Guardando in giro nelle classifiche altrui, redatte da utenti e riviste, ci sembra che mai come quest’anno molti si siano rifugiati in scelte identitarie, premiando più che il disco più bello o innovativo o avventuroso, quello che più rimarca la propria identità, il proprio rapporto con la musica.
Non sapremmo dire se questo rifugiarsi in quelle che qualcuno potrebbe definire “comfort zone” identitarie sia dettato dall’assenza di movimenti davvero innovativi o sia solo l’ennesima certificazione di una maniera di affrontare la musica (catalogare, classificare, accorpare per generi o stili), che appartiene al passato, per cui il solo fatto di stilare una classifica non farebbe altro che certificare la propria età anagrafica.
Per quanto ci riguarda, ammettiamo che un tempo la musica si presentava come un meraviglioso mondo tutto da esplorare, da scalare cima dopo cima, senza lasciare nessun anfratto inesplorato, mentre adesso sembra aver assunto più l’aspetto di un grande, decadente castello, in cui si celebrano continuamente feste per cui non serve invito, ma in cui – dopotutto – non si conosce nessuno e – diciamocelo – non è che si abbia troppa voglia di fare nuove conoscenze. Così finisce che ti sistemi nel tuo cantuccio, dove puoi proseguire a coltivare la tua calma, la tua insoddisfazione, la tua voglia di commuoverti ed emozionarti.
Sappiamo però che le nostre orecchie sono sempre tese e che, se da qualcuna delle altre stanze giungesse un suono capace di eccitarci ancora una volta, non resisteremmo alla tentazione di intrufolarci e rivendicare il nostro diritto… quello di riversare ancora una volta amore e porzioni del nostro tempo e della nostra vita a questa parata musicale che ci auguriamo non conosca mai la fine.
Ci siamo dunque a lungo interrogati su come approcciare un anno che si è presentato davvero ondivago e dispersivo… Negli anni passati, la forza di certi dischi o la presenza di tendenze forti ci ha sempre consentito di tracciare una visione comune che, al netto delle singole pulsioni individuali, ci ha sempre permesso – senza compromessi forzati – di disegnare una mappa condivisa e una sintesi capace di riassumere la nostra esperienza.
Quest’anno, al momento di metterle su carte, le linee disegnate da ciascuno di noi hanno generato percorsi differenti con pochissimi incroci… ragione per cui ha prevalso la soluzione che vi proponiamo: tre piccole sezioni, intestate a ognuno dei tre autori che maggiormente contribuiscono al blog, The Line, Mason e Dixon. Ognuno libero di gestire il proprio cantuccio come meglio crede.
Verrà nuovamente il tempo delle narrazioni condivise… ma per ora va così.
Buona lettura!
I DISCHI DI THE LINE
Mai come quest’anno il modello della pubblicazione settimanale dei dischi ha finito per stancare. Ogni venerdì una valanga digitale invade i canali di streaming (e, per chi li frequenta ancora, i negozi di dischi…), seppellendo appassionati e utenti, costretti a una corsa contro il tempo per ascoltare tutto fino alla prossima infornata… Un modello snervante che non consente di apprezzare a pieno lavori che meriterebbero invece del giusto tempo per essere giudicati ed ha come unico obiettivo quello di indurre a comprare e consumare, anche solo per un breve e vacuo ascolto. Mettiamoci poi la vita, gli impegni quotidiani, l’evoluzione rapida dei gusti, la difficoltà nel reperire i dischi (vogliamo davvero affidarci solo allo streaming? un sistema certamente comodo, ma che dà fin troppo potere e ritorno economico a chi ha più mezzi per promuoversi, penalizzando gli artisti meno supportati) e la sensazione – al contempo – di saturazione e di incapacità di seguire il flusso diventa completa!
La mia reazione, assolutamente naturale, è stata quella di ascoltare intensamente pochi dischi alla volta per poterli apprezzare al meglio, magari anche a mesi di distanza dalla loro pubblicazione.
Cosa ne è venuto fuori?
Innanzitutto, devo constatare che, anche rispetto alla mappa dello scorso anno, tra i miei ascolti l’hip-hop sia risultato molto meno presente (complice anche la saturazione del mercato) e vi sia invece più spazio per chitarre e distese di soundscapes elettronici.
Eppure, stando alla mia piattaforma streaming, il mio disco più ascoltato dell’anno, incoerentemente rispetto a quanto appena affermato, è “Scaring the Hoes” di JPEGMAFIA & Danny Brown, il progetto rap più chiacchierato dell’anno, nonché una delle collaborazioni più attese.
Ho già dedicato un lungo articolo a questa strana coppia, in cui si lodavano le scelte artistiche operate e la loro varietà, ma allo stesso tempo si giudicava come un po’ forzata la continua ricerca di espedienti per suonare “folle” e fuori dagli schemi. Ad ogni modo, un lavoro certamente di livello che si colloca tra i migliori dell’anno, in ambito hip-hop, accanto ai due dischi pubblicati nel 2023 dal sempiterno billy woods: “Maps” assieme al produttore Kenny Segal, e “We Buy Diabetic Test Strips”, uscito a nome Armand Hammer. La costante qualità del misterioso rapper non è più una sorpresa nemmeno per il grande pubblico, ma la sua iperprolificità rischia paradossalmente di depotenziare la risposta di critica e pubblico, alle prese – come detto – con un mercato musicale incredibilmente saturo.
Ci ha piacevolmente sorpreso “Beloved! Paradise! Jazz!?” di McKinley Dixon, classe 1995 di Richmond, VA, che per la prima volta finisce nell’elenco dei chiacchieratissimi dischi dell’anno, con un disco rap dalle sonorità marcatamente jazz e melodiche, adatto a un ascolto riflessivo, ma anche rilassante, mentre nessuna sorpresa per la qualità del blasonato “Quaranta” lavoro – questa volta in solitaria – di Danny Brown per la Warp e il ritorno di due guru underground come MIKE e Aesop Rock, autori di due ottimi lavori come “Burning Desire” e “Integrated Tech Solutions”.
Tornando ai dischi più apprezzati, non posso che citare due band anagraficamente differenti, ma che si collocano in una continuità simile a quella tra padre e figlio: SWANS e Sprain.
Difficile pensare che certe sonorità abrasive, rumorose e violente sarebbero potute diventare così globalmente diffuse, amate e interiorizzate senza l’avvento di mr. Michael Gira. “The Beggar” è l’ennesimo capitolo del suo continuo percorso di re-invenzione e rivoluzione, un altro monolite da due ore che necessita di attenzione e comprensione per essere dissociato dalla leggendaria, monolitica trilogia “The Seer / To Be Kind / The Glowing Man”. Vedere “The Beggar” soltanto come l’ennesimo album di una band che ormai ripropone senza variazione la propria formula non renderebbe giustizia a un lavoro che contiene diversi spunti inediti nella quarantennale carriera del gruppo, a partire dalla title track estesa “The Beggar Lover”, ballad atipica di quaranta minuti in cui ci si cimenta con sfuriate noise, una dolce chitarra acustica e dei versi bestiali in perfetta coesione tra di loro e proseguendo con la scrittura quasi pop/radiofonica di “Los Angeles: City of Death” e i gospel di “Michael Is Done” e “No More of This”, in cui emerge il tema della morte e della fine della propria opera artistica (anche se, a detta dello stesso Gira, lui e gli Swans si fermeranno solo dopo l’ultimo respiro!).
Dicevamo poi di “The Lamb As Effigy”, secondo (e ultimo, visto il recente scioglimento) lavoro degli Sprain, è a sua volta un disco estremamente lungo per i canoni moderni (quasi 90 minuti) e risente tantissimo delle sperimentazioni compiute da Gira e soci negli anni, in particolare quelle delle “Soundtracks For The Blind”, dove la fusione tra collage sonoro, post-rock, noise e barbarie musicali varie la fa da padrone.
Gli Sprain riescono a rendere il mix personalissimo e originale, aggiungendo spruzzate di math rock, soul-blues torturato degno del primo Nick Cave, rumorismo e silenzio, confezionando uno tra i dischi più sorprendenti dell’anno.
Anche se in realtà il premio “sorpresa dell’anno” va sicuramente assegnato a Lil Yachty, che, tolto l’abito da trapper, ha confezionato un disco di rock psichedelico così visionario e allucinato che sembra essere stato scritto da un Wayne Coyne sotto acidi. Un connubio perfetto di “frag singing” quasi ultraterreno, chitarroni distorti, cori pink-floydiani, Radiohead e psichedelia rendono “Let’s Start Here” (qui la nostra recensione) un grande disco, drittissimo in testa alle classifiche.
Il 2023 è stato, tra le altre cose, anche un anno ricco di ritorni, alcuni dei quali degni di attenzione, che sono riusciti ad evitare la sensazione di voler speculare sul proprio passato (recente o remoto che sia) che spesso si accompagna a queste operazioni.
Degno di nota, ma – purtroppo – ascrivibile alla categoria “vorrei, ma non riesco”, il londinese Sampha è tornato sulle scene con “Lahai” dopo l’osannatissimo “Process” del 2017. Il produttore inglese, attivissimo negli ultimi anni con ruoli dietro le quinte come produttore, arrangiatore o comparsa (ricordiamo ad esempio “Father Time” con Kendrick Lamar lo scorso anno), consegna un lavoro convincente, il cui unico limite sembra essere l’incapacità di aggiungere nulla a quanto fatto in passato dallo stesso autore e in generale quanto espresso in questi anni dalla variegata scena dei “cantautori elettronici” come James Blake, Ry X, Chet Faker, e Bon Iver.
ANOHNI ha riunito i suoi Johnsons per “My Back Was a Bridge For You To Cross” (Secretly Canadian), disco dalla delicata scrittura soul, conferendo così al nuovo lavoro un tono di “ritorno alle origini” dopo l’esperimento (a tratti pessimo) di “Hopelessness” del 2016.
Nonostante una scrittura ondivaga e non sempre all’altezza, la performance vocale di Anohni riscatta qualunque incertezza, in brani eccelsi come “Scapegoat”, “Go Ahead” e “It’s My Fault”.
Classifico come “ritorno” anche l’ottimo lavoro di Mitski, “The Land Is Inhospitable And So Are We”, (di cui abbiamo già parlato da queste parti), pubblicato in seguito alla sparizione da ogni social media e canale di comunicazione della cantautrice nippo-statunitense.
Voglio, infine, premiare “Dogsbody”, debutto in LP dei Model/Actriz, un’epica miscela di post-punk, EBM e musica da club, da catalogare come una versione in salsa techno dei Daughters, “3D Country” dei Geese, “O Monolith” degli Squid e “Space Heavy” del nostro adorato King Krule.
I DISCHI DI MASON
Il 2023 è stato un anno strano e difficile da decifrare. Se ripercorro il calendario, vedo un anno che, dal punto di vista musicale, è corso veloce scivolando sulla pelle, ma allo stesso tempo muovendosi in maniera indolente ed enigmatica. Facendo il punto di dischi buoni ce ne sono stati parecchi, mentre a essere cambiato è stato il modo in cui li ho approcciati: la mia tipica voracità nei confronti dei nuovi ascolti si è placata per far spazio a un atteggiamento più pacato. Non credo sia infatti un caso se i dischi che ho più apprezzato quest’anno si adattino perfettamente a questa “moderazione nell’ascolto” e che anzi abbiano finito per stimolarla, in un circolo che mi piace pensare come “virtuoso”.
Passiamone dunque in rassegna alcuni, partendo da “I inside the old Year dying”, il terzo capitolo di quella che possiamo considerare la maturità artistica di PJ Harvey. Laddove i due bellissimi album precedenti investivano l’ascoltatore con la forza della propria epicità (“Let England Shake”) e della propria retorica (“The Hope Six Demolition Project”), il nuovo album seduce sottilmente e in punta di piedi (seppur con qualche sapiente scossa). E’ un disco intimo ma che, per fare un paragone con il passato, all’intimità isolazionista di “White Chalk” sostituisce una maturità espressiva che trova una perfetta compiutezza sia nella scrittura che negli arrangiamenti (ovviamente grazie anche al solito immenso John Parish). Liberata in un certo senso dal suo personaggio e dalla necessità di alzare la voce e il tasso di enfasi, Harvey compie un ulteriore balzo anche come interprete, capace di gestire al meglio la propria voce anche tramite il falsetto e una varietà invidiabile di nuance. Il risultato è un disco che, per tornare all’assunto iniziale, non mette fretta, ma invita ad ascolti distillati nel tempo e soprattutto che riafferma Polly Jean, una volta deposte le armi da guerriera, come una delle migliori cantautrice (se non la più importante in assoluto) dei nostri tempi.
E che dire di “Atlas” di Laurel Halo? Un disco inafferrabile, composto di materia oscura che richiede un ascolto attento e focalizzato sull’insieme piuttosto che sui dettagli e capace di creare una felice sintesi tra ambient, avant, jazz e suggestioni hauntologiche alla Caretaker.
Il processo di progressiva rarefazione sonora dei Modern nature di Jack Cooper continua con “No Fixed Point In Space” dove la scrittura raffinata, il magistrale equilibrio silenzio/ suono e la vocalità delicata di Jack Cooper riescono a disegnare un percorso autoriale assolutamente personale che scansa ingombranti paragoni con modelli peraltro evidenti come i Talk Talk.
“il Viaggio” di Melanie De Biasio è esattamente quello che indica il titolo: un percorso fisico, mentale e culturale alla ricerca delle radici (italiane) che va assaporato piano piano. Un disco difficile da descrivere perché la forma composta da field sounds, folk, trip hop, jazz e ambient è solamente il guscio di una materia pulsante fatta di sensazioni, memoria ed emozioni.
Da quest’anno, quando guarderò la Luna, inevitabilmente nella mia testa si faranno largo le stilettate sonore di Richard Skelton e del suo “Selenodesy” (lo studio della Luna, vedi recensione), dove l’autore riesce a trascendere lo spunto scientifico di partenza e a portare la musica verso una dimensione esistenziale, mettendo a segno uno dei migliori lavori della sua consistente discografia.
Ormai ci siamo abituati a lasciare un posto libero nelle classifiche quando esce un album dei Necks e “Travel” (di cui abbiamo parlato qui) non fa eccezione, mettendo in mostra la solita incredibile capacità di dare forma coerente e seducente al mistero dell’improvvisazione.
A proposito di abitudine, sembra proprio questa la causa di una certa, ingiusta a nostro avviso, sottovalutazione del nuovo album degli Swans “The beggar”, del quale ha già parlato The Line; un disco con il quale Gira inizia a fare i conti con la propria età.
A proposito di tempo che passa, l’ottantenne John Cale, è tornato con “Mercy”, un disco sinuoso, stratificato e nebuloso che si svela lentamente per poi mostrare tutta la sapienza di un artista che non ha più niente da chiedere, se non di essere ascoltato con il dovuto rispetto e il tempo che la sua musica merita.
Un disco scivolato sottotraccia è “The Hum” di James Ellis Ford dei Simian Mobile Disco: un fascinoso melange tra canzoni, dalla bellezza lunare simile a certe pagine di Brian Eno, e brani strumentali che spaziano dall’ambient al funk, passando per musica da film e sonorità etniche.
La sorprese dell’anno sono due. Da un lato, il monumentale “The Lamb as effigy”, degli Sprain, del quale ha già parlato The Line, e dall’altro, l’inaspettato ritorno dell’’83enne Dorothy Moskowitz alla testa degli United States of Alchemy (ovvero Paolo Paladin e Luca Chino Ferrari). Il loro “Unknown To Ourselves” accompagna alle basi musicali minimaliste elettroacustiche, evocative e ipnotiche, i testi poetici che la Moskowitz canta o declama con una voce certamente consunta, ma ancora capace di incantare: un disco senza tempo da centellinare come un whisky d’annata.
Guardando al folk britannico, troviamo “False Lankum” dei Lankum vero e proprio outsider delle classifiche generaliste a livello internazionale; un lavoro “pesante” da maneggiare con cautela, dove le tendenze doom folk e acustico-rumoristiche dell’ensemble sono bilanciate dalle melodie senza tempo dei classici canti popolari. Visto il plauso che il gruppo ha ricevuto e l’attenzione che si é (speriamo non solo momentaneamente) accesa su questa splendida musica, vogliamo approfittarne per segnalare anche l’avant folk di John Francis Flynn con “Look over the wall, see the sky”, dove troviamo alcune analogie con uno dei grandi irregolari del nuovo folk, Richard Dawson.
Insomma, un elenco cospicuo di dischi che esercitano un fascino sottile, invitando alla riflessione invece che a una consumazione frenetica.
Ma vi sono state ovviamente delle eccezioni a questo approccio moderato all’ascolto e ci sono stati in particolare due lavori che ho “consumato” come ai vecchi (?) tempi.
Il primo è “Everyone Crushed” dei Water From Your Eyes, un album breve e compatto che, nel combinare musica suonata e campionamenti, sembra rievocare l’eccitazione e lo spirito pionieristico di certi anni ‘90, quando il rock, nel rinnovarsi, volgeva lo sguardo verso inediti linguaggi come quello dei sample o dell’hip-hop. Certo l’album è ben diverso da “Odelay”, per citare un classico dell’epoca, ma il duo riesce a rivitalizzare il moribondo rock odierno (e il mio entusiasmo), recuperando quel senso di eccitazione.
L’altro è “History Books”, il ritorno dopo nove anni dei Gaslight Anthem; un ottimo album dove risaltano la scrittura e l’interpretazione vocale di Brian Fallon che appaiono decisamente maturate e la produzione “indie” di Peter Katis. Un lavoro che coniuga la tipica genuinità della band con uno sguardo allo stesso tempo nostalgico, ma più adulto, senza far venir meno la classica epicità elettrica del gruppo. Il classico album che più che farsi strada nella mia top ten, si guadagnerà un posticino nel mio cuore.
Restano da citare dischi bellissimi come “Javelin” di Sufjan Stevens (vedi recensione); lo splendido ibrido 60’s/70’s “Everything harmony” dei Lemon Twigs dove songwriting e produzione raggiungono livelli davvero eccelsi; il sopraffino artigianato pop dei Clientele di “I am not there anymore” che con “Fables Of The Silverlink” firmano uno dei brani dell’anno e “Better Days” il sophomore album del nostro beniamino Alex Pester di cui parlerà per esteso Dixon.
Poi il lavoro di Jaimie Branch per il quali vi rimando alle parole nella sezione di Dixon, “Imagine This…” del fuoriclasse James Holden che vede un ritorno a sonorità prevalentemente elettroniche e danzerecce, ma che reca il segno delle svariate esperienze tra jazz e musica etnica degli ultimi anni, per concludere con “No Highs”, ennesimo centro di Tim Hecker, un album che – rispetto agli standard del musicista canadese – mostra un maggiore dinamismo anche grazie al sapiente utilizzo degli arpeggiatori.
Qualche parola poi sulle nuove leve. Innanzitutto la conferma di Loraine James con “Gentle confrontation”; autrice capace di comporre musica assolutamente contemporanea senza far percepire le barriere culturali a gente in su con gli anni come il sottoscritto. Con “I Killed your dog”, la newyorchese L’Rain prosegue a tessere il suo patchwork musicale composto da R’n’B, pop, hip-hop, sperimentazione ma, rispetto al passato, modellando la materia in maniera più melodica e accessibile e in definitiva più matura.
Infine concludiamo con tre vecchi leoni del cuore. Per l’ennesimo ultimo album di Pere Ubu, “Trouble On Big Beat Street” non si sa più cosa dire se non che il talento di David Thomas, uno dei più grandi artisti rock viventi (e non solo), si rifiuta di invecchiare. Vi è poi ritorno dopo 21 anni di Peter Gabriel con “I/O”, un album che smentisce una certa diffidenza prventiva, in virtù di canzoni non prive di autocitazioni ma decisamente efficaci e di una produzione ricca ma incredibilmente bilanciata.
Al cuor non si comanda per cui chiudiamo con una parolina sul solito incorreggibile Neil Young: serviva davvero “Before and After”, un “live/non live in solitaria” con brani già editi (a parte uno)? La risposta è ovviamente no, ma se all’ascolto della versione acustica di “I am the ocean” non vi viene un groppo in gola…
I DISCHI DI DIXON
Giungo buon ultimo e dunque mi limito ad aggiungere un po’ di dischi meritevoli di attenzione, ma non menzionati dai miei compagni. Comincio dalla parte più interessante, ovvero i cinque dischi che più mi hanno accompagnato nel 2023.
Premetto che, come molti quest’anno, mi sono ritrovato a premiare con gli ascolti più “i dischi che avevo bisogno di ascoltare”, che “quelli capaci di imporsi all’attenzione”. Non so se ciò è da ascrivere a una carenza di dischi capaci di sparigliare le carte o a una sorta di sentimento diffuso tra gli appassionati, tuttavia, se dovessi citare il disco più bello e totale dell’anno, l’unico che – a prescindere da gusti, inclinazioni, bisogni – potrebbe ambire al ruolo di disco dell’anno, citerei il disco postumo di Jaimie Branch, “Fly or Die Fly or Die Fly or Die ((world war))”. Un lavoro che ha il merito di aver reso ancora più fruibile la proposta musicale di Jaimie Branch, coniugando accessibilità e ricerca e che riesce a realizzare compiutamente tutti gli ambiziosi obiettivi che si prefigge: una musica americana totale che fonde jazz, funk, gospel, hip hop, aperture avant, maelstrom strumentali ai limiti del free, punk-hardcore e country blues. C’è davvero un mondo in questo disco, anzi… una nazione! Quella americana che al suo meglio (e non sappiamo ancora per quanto…) continua a essere terreno di coltura per ogni tipo di meticciato possibile. Un lavoro prezioso, che si impone da solo e al netto di tutte le suggestioni che la scomparsa prematura della sua autrice potrebbe scatenare.
Italia 90 – “Living Human Treasure”.
Gli Italia 90 sono l’ultimo di una serie di gruppi che negli anni recenti hanno rinverdito un suono, quello del cosiddetto post-punk britannico: chitarre in primo piano, postura vagamente psicogena, livorosa e incattivita (ma in questo caso riscattata da un mai didascalico impegno politico), testi frammentari, asciuttezza armonica con brani costruiti più che su accordi, su riff spigolosi e giri di basso incombenti. Gli Italia 90 correvano il rischio di arrivare buoni ultimi e dunque passare inosservati (come successo l’anno scorso agli Yard Act?), magari finendo per essere bollati come epigoni dei primi Fontaines DC, ma ascolto dopo ascolto “Living Human Treasure” ha fatto emergere tutta la qualità di un album che vanta semplicemente una scrittura perfetta, enfatizzata da un eclettismo che si spera preannunci evoluzioni future che seguiremo con interesse.. nel frattempo, ci godiamo uno dei nostri pezzi dell’anno: una “Competition” che manda in collisione post punk, noise e shoegaze, con un sottotesto anti-capitalistico che non cade mai nella retorica.
Crimi – “Scuru Cauru”.
Sui Crimi ho già scritto in occasione del bellissimo concerto che ho avuto il piacere di vedere questa estate. Con “Scuru Cauru”, il funk etnico e mediterraneo dell’esordio ha subito una manipolazione accorta che, senza diminuirne l’intensità, ne ha dilatato il respiro melodico e musicale, arricchendosi e guadagnando in profondità. Con “Scuru Cauru”, l’operazione culturale di Julian Lesuisse volta a tracciare una rotta in grado di intersecare blues, Africa e Sicilia può dirsi perfettamente compiuta.
Il talento di questo ragazzo appare davvero smisurato e probabilmente non ancora del tutto espresso. A circa vent’anni, giunto già al quarto (!!) disco, Pester continua a meravigliare, dopo che nel 2021 aveva consegnato alle stampe – purtroppo solo digitali – un capolavoro come “Lover’s Leap”. In “Better Days” la magnifica erranza psichedelica di “Lover’s Leap” si è attenuata, per quanto un certo retrogusto sia rimasto tra le pieghe di canzoni più concise e meno avventurose, più interessate a porgere all’ascoltatore una poesia gentile degna del Paul McCartney più pastorale.
Edgar Jones – “Reflections of a Soul Dimension”.
Vecchio eroe di culto ai tempi degli Stairs, il vecchio Edgar non è mai uscito dal giro e quest’anno lo ritroviamo con un disco eccelso. Nella sua musica ha finito per prevalere l’amore per il soul: il ragazzo di Liverpool si è depurato dalle (splendide) lordure garage-rock che rappresentavano l’altra grande direttrice della sua carriera e si è concentrato su un soul versante northern, pieno di spiritelli sixties che punta a trascendere le categorie di passato e presente, proiettandosi in un altrove temporale in cui questa musica non suona né vecchia né nuova, ma semplicemente esiste da sempre. E infatti è proprio questo il trucco che riesce a “Reflections Of a Soul Dimension”: mettere in fila dodici brani che potrebbero esistere da sempre, riuscendo a infondere linfa nuova a giri armonici e melodici risaputi.
Venendo al resto dei miei consigli di ripescaggio (le classifiche servono a questo?), evito di parlare di dischi già menzionati e commentati dai miei soci e dunque faccio conto che di Sprain, Necks, James Holden, Lil Yachty, Lemon Twigs e Tim Hecker abbiate già preso nota e mi limito ad aggiungere innanzitutto il kolossal scritto, diretto e interpretato da Dave Okumu e i suoi 7 Generations: “I Came from Love” è un disco maestoso, che sbandiera la propria blackness con una maturità e una consapevolezza politica, storica e musicale superiore persino alle recenti prove di artisti e band del calibro di Sault, Mourning [A] BLKstar e Moor Mother. Aggiungo inoltre il pop tutto chitarre, melodie e spruzzate di synth dei Pynch di “Howling At A Concrete Moon” (vedi recensione), esordio di una band che ci piacerebbe vedere in futuro continuare a proporre le proprie canzoni, rotonde e melodiche, che sfuggono il dualismo rabbia/schizofrenia e si concedono il lusso di un’ironia amara e disillusa e i piccoli manufatti pop di H. Hawkline che con “Milk For Flowers” (vedi recensione) ha perso un po’ della sua sbilenca stralunatezza, in favore di una maggiore compiutezza e di una ricerca melodica, rotonda e benefica, che tuttavia qua e là lascia riaffiorare quello spiritello weird che abbiamo da sempre associato al gallese. Infine, vorremmo citare una band che, dopo essersi imposta due anni fa con un disco apprezzatissimo ovunque, sembra essere già in caduta verticale di hype … e ciò nonostante “Strange Disciple”, terzo disco dei Nation Of Language raffini e migliori la formula dei precedenti lavori, proponendo una vibrazione sempre più raffinata che sembra far rivivere, con stilemi magari differenti, l’elegante sofferenza di certi poeti inglesi come Paul Buchanan…
Infine, concludo con le buone notizie giunte dal nostro paese.
In particolare, segnalo il secondo disco degli Zac, “II”, gruppo punk che ha deciso di suonare un power pop che non si vergogna di citare roba come gli Abba o gli ELO o di introdurre tastiere e synth, tenendo ben in mente gli elementi che consentono di non smarrire mai il sentiero giusto: energia e melodia; c’è poi da ringraziare la Love Boat Records che ha permesso a Nicola Giunta di arginare su disco le straripanti visioni del progetto The Thugs, moniker – condiviso con il batterista Edoardo Guariento – che in “Holy Cobra Dub” propone Derive & Visioni dub-psichedeliche che sfuggono, dilandolo, al concetto di tempo, spazio e datazione; si vuole poi sempre bene ai C+C=Maxigross, specie quando tirano fuori un disco magari imperfetto come “Cosmic Res” (vedi recensione), ma che disarma per la sincerità in cui mette a nudo la propria elaborazione del lutto: la danza tribale e psichedelica dell’album si nutre, infatti, delle energie liberate dalla voglia – genuinamente vitalistica – di reagire alla morte di Miles Cooper Seaton, leader degli Akron/Family, ma anche storico collaboratore, amico e produttore del collettivo veronese.
In ambito meno sommerso celebriamo le conferme di Lucio Corsi, cui abbiamo dedicato un lungo articolo dopo esserci esaltati per il glam immaginifico di “La gente che sogna” e di Venerus, che coraggiosamente ha rinunciato alle produzioni di Mace, per inseguire un sound più live e caldo, capace di esaltare al massimo una voce splendida in tutte le sue coloriture soul.
Se poi di Daniela Pes hanno parlato (meritatamente) un po’ tutti, preferiamo tenere l’ultima segnalazione per un outsider assoluto come Peppe Voltarelli, che con “La grande corsa verso Lupionòpolis” consegna un disco prezioso di cui purtroppo si parlerà pochissimo, ma che meriterebbe ben altro spazio e celebrazione: la sua canzone d’autore, debitrice tanto dei blues di Tom Waits, quanto della scrittura collettiva e popolare del folk nostrano, trapianta a New York il proprio animo calabrese e riesce così a fermare su nastro tutta quella spaesata poesia che avevano gli italiani che emigravano in luoghi lontani e ostili e di cui purtroppo abbiamo perso la memoria.
Al prossimo anno!
LE NOSTRE TOP TEN
THE LINE
Sprain – The Lamb As Effigy
Swans – The Beggar
Sufjan Stevens – Javelin
Geese – 3D Country
McKinley Dixon – Beloved? Paradise? Jazz!?
JPEGMAFIA & Danny Brown – Scaring the Hoes
Squid – O Monolith
Lil Yachty – Let’s Start Here
Mitski – The Land Is Inhospitable And So Are We
Jaimie Branch – Fly Or Die Fly Or Die Fly Or Die ((World War))
MASON
Melanie De Biasio – Il Viaggio
Laurel Halo – Atlas
PJ Harvey – I Inside The Old Year Dying
Lemon Twigs – Everything Harmony
Modern Nature – No Fixed Point In Space
Alex Pester – Better Days
Richard Skelton – Selenodesy
Sprain – The Lamb As Effigy
Sufjan Stevens – Javelin
Water From Your Eyes – Everything Crushed
DIXON
Jaimie Branch – Fly Or Die Fly Or Die Fly Or Die ((World War))
Crimi – Scuru Cauru
Italia 90 – Living Human Treasure
Alex Pester – Better Days
Edgar Jones – Reflection of a soul dimension
Dave Okumu & 7 Generations – I Came from Love
H. Hawkline – Milk For Flowers
Sprain – The Lamb As Effigy
Pynch – Howling at a concrete moon
Lil Yachty – Let’s Start Here
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