Non credo di dire nulla di originale nel sostenere che nella vita di ogni ascoltatore vi sono dei momenti epifanici, capaci di generare un tale cambio di percezione nella maniera di approcciare la musica da riverberarsi, più in generale, nel modo di guardare al mondo stesso. Un po’ per farvi capire a cosa alludo e un po’ perché questo é un blog ve ne cito tre dei miei: il pomeriggio in cui da ragazzo, in un cinema della mia città (ahimé, ormai chiuso) assisto alla proiezione di “Bird”, e durante l’assolo di “Lester Leaps in“, il mio orizzonte musicale si apre verso spazi smisurat i(é colpa di questo  film dopotutto se, quando penso a Charlie Parker, immagino ancora il volto di Forest Whitaker…).
O quel giorno del 1991, all’ormai defunto Virgin Megastore, cuffie in testa e giubbotto di jeans di ordinanza, ascolto  “Laughing Stock”, del quale avevo letto su Rockerilla. Sono lì che attendo che la band di “Such a shame” (o al massimo di quello strano singolo “Life’s what you make it”, poichè allora non conoscevo l’esistenza di “Spirit of Eden”) emetta qualche dannato suono, oltre al canto dei grilli, quando una semplice plettrata di chitarra e la voce spezzata di Mark Hollis mi cambiano letteralmente la vita. 
Infine, il tumultuoso break che mi ridesta (ero sdraiato al buio) interrompendo la trance della prima parte di “Body” dei Necks. 
Sono solo alcuni esempi di pietre miliari personali di un lungo percorso e immagino che ognuno di voi potrebbe citare qualcuno di questi momenti. 

Ma a fianco di questi istanti di illuminazione, ve ne sono altri non meno importanti che sono solo attimi di pura bellezza. Piccole gemme che, pur non portando con sé rivelazioni di sorta,  contribuiscono ad arricchire il proprio scrigno di tesori musicali. 
É il caso, ad esempio, della title track dell’album “You’ve never seen everything” di Bruce Cockburn.
Qualora non conosceste il cantautore canadese, sappiate innanzitutto che si tratta del classico eroe minore che ha raccolto molto meno di quello che meriterebbe.

Nato nel 1945 a Ottawa, Cockburn esordisce con l’album omonimo nel 1970. Nel corso del decennio, pubblica una serie di album di grande qualità che mettono in mostra un autore in continua evoluzione. Il punto di partenza è il classico cantautorato folk, che viene via via arricchito da influenze jazz, rock ed etniche, raggiungendo il culmine nel 1976 con “In the falling dark”. Le canzoni esibiscono testi profondi, impregnati di umanità e di tematiche esistenziali, fortemente influenzate dalla propria fede cristiana, che l’autore infonde nei versi in maniera sincera e mai predicatoria o all’insegna del proselitismo. La sua voce calda è poi affiancata da uno stile chitarristico decisamente personale e affascinante che emerge, non solo nell’accompagnamento e negli assoli, ma anche nei brani strumentali inseriti nella maggior parte degli album.

Con l’avvento degli anni ‘80, il suono subisce un mutamento: diventa prevalente un approccio più rock e cambiano i testi, che diventano più politici, anche grazie a un viaggio in Nicaragua, dove Cockburn tocca con mano gli effetti della politica imperialista americana e della guerra fredda. Paradossalmente ai testi sempre più duri e rabbiosi (si veda, ad esempio, la ferocissima “If I had a rocket launcher”), si affianca una musica più radiofonica (che facilita a diffusione del messaggio) e una produzione più “plasticosa”, come in voga in quegli anni. La qualità della produzione ne risente, risultando complessivamente inferiore a quella del decennio precedente, anche se comunque non mancano gli episodi più che  dignitosi e con almeno un album memorabile come “Stealing fire”

Negli anni 90 la furia politica di Cockburn si placa per tornare a una dimensione più domestica. Il ritorno alla forma migliore si manifesta in un paio di dischi di stampo classicamente folk-rock con la produzione DOC di T-Bone Burnett,  e successivamente, nel suo miglior album del decennio, il jazzato “Charity Of Night”. “Breakfast in New Orleans, dinner in Timbuktu” prosegue il discorso del lavoro precedente, ponendo però un accento maggiore sulle sonorità etniche, che ritroveremo anche in “You’ve never seen anything”. Un disco, quest’ultimo, che viene citato raramente tra i lavori maggiori di Cockburn, ma che, per chi scrive, rappresenta il capolavoro della maturità. Un ‘album che si presenta come differente sin dalla struttura: invece degli usuali strumentali (assenti nel disco), vengono inframezzati alle canzoni più classiche, tre lunghi brani caratterizzati da uno spoken Word o da un cantato che gli si avvicina molto. Composizioni accomunate anche da un’atmosfera decisamente cupa, che traspare sia dai testi (che ritornano alla critica politica) che dall’accompagnamento musicale.
Troviamo prima il pessimismo plumbeo di “All our dark tomorrows” con il suo violino circolare e ipnotico e poi “Postcards from Cambodia” che, accompagnata da percussioni etniche, racconta le impressioni che la visita del paese, ancora segnato dagli orrori del regime di Pol Pot, suscita nell’autore. Brani dai toni oscuri che ci portano al cuore di tenebra del disco, ovvero i nove minuti della title track.

Tornando dunque alla mia biografia, il disco era uscito nella torrida estate 2003, ma io lo acquistai in autunno. Ascoltai l’album, come spesso riuscivo a fare all’epoca, in cuffia, libretto alla mano per seguire i testi. Quando giunsi alla title track ero davvero curioso di capire dove Cockburn sarebbe andato a parare con quel brano dalla durata estesa e dal testo altrettanto lungo.
La base musicale, decisamente minimale, è costituita da una ritmica che sembra emulare il tic tac di un orologio, un arpeggio di chitarra obliquo e loop ambientali “impastati” con violini trattati e contrabbasso. Su di essa si poggia il parlato di Cockburn con un voce dal tono a metà tra il distaccato e lo stanco. Il narratore è un uomo, forse l’uomo moderno (perlomeno quello occidentale), cittadino di un mondo ormai globalizzato, nel quale ci si sposta con la stessa facilità con cui una volta ci si muoveva all’interno del proprio piccolo mondo.
È un uomo che ha girato il pianeta, ha visitato moltissimi luoghi e visto cose che pochi altri hanno visto. Cose che sembrano aver minato profondamente la sua fiducia nel genere umano.

Comprendiamo quindi che quel tono che sembrava freddo, è in realtà quello di un uomo disilluso e provato da ciò che ha visto. Un uomo cosciente del fatto che, mentre lui gira come una trottola da un punto all’altro del globo, in un’altra parte del pianeta avvengono atti di violenza e ingiustizia causati dalla difficoltà di vivere e dalla miseria dell’uomo: ragazze che si danno fuoco, portando con sé nel rogo ardente altre persone, poliziotti dalla pallottola facile che in un raid antidroga ricoprono un neonato del sangue del suo cane o che perquisiscono lubricamente le adolescenti solo perché hanno il potere di farlo. E ancora persone che vengono trovate in una macchina ferma ai lati della strada con un forcone nel ventre e un panettiere che tagliano avidamente il grano con pesticidi per essere poi massacrati dalla folla inferocita per il suo crimine.
Insomma quando pensi di aver visto tutto c’è sempre qualcosa che riesce a scuoterti.
Il recitato è reso ancora più drammatico e inquietante dal controcanto di un’armonica a bocca che disegna fraseggi nervosi e dissonanti.

Mentre scrivo queste righe, la canzone che risuona ancora nelle orecchie, risalgono vivide le sensazioni che mi colsero, il groppo in gola mentre venivo trascinato in un mondo senza speranza. Un pessimismo che sembrava non avere vie d’uscita, proprio perché veniva da un uomo di fede, seppure mai dogmatico e ben cosciente delle debolezze umane,.

Quando ormai il brano sembrava avviato a rimanere chiuso a riccio nella propria oscurità, succedeva però qualcosa: improvvisamente emergeva un ritornello e la musica si apriva in uno squarcio melodico. Il cantato del canadese si scaldava e mostrava sottili incrinature emotive, mentre appariva dal nulla (da un altro mondo? dal paradiso?) il controcanto di un angelo, Emmylou Harris.

Ecco l’attimo di “pura bellezza” di cui vi parlavo prima, capace di cristallizzarsi non solo nella memoria, ma anche nel cuore e nelle viscere: una semplice variazione che si rivela dannatamente potente e che ancora oggi produce in me effetti sia fisici che emotivi, spingendomi a domandarmi: che cosa ha di speciale questo ritornello?

Non è facile rispondere perché a leggere il testo il brano mantiene la sua posizione pessimistica.

Bad pressure coming down
Tears, what we really traffic in
Ride the ribbon of shadow
Never feel the light falling all around

Eppure qualcosa accade… probabilmente il segreto sta nella strada scelta da Cockburn che brilla per originalità, evitando da un lato di procedere sulla strada dell’oscurità, dando vita a un incubo a occhi aperti capace di infestare il subconscio dell’ascoltatore, dall’altro di condurre il brano verso un finale consolatorio, associando a uno squarcio melodico un testo positivo, appellandosi magari all’amore salvifico di Dio.

Invece il brano percorre una terza via, scegliendo di utilizzare la forza della musica come amplificatore emotivo: mentre il testo non rifugge i limiti e la miseria dell’essere umano, la luce che traspare dalla melodia e dall’armonia delle voci ci ricorda che c’è un solo modo per riuscire a sostenere gli orrori del mondo: riconoscere la propria fragilità individuale e affrontarla assieme agli altri, empatizzando con i nostri simili, tutti accomunati dalla medesima condizione. Il verso “le lacrime sono ciò in cui traffichiamo veramente” allude al mercimonio umano del dolore, ma anche alla sofferenza comune che, unica vera condizione universale, dovrebbe spingerci a unire le forze per sopravvivere e provare a rendere questo mondo un po’ meno doloroso….

E così, ogni volta che ascolto il brano si compie un piccolo miracolo: le viscere, che si erano contratte durante la strofa, si distendono e nel cuore si apre un piccolo spiraglio di speranza che si riempie di una forza che mi fa sentire meno solo. 

Grazie Bruce…

Bruce Cockburn - You've Never Seen Everything

Nobody’s making me say this
I’m talking to you
Been travelling seventeen hours
Irradiated by signals, by images
Of viruses, of virtues
Like everyone
Like exiled angels we swing out of the clouds
Above night city
Fields of light broken by the curve of dark waterways

On the other side of the world
An unhappy teenage girl sets fire
To herself, her house, her neighborhood and some that dwell therein
Sorry simulacrum of sad dawn

You’ve never seen everything

Sleep of the just, sleep of reason, any damn kind of sleep please
I’m trying to balance on a sloping bed in Naples
Or is it Skopje? I forget
Through the thin hotel wall a man groans in his dreams

And on the other side of the world
The drug squad busts a child’s birthday party
Puts bullets in the family dog and the blood goes all over the baby
And the Mounties are strip-searching schoolgirls
Because they can

And a car crashes and burns on an off-ramp from the Gardiner
Two dogs in the back seat die, and in the front
A man and his mother
Forensics reveals the lady has pitchfork wounds in her chest
Pitchfork!
And that the same or a similar instrument has been screwed to the dash
To make sure the driver goes too

You’ve never seen everything

I see
A leader of the people with a ring in his nose
And the leaders of business tell him which way to go
With tugs on the golden chain which once led the golden calf
And we’re supposed to be impressed with their success

But my mind goes blank before the unbelievable indifference
Shown life
Spirit
The future
Anything green
Anything just

Bad pressure coming down
Tears, what we really traffic in
Ride the ribbon of shadow
Never feel the light falling all around

Years ago when my brother was in India
A small town baker got a bright idea
He cut his flour with pesticide
And sent a bunch of neighbors on their longest journey
He was just being cheap, trying to make a profit
Didn’t even have shareholders to answer to

But it’s worth remembering, as we sell off the forest
Gene-splice the world’s food into an instrument of control
Maim and destroy as acts of theater
What came next
That when the survivors looked around
And understood what had been done
They butchered that baker

Snow swirls in the parking lot light like flour
Like pesticide there’s a trade war brewing
Or at least that’s the face they paint on it
But it’s only more transnational manipulation
It’s all bad magic and gangrene politics
Hormone disruptors and carcinogenics

Greed twists eternal in the human breast
But the market has no brain
It doesn’t love it’s not God
All it knows is the price of lunch

Here I sit
Staring at my own shadow
Feeling my blood move
Trying not to have a drink
Trying to find somewhere to put the rage I’m carrying

Bad pressure coming down
Tears, what we really traffic in
Ride the ribbon of shadow
Never feel the light falling all around
Never feel the light falling all around

You’ve never seen everything