni chitarristiche degli ultimi lavori, sembra rappresentare un campo di gioco migliore per far risaltare il talento di questo musicista.

La produzione del disco, curata dallo stesso Ryder-Jones, presenta una ricchezza che non dovrebbe ormai stupire nessuno: nella sua veste di produttore e arrangiatore, Bill Ryder-Jones riesce a gestire egregiamente due differenti registri, amalgamandoli in una scaletta che alterna da un lato pezzi enfatici, in cui si lavora per accumulo, lasciando che gli arrangiamenti vadano spesso a sopraffare la voce (come nel primo singolo “This Can’t Go On”, in “Nothing To Be Done” o in “Thankfully For Anthony”) e dall’altro pezzi acustici, esempi di ricchezza tutta lavorata in sottrazione con l’obiettivo di aggiungere sempre nuovi elementi, mantenendo però spazio e dinamica. Ne sono esempio “A Bad Wind Blows In My Heart pt. 3”, il secondo singolo “If Tomorrow Starts Without Me” e soprattutto una “I Hold Something In My Hand” che forse rappresenta l’apice del disco dal punto di vista della gestione degli arrangiamenti. 
Ma sono soprattutto i dettagli ad arricchire canzoni che richiedono tempo per svelarsi davvero: dai campionamenti che impreziosiscono i brani (i “Baby” che aprono e chiudono “I Know That It’s Like This” campionati da un vecchio disco di Gal Costa e Caetano Veloso o gli archi di “This Can’t Go On” che contengono un sample di “Every Little Beat Of My Heart” dei Flashlight), alle leggere accelerazioni e decelerazioni che rendono incredibilmente dinamiche “I Know That It’s Like This (Baby)” e “Christinha” o che portano al pieno emotivo di “A Bad Wind Blows In My Heart pt. 3”; dal violoncello che apre e poi punteggia ritmicamente “If Tomorrow Starts Without Me”, contribuendo a quella strana atmosfera di happy sadness che permea il brano, al colpo di genio del coro dei bambini le cui imperfezioni nella performance rendono perfetta e salvano dall’eccesso di enfasi We Don’t Need Them o che in “It’s Today Again” riescono dapprima a rendere incredibilmente melodrammatica la bellissima melodia del brano e poi a ricondurre tutto a una dimensione domestica e familiare; fino ad arrivare alla voce di Michael Head (di cui nel 2022, Bill aveva prodotto lo splendido “Dear Scott”)  che nello strumentale “…And The Sea…” legge una pagina dall’Ulisse di Joyce.

Ma la perizia produttiva sarebbe nulla senza canzoni semplicemente magnifiche: citiamo per tutte una “This Can’t Go On”, perfetto esempio di totale corrispondenza tra un suono pieno di enfasi che annega e sommerge una voce che però lotta e resiste tra saliscendi e accelerazioni melodiche, e dall’altro lato un testo che esprime al meglio questo sforzo di sfuggire dal proprio male e tornare a vivere, ripetendo a mo’ di mantra “Got to get yourself together because this can’t go on”:

Bill Ryder-Jones - This Can't Go On (Official Video)

Con “Lechyd Da”, Bill Ryder-Jones sembra (ri)presentarsi non tanto come cantautore intimista, quanto come un autore a tutto tondo, capace di condurre l’ascoltatore lungo dodici piccoli incanti, fino alla buonanotte di “Nos Da”, ninnananna e brano di chiusura, che sfuma dolcemente verso il silenzio, come fanno certi sogni quando stanno per ghermirti e già prevalgono lentamente sulla veglia e la realtà.