Sappiamo bene che il talento di Sufjan Stevens è pari solo alla propria capacità di disperdersi in mille progetti e dunque non dovrebbe forse sorprendere se il ragazzo di Detroit abbia atteso ben otto anni prima di tornare a quella dimensione cantautoriale che lo aveva visto pubblicare “Carrie and Lowell”, ovvero uno dei suoi dischi capolavoro, nonché uno dei lavori più ispirati di tutto lo scorso decennio.

In questi otto anni, Sufjan – a riprova della propria incontinenza creativa – non era certo rimasto con le mani in mano… dopo il tour di “Carrie and Lowell” e una pausa di circa due anni, il ragazzo aveva ripreso a incrementare la propria discografia, aggiungendo diversi capitoli: il lussurioso “Planetarium” insieme ai sodali Nico Muhly, Bryce Dessner e al percussionista James McAllister; una raccolta di bozzetti elettronici con Lowell Brams (sì proprio QUEL Lowell…) e un album di canzoni scritte a quattro mani con il discepolo Angelo De Augustine. A questi progetti va aggiunta l’attività di compositore che mette all’attivo due pièce di pianoforte per balletto (“The decalogue”, ispirato nientemeno che ai 10 comandamenti), l’album “Reflections” e il ponderoso e decisamente interessante progetto ambient in 5 volumi, “Convocations”, ispirato ancora da un lutto, questo volta quello del padre. Senza considerare che anche lo Stevens solista aveva comunque dato alle stampe l’incostante album elettronico “The Ascension”, oltre a diverse canzoni sparse come la magnifica “Mistery Of Love”, donata a Luca Guadagnino per il suo “Chiamami con il mio nome”, che gli è valsa addirittura una nomination agli Oscar, con tanto di esibizione dal vivo.

Insomma tanta carne al fuoco come spesso Stevens ci aveva abituato, soprattutto negli anni ‘00, quelli del furore creativo giovanile, ma a differenza di allora con risultati decisamente meno consistenti. A voler essere maliziosi si potrebbe pensare che il newyorchese di adozione abbia fatto di tutto pur di non tornare a calcare il terreno cantautoriale e confrontarsi con il capolavoro del 2015. Chi conosce bene l’artista invece sa che questo vagabondare espressivo è semplicemente parte costituente del procedimento artistico dell’autore. Stevens non ha mai avuto il dono della sintesi e ha un naturale bisogno di lasciare libera la propria incontinenza artistica che si concretizza spesso in lavori minori o collaterali, per poi riuscire a definire le proprie intenzioni e a mettere a fuoco l’ispirazione.

Ecco quindi che un lavoro come “Javelin” non rappresenta l’atteso e procrastinato seguito di “Carrie & Lowell”, ma semplicemente un disco che ha trovato solo adesso il terreno fertile per la propria creazione. Al punto che consigliamo agli ascoltatori di scrollarsi di dosso l’ingombrante ombra del disco del 2015 e di considerare “Javelin” semplicemente una raccolta di canzoni slegate da un nucleo emozionale comune, ma non per questo prive della caratteristica intensità propria delle composizioni di Sufjan. 

Pur prive di un’unità tematica esplicita infatti le canzoni questa volta sembrano volgersi verso una direzione confessionale e titoli come “Will anybody ever loved me?”, “Shit Talk”“So you are tired” con la sua drammatica e impietosa apertura (“So you are tired of us/So rest your head/Turning back fourteen years/Of what I did and said”) fanno capire apertamente quali sono le atmosfere che permeano tutto il disco.

Ma un album si giudica e si regge soprattutto sulla forza della scrittura e da questo punto di vista sappiamo, e “Javelin” lo conferma, che quando Stevens bazzica il cantautorato non ce n’è per nessuno o quasi. Ma se l’inconfondibile scrittura di Sufjan risulta come al solito una certezza, più problematica e ondivaga può invece risultare la gestione della produzione e degli arrangiamenti.
I suoi album possono muoversi – spesso anche all’interno dello stesso lavoro – tra massimalismi e minimalismi, folate orchestrali e tempeste elettroniche. E se Sufjan è il tipico artista che non si nega nulla, é altrettanto vero che i suoi lavori migliori risultano essere quelli in cui il musicista americano riesce a raggiungere un equilibrio dinamico, capace di inglobare persino elementi eccessivi o apparentemente incongrui, in ragione di un quadro generale da cui emergere la propria identità e coerenza stilistica
Tirando le somme, “Javelin” ne esce come un lavoro maggiore di Sufjan Stevens, un album che riesce a conciliare la qualità dei brani con degli arrangiamenti capaci di esaltare e non soffocare (come accadeva ad esempio in “The Ascension”) la bellezza dei singoli episodi. Il segreto del successo sembra essere la capacità di sintesi tra i vari registri che l’autore ha utilizzato: da quello lieve e intimista di “Carrie and Lowell” e “Seven Swans” all’esuberanza elettronica di “The Age of Adz”, passando per gli svolazzi orchestrali di “Michigan” e “Illinoise”, con i cori femminili (un elemento cardine del suono di Stevens) a fare da trait d’union.

Prendiamo ad esempio  il brano apertura, “Goodbye Evergreen”, purtroppo ispirato ancora una volta da un avvenimento tragico nella vita dell’artista, ovvero la morte del suo partner Evans Richardson IV, scomparso a soli 43 anni nell’aprile del 2023. Un lutto dal quale Stevens trae la forza per fare coming out, dedicando la canzone proprio al compagno scomparso. Una canzone che ancora una volta dimostra la maturità emotiva e artistica dell’artista capace di affrontare ed esprimere il lutto in maniera estremamente personale e mai scontata. Il brano inizia come una ballata per piano e la voce vellutata di Stevens, rinforzata dalle voci femminili, ma poi esplode in una vampata straniante e quasi dissonante di voci, tastiere, percussioni, batterie elettroniche, fiati (e chi ne ha più ne metta) stratificate. Un pieno orchestrale che alla luce degli avvenimenti non possiamo che considerare come coraggiosamente catartico. Si può utilizzare il termine “perfetto”?

Sufjan Stevens - Goodbye Evergreen (Official Lyric Video)

Il resto del programma poi non è da meno. Alcune canzoni spiccano da subito tra le altre come la disarmante e toccante “So you are tired”, che entra fin da subito nel gotha dei migliori brani dell’autore o la lunga “Shit Talk” che riporta ai fasti sufjaniani dei ruggenti anni 00. Per non parlare di “Will anybody ever love me?” illuminata da un ritornello implacabile e dall’ennesimo arrangiamento impeccabile.
Ma pian piano, come dei maratoneti che avanzano con il proprio passo, anche gli altri episodi si prendono il proprio posto, compresa un’irriconoscibile cover di “There’s a World” di nonno Nello, posta in chiusura di scaletta.

Con gli ascolti le inevitabili scorie di “Carrie and Lowell” si disperdono,  e quando finalmente ci ritroviamo ad ascoltare semplicemente “Javelin” e non più il successore del lavoro del 2015, l’album germoglia, mettendo in mostra i propri frutti succosi. Se dunque Sufjan con questo disco non si riguadagna – con la prepotenza del proprio genio – il centro della scena, consegna comunque un lavoro di grande bellezza e umanità, rivolto non solo a chi ne ha sempre amato il talento, ma anche a chiunque vada in cerca di musica capace di pacificare con la propria grazia.

P.S. Non si può concludere questo articolo senza citare il grave problema di salute che ha colpito Sufjan Stevens pochi giorni prima della pubblicazione di “Javelin” e che lasciamo raccontare proprio a lui tramite le parole postate sui social:
“Sono molto entusiasta di avere nuova musica da condividere, ma volevo farvi sapere che uno dei motivi per cui non ho potuto partecipare alla promozione di Javelin è perché sono in ospedale. Il mese scorso mi sono svegliato una mattina e non riuscivo a camminare. Le mie mani, braccia e gambe erano intorpidite e formicolanti e non avevo forza, sensibilità, mobilità. Mio fratello mi ha portato al pronto soccorso e dopo una serie di esami – risonanza magnetica, EMG, TAC, raggi X, rachicentesi (!), ecocardiogrammi, ecc. – i neurologi mi hanno diagnosticato una malattia autoimmune chiamata Sindrome di Guillian-Barré. Fortunatamente esiste una cura: somministrano infusioni di immunoemoglobina per cinque giorni e pregano che la malattia non si diffonda ai polmoni, al cuore e al cervello. Molto spaventoso, ma ha funzionato. Ho trascorso circa due settimane in Medicina/Chirurgia, bloccato in un letto, mentre i medici facevano di tutto per mantenermi in vita e stabilizzare le mie condizioni. Devo loro la mia vita. L’8 settembre sono stato trasferito in un reparto di riabilitazione, dove ora mi sto sottoponendo a terapia intensiva di fisioterapia/ergoterapia, rafforzamento, ecc. per rimettere in forma il mio corpo e imparare a camminare di nuovo. È un processo lento, ma dicono che “mi riprenderò”, ci vuole solo molto tempo, pazienza e duro lavoro. La maggior parte delle persone affette da GBS imparano di nuovo a camminare da sole entro un anno, quindi sono fiducioso. Sono solo alla seconda settimana di riabilitazione, ma sta andando molto bene e sto lavorando davvero duramente per rimettermi in piedi. Mi impegno a migliorare, sono di buon umore e sono circondato da una squadra davvero fantastica. Voglio stare bene! Vi terrò aggiornati sui progressi. Grazie per i pensieri e le preghiere. E un enorme ringraziamento a tutti gli incredibili caretaker del mondo che lavorano notte e giorno per aiutarci a guarire. Sono santi viventi.”

Come affezionati ascoltatori vogliamo augurare all’autore che il suo talento artistico lo aiuti  ancora una volta a superare le proprie difficoltà veicolandole in musica con la forza interiore e la sensibilità che lo ha sempre contraddistinto. E come esseri umani non possiamo che concludere con queste parole: forza Sufjan!