Esistono due Sicilie: quella reale, geograficamente ben collocabile sulle carte, e quella immaginaria, alimentata dal suo stesso mito. 

Una doppia dimensione certificata persino da un autore come Andrea Camilleri che, con le sue straripanti invenzioni linguistiche, ha dato forma a un luogo immaginario, capace di essere allo stesso tempo sunto iperrealista della Sicilia, ma anche personalissima cartina geografica di un animo cresciuto sotto quel sole.

Qualcosa di simile accade con la musica dei Crimi. Sulla carta si tratterebbe di un progetto piuttosto improbabile: un musicista francese, Julian Lesuisse, in pista da almeno vent’anni (vedi alla voce Mazalda Turbo Clap), folgorato dal rai algerino (dopo gli incontri con Cheb Lakhdar, prima e con Sofiane Saidi, dopo), ha l’intuizione che – per arrivare a quel battito primordiale – è possibile utilizzare il dialetto che la madre, immigrata siciliana in Francia, ha sempre parlato. Julian ha ascoltato fin da bambino quella lingua: parole fitte, spesso non destinate a lui, ma capaci di insinuarsi nel suo subconscio. 
Nella sua memoria si fa strada una Sicilia mitica che vive di suoni che conservano labili legami con il proprio significato, accrescendone il fascino e aprendo a nuovi scenari di senso. Da musicista ritiene che nulla é più simile alla nota musicale della parola che suggerisce il suo significato, ma si ritrae un attimo prima di disvelarsi. 
Mette su una band, chiamando a sé musicisti dalla tecnica sopraffina, ma anche capaci di comprendere la filosofia che sta alla base del progetto: Cyril Moulas alla chitarra, Mathieu Felix al basso e Bruno Duval alla batteria (poi sostituiti rispettivamente da Brice Berrerd e Damien Bernard). 

Per comprendere se il progetto funziona davvero, il gruppo decide di misurarsi con due classici della cantantessa “indipendente” Rosa Balistreri (“La Vicaria” e “La Virrinedda”). L’esito positivo incoraggia Julian che compone altri sei episodi autografi che nel 2020, assieme ai brani della Balistrieri, vengono raccolti nell’esordio della formazione, “Luci e Guai”. 

Crimi - Chi ci talia?

Un disco che lascia spiazzati per la felicità della sua scrittura, esaltata dal suono secco ed essenziale, funk e vibrante, di un combo rock che suona come se i Karate di “The Bed Is In The Ocean” fossero nati in Sicilia e cresciuti con le orecchie rivolte verso il mediterraneo.

Un esordio che lasciava intravedere potenzialità che il seguito “Scuru Cauru”, uscito quest’anno per Airfono e in Italia per la 42 Records, ha tradotto in fatti: la materia vibrante dell’esordio ha subito una manipolazione accorta, che senza diminuirne l’intensità, ne ha dilatato il respiro melodico e musicale. La musica dei Crimi si è semplicemente arricchita: si è espansa ed ha guadagnato in profondità; occupa una spazio maggiore ed ha rinunciato solo parzialmente agli spigoli aguzzi del proprio funk etnico e mediterraneo. Con “Scuru Cauru”, l’operazione culturale di Julian Lesuisse volta a tracciare una rotta in grado di intersecare blues, Africa e Sicilia può dirsi perfettamente compiuta. 

Mancava però un ultimo tassello… Qualcosa capace di dare corpo e sostanza a quella Sicilia immaginata ed utilizzata come veicolo culturale per giungere in un altrove personale. 
Occorreva un concerto che “riportasse tutto a casa”, sottoponendo al vaglio della realtà quelle suggestioni coltivate in sala prove. 
Un concerto in cui la Sicilia cantata dai Crimi diventasse materica e si ricongiungesse con la sua matrice originaria, sovrapponendo reale e immaginato, suggestione e realtà, ricordo e tempo presente. 

A fornire l’occasione giusta ha provveduto il festival Mish Mash, organizzato in quel di Milazzo, in provincia di Messina, nella splendida cornice del Castello/Fortezza che troneggia sulla città. Un festival che nella sua seconda giornata ha visto come headliner i celebratissimi Nu Genea che, forti del proprio sound disco/funk/napoletano, non potevano che richiamare un foltissimo pubblico, per la gran parte giovanile, pronto a perdersi nella notte, ballando fino allo sfinimento sul groove messo in piedi dal duo-un-tempo-noto-come-Nu-Guinea. 

Quando i Crimi salgono sul palco, il pubblico sta ancora arrivando alla spicciolata, ma quando il concerto entra nel vivo, la platea ha raggiunto un numero soddisfacente, capace di dare corpo al rapporto che da sempre deve sussistere nella musica popolare tra cantore e pubblico. 
Julian sembra sinceramente emozionato di portare per la prima volta quella sua musica nel luogo che l’ha ispirata e si concede poche parole di presentazione prima di dare il via a uno spettacolo che potrà contare sulla sua perizia sul synth sax alto (che padroneggia come un jazzista), ma soprattutto su una vocalità avvolgente, che ha imparato a far svolazzare tra le note così come ha sentito fare nei dischi che ha studiato attentamente. 
Non sono da meno i tre compagni: Cyril Moulas sulla sua Telecaster semi hollow body mette al servizio di inventiva e gusto un tocco raffinato e senza sbavature, Brice Berrerd al basso é tellurico e sa creare, assieme alla batteria essenziale e poliritmica di Damien Bernard, un tessuto ritmico e armonico solidissimo su cui far lievitare gli svolazzi melodici di chitarra, voce e occasionali synth.

Ed è così che prendono corpo i brani ripescati dall’esordio, come la fulminante e incredibilmente pop “Mano D’oro”, la sinuosa “Chi ci Talia?”, il funk cripto fusion di “Ciatu di Lu Margiu” e una “La Vicaria”, in cui oltre a Rosa Balistrieri si rende omaggio anche a Orazio Strano.
Dal nuovo disco giungono i brani in cui la band riesce a riprodurre dal vivo gli intrecci fantasiosi che hanno reso “Scuru Cauru” un piccolo miracolo: la locomotiva per synth e chitarra che fa sfrecciare “Notti Ruffiana”; l’Africa sensuale di “Giannina”; l’andamento alticcio, ma perfettamente controllato di “Luci Darrè”; gli andirivieni sabbiosi di “‘A sira” e una “Stiddi!” che, posta in chiusura di concerto, sfoggia un break musicale che lievita fino a diventare una sfuriata disco-punk.

Quando scende il silenzio, ci si accorge come – durante l’ascolto – era possibile riconoscere e/o percepire come familiare ogni singola nota suonata dalla band,  segno che gli arrangiamenti ideati dai quattro musicisti hanno colto, pur nella ricchezza dei registri utilizzati, una essenzialità capace di “vestire” al meglio i brani. 

Canzoni che, Julian e i suoi soci, dopo anni passati a studiare sonorità, accenti, scale e alterazioni hanno consegnato alla terra che li ha ispirati. Da cui poter adesso ripartire alla volta di nuovi lidi.