Mackaye” é il disco hardcore dei Non Voglio Che Clara. Non lo diciamo noi, attenzione! Si tratta di una qualifica che lo stesso Fabio De Min, voce del gruppo, ha attribuito a questo nuovo lavoro della band, uscito il 24 novembre per Dischi Sotterranei. In particolare, il cantante di Belluno ha parlato di “uno sguardo rivolto al periodo della nostra tarda adolescenza: mi piace pensare sia un po’ il nostro disco hardcore: diretto, conciso e resiliente”.

Intendiamoci, dal punto di vista sonoro il gruppo veneto non si è messo a suonare come i Fugazi, però c’è da dire che il legame con quella scena americana è presente in una maniera – come spesso capita con i Non Voglio Che Clara – per nulla banale e di certo piuttosto sottile. 

Partiamo dunque dal titolo del primo pezzo della scaletta che intitola programmaticamente l’intero lavoro, ovvero “MacKaye”. Un brano che in sé raccoglie tutte le suggestioni dell’intero disco, sia a livello musicale che tematico. Un pattern elettronico su cui si appoggia una chitarra stoppata e una batteria secca e asciutta su cui la band costruisce un suono che, rispetto al precedente “Superspleen Vol. 1”, più ritmico e frizzante, si presenta glaciale e notturno, con una fotografia blu ghiaccio a far da contrasto alla voce calda e confortevole di Fabio De Min.

Al terzo disco con la medesima formazione, i Non Voglio Che Clara stupiscono per la maturità raggiunta, sia in fase di scrittura che in quella di arrangiamento, con l’ulteriore soddisfazione di aver fatto tutto da soli, dalla scelta di ogni timbrica fino ad arrivare agli scatti della copertina, in un trionfo di logica Do It Yourself su cui torneremo tra poco.

E’ passato ormai parecchio tempo da quel 2004, anno in cui la band esordiva con “Hotel Tivoli”, un lavoro ricamato da trame acustiche, a tratti jazzate, e da fiati bacharachiani, che ancora oggi molti rievocano come si fa con certi maglioni caldi e confortevoli, dentro cui si é trascorsa la propria adolescenza. Un suono retrò, illuminato da archi magniloquenti e un’atmosfera vagamente morriconiana, che presto veniva superato dal gruppo stesso: la voglia di provare altre strade e il timore che un sound così peculiare potesse trasformarsi presto in una gabbia portavano i Non Voglio Che Clara, a partire dal disco “Dei Cani” (2010), a sviluppare un suono magari meno caratterizzato, ma che aveva il pregio di inglobare elementi disparati, a partire da trame elettroniche che aggiungevano un tocco di – ben amalgamata – contemporaneità. 

La prima domanda riguarda dunque proprio il suono del gruppo. E in particolare, se ancora oggi la band è spinta da una ricerca programmatica verso un determinato sound oppure se tutto viene lasciato alla naturale interazione tra i musicisti: 

Adesso ci “limitiamo” ad accendere le macchine e vedere cosa succede. Un approccio che scegliamo per un motivo abbastanza semplice: la formazione si è ormai stabilizzata con Igor De Paoli, Marcello Batelli e Martino Cuman. Marcello e Igor sono entrati a partire da “I cani”, Martino appena dopo. Il primo disco che abbiamo suonato tutti assieme è stato “L’amore finché dura” e dunque questo è il terzo che facciamo con questa formazione. Si sono stabilizzate anche le relazioni e ci conosciamo bene da un punto di vista compositivo: bene o male so dove potrebbe andare a parare Martino o cosa potrebbe fare Marcello. La conseguenza é che i dischi sono molto più corali di quanto fossero all’inizio, nel senso che io scrivo i pezzi, passo una demo agli altri, a volte anche con degli arrangiamenti abbastanza precisi… e poi quello è il momento in cui tutto va a puttane! Nel senso che ognuno poi interviene e aggiunge la sua. Nel caso di “MacKaye” sono d’accordo con la tua definizione: è un disco più glaciale e meno colorato di “Superspleen Vol. 1”, ma non saprei dirti però da cosa questo dipenda… non l’abbiamo deciso a tavolino. Posso dirti che quando abbiamo finito “Superspleen Vol. 1” ci siamo trovati con un bel po’ di brani già abbozzati in studio. Alcuni ci convincevano, altri erano solo delle bozze, ma l’idea che ci è venuta subito in mente è stata quella di fare subito un “ Volume 2”, pensando a un capitolo ulteriore che rappresentasse il lato oscuro del volume uno: se il primo disco poteva essere vagamente estivo, questo avrebbe dovuto essere vagamente invernale. Quando però ci abbiamo lavorato, abbiamo capito che stavamo raccontando un’altra storia e il disco che ne è venuto fuori era totalmente diverso da quello che avevamo in testa… a quel punto abbiamo anche deciso di cambiare il titolo e lasciare perdere il riferimento al “Volume 2””.

Proprio il titolo, “MacKaye”, che cita il cantante e chitarrista dei Fugazi Ian MacKaye, chiama in ballo una scena musicale, quella punk hardcore americana, che già in passato aveva fatto capolino nei testi di De Min (ad esempio, nella citazione dei padovani Red Worms’ Farm nella spendida “Gli anni dell’università”) e che in questa occasione viene utilizzata in maniera identitaria:  

“Con i gruppi hardcore condividevamo le sale prove, nel senso che la scena della mia città era fatta di gruppi hardcore ed emo. Sono cresciuto con quella musica e, in generale, con la musica alternativa americana e a spingermi a suonare la chitarra sono state band come i Dinosaur Jr o gruppi chitarristici come i Teenage Fanclub. Ho cominciato a scrivere su quelle cose lì, ma sempre con l’idea di esprimermi in italiano. Ti confesso ad esempio che tutte le altre suggestioni, comprese quelle dei cantautori italiani di cui in realtà non sono un grandissimo fan, sono in realtà arrivate molto dopo e spesso per breve tempo. E’ strano, visto che mi associano spesso ai cantautori italiani, ma io non amo ad esempio De Andrè e credo di non aver mai ascoltato un disco di De Gregori dall’inizio alla fine… l’unico vero amore é stato Luigi Tenco, l’influenza dell’hardcore invece é stata certamente più forte e penetrante e riguarda il modo di fare musica e la maniera con cui trattare la materia. Per questo disco ci siamo presi il lusso di fare tutto da soli. Persino le foto per la copertina le abbiamo fatte da soli utilizzando una lente bifocale… e questo perché ci piaceva l’idea di farlo e questa voglia probabilmente veniva proprio da quel mondo lì. Dal DIY. Dall’età in cui, prima ancora di fare dischi, raccattavamo pezzi di impianto per organizzare concerti improvvisati, spesso chiedendo ad altre band – che magari appunto suonavano hardcore –  di prestarci delle componenti… Quella cultura lì ci appartiene ancora e ce ne accorgiamo ogni volta che agiamo come musicisti e in generale credo influenzi lo sguardo che abbiamo sulla musica e sulle cose che ci stanno intorno.” 

La scelta di “Mackaye” come titolo introduce un altro tema relativo ai riferimenti culturali e al name dropping presente in diversi passaggi del disco. Se in passato i Non Voglio Che Clara avevano citato Cary Grant, Bukowski e persino Ben Hur, in questo lavoro si aggiungono, oltre a Ian MacKaye, anche Lucio Battisti e Robert Miles. Sulla questione si era espresso lo stesso De Min nelle dichiarazioni allegate alla cartella stampa: 

Non è nostalgia, non è neanche la ruffianeria presuntuosa di un omaggio, ma piuttosto un’istantanea, fulminea, che arriva da lontano a suggerirci una chiave di lettura per ciò che ci è vicino, che giunge a ricordarci da dove proveniamo e che le idee talvolta ci appartengono, ma più spesso siamo noi ad appartenere loro». 

Quella degli attuali quarantenni/cinquantenni é con buona probabilità la prima generazione per cui i riferimenti culturali sono stati tanto importanti e formativi, quanto le esperienze reali della propria vita quotidiana. Una generazione formata in egual misura dai pomeriggi passati al bar e in piazza, quanto dall’immaginario e dai riferimenti culturali forniti dalla televisione o, per i più curiosi, dai film di Hitchcock, i libri di Bukowski o i dischi dei Fugazi. Un’influenza che, adesso, giunto il momento in cui ci si guarda indietro per comprendere il proprio percorso, viene fuori in maniera quasi naturale, offrendo una chiave di lettura per comprendere perché si agisce in una certa maniera piuttosto che in un’altra. E’ lo stesso De Min infatti a precisare: 

La cosa che ha dato la scintilla al brano “Mackaye” e in generale all’idea di farlo diventare il brano simbolo dell’intero disco é che é facile scrivere un pezzo che si intitola Kurt Cobain, mentre è più difficile scriverne uno che si intitola “Mackaye”! Può sembrare un pensiero un po’ superficiale, ma tradisce tutte le cose che hai detto… e quando parlo di appartenenza parlo proprio di questo. Con il name dropping funziona nella stessa maniera: da un lato è uno stratagemma spesso comodo per risolvere tecnicamente il problema delle parole tronche, ma in realtà pone inevitabilmente una questione identitaria. Se devo inserire un riferimento, dove lo vado a pescare?  Visto che racconto storie di post adolescenza vissute in provincia, il riferimento per me non potrà che attingere al mio vissuto culturale del tempo, che fa riferimento a un periodo in cui, un po’ per l’età, un po’ per il tipo di fruizione che avevamo noi, quelle cose erano estremamente formative. Rispetto alla quantità enorme di roba che viene immessa oggi nel mercato, c’era il vantaggio che ce n’erano poche e che comunque si doveva passare dal vaglio economico: non so quanti dischi potessi permetterti tu, ma io potevo permettermene pochi. E dunque tutto diventava ancora più formativo per la difficoltà di reperire e soprattutto perché in quel periodo era chiaro come quelle esperienze musicali avevano un loro valore culturale che veniva immediatamente percepito”.

Un romanzo di formazione faticosamente costruito da parte di una generazione che, dunque, in un disco come “Mackaye” può trovare una bella fotografia di sé, oltre che un’acuta rappresentazione dei riflessi che questa costruzione di identità ha tutt’ora sul presente: se ancora oggi tocca ricorrere a certi riferimenti per trovare una propria definizione, ciò non può che dimostrare quanto profondo fosse quel processo.

D’altronde, l’opera dei Non Voglio Che Clara, tra le tante cose, ha finito anche per assumere i contorni di un racconto in tempo reale di una generazione che adesso sta pian piano invecchiando e che si misura con il tema dell’età. Se nel 2004 ne “I piani per il sabato sera” De Min scriveva “ma se tu chiedi aiuto chi verrà/ quando uno soffre o chiede aiuto si va/ senza se e senza ma”, raccontando in diretta l’età della giovinezza e del mutuo soccorso tra amici, già nel 2010 l’io narrante de “Gli anni dell’università” si trovava già fuori da quell’età e l’aiuto reciproco veniva implorato in virtù del tempo comune, ma ormai passato (“Monica, ora ti chiedo aiutala. Giulio, Fabio, vi prego aiutatela”). Nello stesso disco, d’altronde, nel brano “L’inconsolabile””, De Min cantava: “Qui si dice che fu per amore, ma io lo so / Ciò che ho pianto era una stagione della vita che è finita già”. Nel nuovo lavoro, il protagonista del nostro “romanzo” si guarda ormai definitivamente indietro: 

Qualcuno un giorno si alzerà

con i figli già cresciuti

senza preoccuparsi mai di chi fosse Ian MacKaye

in sella ai motorini, coi loro piccoli guai,

ma in fondo senza troppi pensieri,

simili a come eravamo noi.

E spero che anche tu stia bene

e che non ti manchi niente

a parte, ovviamente,

la tua gioventù.

(“MacKaye”)

Qualcosa troverò, qualcosa inventerò

per ingannare il tempo senza te

la poca voglia che ho di invecchiare

(L’inventore”)

Tematiche presenti anche in uno dei brani migliori del disco, “Miles”, vero e proprio viaggio nella memoria emotiva di una giovinezza che può essere ormai solo ricordata:

Nonostante, nel corso della nostra chiacchierata, Fabio De Min non si “appropri” mai della ragione sociale, ma faccia sempre riferimento ai Non Voglio Che Clara come “band”, è innegabile che uno dei valori aggiunti della formula sia proprio la sua scrittura, da sempre influenzata tanto dall’autobiografismo, quanto dal racconto e capace di pescare dal proprio vissuto (spesso anche solo emotivo), per poi tracciare – con pochi, ma significativi dettagli – storie minimaliste, impregnate di un familiare senso di quotidianità. 

Dettagli come, ad esempio, il letto che ne “Il Complotto” dovrebbe certificare la fedeltà dell’amata (E cerchi con la coda dell’occhio/ Fra le pieghe di un letto disfatto/Fra gli stampi sul cuscino e le lenzuola/ Un lato intatto):

Non ricordo esattamente come ho scritto quella canzone, ma tutto potrebbe esser nato proprio da una riflessione fatta su un letto parzialmente sfatto. Quel dettaglio lì è la parte che mi stuzzica di più nella scrittura, quella su cui poi è possibile costruire tutta la storia. Mi piace osservare le relazioni tra le persone e quando scrivo cerco di concentrarmi su piccole cose, di trovare dei piccoli elementi su cui soffermarmi, su emozioni molto circoscritte… cerco di partire dall’infinitamente piccolo per arrivare all’infinitamente grande. Dici bene che nella mia scrittura è presente sia la componente autobiografica che quella del racconto, ma voglio precisare che spesso la componente autobiografica è rappresentata più dal “sentire” che dal vissuto. Quella che è autobiografica é la lente con cui si vedono le cose… chi lo sa, forse la verità è che io sto raccontando sempre la stessa storia e che a cambiare in realtà è solo l’età del narratore, il “sentire” di chi racconta. 

Quando gli chiedo se cambia l’età del narratore o del personaggio si ferma a riflettere e dice che “forse personaggio e narratore sono la stessa persona, nel senso che perché ci sia quel sentire devi essere all’interno della cosa…”

Difficile d’altronde penetrare davvero i segreti che portano alla scrittura delle canzoni. Vengono in mente le parole di Leonard Cohen, raccontate da Jarvis Cocker, che ammonivano a non “esplorare queste meccaniche sacre”, perché “il rischio di indagare troppo a fondo questo processo” potrebbe portare a “una sorta di stato di paralisi” della scrittura stessa:

Non saprei dirti bene come funziona la scrittura dei brani… per quanto mi riguarda ci lavoro parecchio, ma non troppo: a un certo punto capisci se la cosa sta funzionando o meno. Ed è una cosa che a me viene ormai naturale. Ricerco sempre in maniera naturale una simbiosi fra testo e melodia. E forse è questa la cosa più importante, quella alla fine mi convince che la canzone sia finita e che funziona: quando capisco che sto cantando le cose nel modo giusto e con questo non intendo che le canto bene, ma che sto utilizzando delle melodie che sono coerenti con le cose che sto raccontando… ho messo così tanta attenzione su questa cosa che difficilmente potrei scoprirmi a fare il contrario. E forse per questo la costruzione per me non é poi così tanto laboriosa”.

Ma d’altronde poco importa quale sia il processo misterioso che porta i Non Voglio Che Clara a scrivere brani di grandissima intensità poetica, basta godersi l’ennesimo lavoro di un gruppo maturo e pacificato; che, nonostante non disdegni di crogiolarsi nella malinconia, riesce comunque a trasmettere una serenità capace di risultare – come riusciva a certe band americane di tanti anni fa – incredibilmente identitaria.