Per evocare lo spirito di SirBilly non occorre seguire troppe regole… e, se qualcosa di alcolico è sempre consigliato (ma in realtà non fondamentale), a risultare decisiva é la scelta della musica che occorre riprodurre.

L’altra sera volevo fare quattro chiacchiere con Billy e, per creare la giusta atmosfera, ho lasciato che la puntina del mio giradischi vagasse tra i solchi di “The Man On Your Street”, disco degli Happy Family che vedeva il futuro Momus, Nick Currie, alla testa di ciò che restava dei Josef K. dopo la defezione di Paul Haig, inventare già nel 1982 il suono degli Smiths:

Subito dopo calo deciso l’asso vincente, quello a cui il vecchio SirBilly non potrà resistere: “Common People” dei Pulp. In breve nell’aria si sprigionano le prime note di un brano che è pura letteratura britannica, altezza working class, un “contro inno” per la Cool Britannia, rivolto contro quella borghesia che – come da moda post-Oasis e propaganda blairiana, pretendeva di mescolarsi alla gente comune senza essersi mai misurata con gli aspetti più deprimenti e squallidi della working life inglese.

Una linea melodica coinvolgente che veniva resa innodica e catartica dalle parole di Jarvis Cocker, imbevute di una poetica che Simon Reynolds, giornalista non certo tenero con il cosiddetto “britpop”, descriveva come “una spontanea propensione al linguaggio colloquiale unita a una profonda e fulgida compassione, quell’empatia non sussiegosa che è appannaggio esclusivo di chi respira la stessa vita (stra)ordinaria dei suoi personaggi, sperimentandone sulla pelle le crudeli ironie e impasse”.

Jarvis Cocker è certamente una delle grandi penne del pop britannico, di quelle che riescono a far innamorare lo “straniero” persino degli aspetti più avvilenti della società che vivono e descrivono: quanti, ascoltando autori come Morrissey, Alex Turner, Mark E. Smith, non hanno desiderato viversi sulla pelle i luoghi più “miserable” di città come Manchester o Sheffield?

Ma, se ad esempio la poesia di Mark E. Smith rivendicava con forme grottesche il monstrum non catalogabile che egli stesso rappresentava (il proletario capace di inventare forme artistiche differenti da quelle borghesi), Jarvis ha compiuto un’operazione meno colta, ma forse – nella sua acida empatia – più partecipe e dunque commovente: per rimanere sui classici della band, come non citare la tenerissima “Disco 2000” e il suo slancio verso un lontanissimo 2000, in cui – adulti – avremmo superato tutte le nostre incertezze con le ragazze e il futuro?

Ma tornando a “Common People”, non faccio in tempo a esaltarmi per il cambio di passo della canzone (Rent a flat above a shop/ Cut your hair and get a job/ Smoke some fags and play some pool/Pretend you never went to school/ But still you’ll never get it right/’Cause when you’re laid in bed at night/ Watching roaches climb the wall/ If you called your dad he could stop it all) che mi ritrovo accanto il vecchio Sir Billy che mi urla nell’orecchio: Laugh along with the common people/ Laugh along even though they’re really laughing at you/ And the stupid things that you do/ Because you think that poor is cool.

Ciao Billy, ti va di chiacchierare oggi? Che mi dici di parlare un po’ di Jarvis Cocker?
Ave amico mio, quando si può disquisire di letteratura – soprattutto se accompagnata a grande musica – sono sempre disponibile. Jarvis Cocker incarna entrambe le variabili.

Jarvis Cocker viene spesso citato come uno degli eredi di Morrissey per la poesia minimale con cui racconta la misera quotidianità britannica… ma in realtà i Pulp sono coevi degli Smiths (esordiscono con il primo disco nel 1983, dunque prima dell’esordio della band di Marr e soci). Ti arrivò voce di questa nuova band o erano davvero così carbonari?
Mi avvicinai per caso, nello specifico la raccolta ‘Your Secret’s Safe With Us’ (Statik, 1982). La acquistai solo per curiosità e per i Sepp Maier’s Gloves, banda assolutamente ininfluente ma dal nome fantastico. Lì in mezzo vi è ‘What Do You Say’, il primo vagito di Cocker. Non mi colpì particolarmente, anzi li dimenticai subito. Sembravano degli Artery (concittadini ai quali Cocker ha sempre guardato con ammirazione e rispetto) sotto codeina però almeno li avevo approcciati. Come giustamente sottolinei qui siamo praticamente coevi agli Smiths (‘It’ è del 1983). Ma non vi pensai più per qualche anno, almeno fino a ‘My Legendary Girlfriend’. Sul paragone con Morrissey personalmente andrei cauto. Intendiamoci, ci credetti anche io, per qualche tempo, salvo poi redimermi. Pensavo fosse un Morrissey meno isterico e più diretto, ma sbagliavo: Cocker è il più grande cantore suburbano della quotidianità spiccia, senza mai rinchiudersi in orticelli, snobismo o camerette (eccheppalle ste camerette: uscite, prendete aria). Ne ha cantato da pari, privo di trono. La capacità di cogliere il ‘qui e ora’ è il suo tratto distintivo, la sua vera forza. Cocker, a differenza di ‘quell’altro rancoroso’ non si è mai assiso su un ipotetico scranno del disagio, non ne ha mai fatto vanto o lustro, non si è mai fieramente autoghettizzato nel circolino dello ‘sfigati è bello’. Mai stato un altezzoso pifferaio magico. Au Contraire. Ha semplicemente osservato l’uomo comune con un occhio disincantato e una consapevolezza sovente urticante ma lucidissima. Con lui l’ordinaria quotidianità diviene letteratura. Jarvis Cocker è un Howard Devoto che ce l’ha fatta, se mi passi la boutade. A proposito di ‘Common People’: mai fatto caso come assomigli a ‘Viva Bobby Joe’ degli Equals?

Quando poi la band esplose in pieno fenomeno britpop, qualcosa sembrava comunque non tornare: i Pulp apparivano musicalmente diversi dal revivalismo sixties di molte band dell’epoca. Vengono di nuovo in mente le parole di Simon Reynolds che definiva la musica dei Pulp “una sorta di scalcagnato glam-rock tinto di un luccicante sfarzo disco periodo “I Will Survive”, impossibile da far risalire a fonti precise. (…) Di fatto, i Pulp sono gli Smiths senza la loro tremenda disco-fobia” (in effetti, “She’s a Lady” sembra quasi una variazione psicotica sul tema di “I Will Survive”). Nel pieno dell’entusiasmo brit, tra un rotocalco e una copertina, si coglieva questa alterità?
Il caso dei Pulp è emblematico, per costanza e caparbietà. Anche per quello affascina. Forse è la più lunga sala d’attesa del pop; ci vollero quasi quindici anni (era geologica nel rutilante mondo dell’industria discografica inglese) prima che raccogliessero ciò che avevano pazientemente seminato, creando uno stile inimitabile disco dopo disco. Non furono dei Menswear (sempre sian lodati e non lordati) sbattuti su un tapis roulant da dei tagliatori di teste. Questo servì moltissimo per dar modo alla band di trovare il proprio tratto distintivo e farsi adeguatamente le ossa. Ma non vi coglievo alcuna alterità in questo, anzi. Loro (e a tratti i Blur) furono gli unici attenti a sezionare parte della cultura britannica del passato – la Gran Bretagna ha un passato che è eterno presente, da sempre – senza ridurla a cartolina per qualche festicciola mod. Certo, in mezzo a tutta quell’isteria ci volle un po’ per comprenderlo appieno. Personalmente ho sempre avvertito una fortissima influenza anni Settanta, nello specifico proveniente da Marc Bolan (l’intuizione pop ripetuta, la precisione e concisione del riff, il ritornello pieno di lustrini, l’amaro in bocca post coito). Emblematica in tal senso ‘Party Hard’, una ‘Get It On’ con ombreggiature Magazine (giusto per tornare a Devoto). Il tutto condito da alta letteratura. Perché quello sta facendo Cocker da almeno un quarto di secolo: letteratura.

Il rapporto di Jarvis con il proprio tempo è sempre stato controverso, al punto da ricordare le idiosincrasie di un altro gigante: Ray Davies. Di entrambi colpisce la lucidità di uno sguardo che sapeva esaminare in maniera non allineata i fenomeni del proprio tempo. Se Davies si accostava dubbioso alla cultura psichedelica e libertaria dei sixties, rifugiandosi nella sua personalissima e malinconica arcadia britannica, Jarvis guarda con ironia predatoria la moda del britpop, ma soprattutto affonda le lame del suo pensiero critico nei confronti del coevo movimento rave: in un brano come “Sorted for E’s & Wizz” e in frasi come “è questo l’effetto che si dice che il futuro dovrebbe avere? O siamo solo ventimila persone in piedi su un prato?” si coglie la desolazione in cui Jarvis scorge, dietro gli ideali di liberazione spirituale e collettivistica del movimento, quella che riteneva essere una semplice (e sterile?) evasione di massa dalla realtà post-thatcheriana. Che ne pensi?
I Pulp rappresentano quello che, nel pop, ho sognato e vagheggiato sin dall’inizio, ovvero quella massima che recita – più o meno: ‘quando tutti zigano, tu zaga’. In ogni album Jarvis Cocker vi ha tenuto fede. Ha fatto harakiri con un disco immenso come ‘This Is Hardcore’ quando tutti premevano per un altro ‘Different Class’ prima di inabissarsi con quel monolite (prodotto da Scott Walker, bene sottolinearlo) chiamato ‘We Love Life’. L’unica volta in cui sono arrivato al suo cospetto mi è sembrato un signore assolutamente disinteressato a tutti gli aspetti della ‘fama’ con annessi e connessi: nessun codazzo di manager o press agent, nessun vezzo altezzoso. Sembrava piuttosto un esattore delle tasse pronto ad assolvere al suo compito. Che rimane quello di sbatterci in faccia le rifrazioni delle nostre vite. Desolazione compresa.

So che uno dei tuoi brani preferiti dei Pulp é “Glory Days” (e la sua versione embrionale “Socialism Cocaine“). In frasi come:
Oh, we were brought up on the Space-Race
Now they expect you to clean toilets
When you’ve seen how big the world is
How can you make do with this?
Jarvis sembra affrontare, con la semplicità dell’uomo della strada, temi su cui molti accademici rifletteranno a lungo: il paradosso del futuro, promesso e mai realizzato, che infesta e rende impossibile accettare e vivere il presente. L’ennesimo esempio di una penna che sa affrontare con semplicità popolare anche temi complessi?
Questa è letteratura, è – come dicevi poco sopra – Ray Davies riveduto e corretto per la sbornia post Thatcher (almeno la vecchia ebbe il grande merito di accorpare i suoi avversari in un’unica fazione coesa. Non così si può dire di tutti i suoi successori, socialisti senza glutine); Will Self che irride Tony Blair; il senso di nostalgia come subdola vendetta che ha sempre permeato i Pulp. Penso a ‘Common People’, ‘Disco2000’ (c’è mai stata una storia d’amore più banale eppure così pregna?), ‘I Spy’ (che stracazzo di canzone è?) e appunto ‘Glory Days’, capolavoro di paradossi. Cocker non si è mai fidato del futuro, nemmeno quando – nel 1995 – l’impero colpiva ancora. Vi intravedeva la solita fuffa: un passato ‘due punto zero’. ‘Disco2000’ è emblematica al riguardo.

Chiudiamo con la tua personale classifica dei cinque brani che più ami della band… E poi dimmi qual è secondo te il capolavoro della band? Chi butti insomma dalla torre “Different Class” o “This Is Hardcore?
Qui mi rendi le cose difficili. Vediamo: ‘I Spy’ su tutte. Poi ‘Do You Remember the First Time?’, ‘Glory Days’, ‘Disco2000’, ‘This Is Hardcore’. Sulla seconda parte della domanda non ho dubbi: ho amato (e amo tuttora) tantissimo ‘Different Class’, ma è ‘This Is Hardcore’ il vero capolavoro dei Pulp. Solo che ce ne accorgeremo tardi.


Le ultime parole scivolano via, mentre salgono di volume gli archi di “This Is Hardcore” con quel riff di piano che fa subito intendere che quello che sta per andare in scena sarà un dramma teso e nichilista, condotto lungo il filo di una sceneggiatura intessuta di note e non di parole. Per una volta i versi di Jarvis, che riciclano in maniera post-moderna cliché hollywoodiani e letteratura pulp da quattro soldi, si fanno da parte e lasciano che a condurre la narrazione sia l’intarsio di archi e pianoforti, trombe e chitarre elettriche. La voce diventa puro suono che recita battute musicali, passando dal falsetto al tono confidenziale, fino a spingersi verso la paranoia più teatrale. Non è più la penna di Jarvis a colpire, non è la scrittura da letterato rock, ma una visione musicale che va oltre i Pulp e il loro deus ex machina che a quel punto scompare dietro una magniloquenza musicale.
Queste cose riuscivano bene a Scott Walker, ma lui era un grande intellettuale della musica, Jarvis solo un cantante pop, che in “This Is Hardcore” butta il cuore oltre l’ostacolo, trovando così la via per una grandezza assolutamente personale.

SirBilly è già andato via da un pezzo.

P.S.
Le altre puntate in cui molestiamo SirBilly le trovate a questi link:
Menswear, Associates, Fall, Sparks, Manic Street Preachers, Michele Benetello