Quella di Richard Skelton è sempre stata una musica con le radici profondamente piantate nel terreno. Il suo è un ambient “sporco”, che ha l’odore del terriccio e della brughiera inglese nei giorni di pioggia e che, a suoni eterei e impalpabili, ha spesso preferito e contrapposto quelli concreti e stridenti degli strumenti acustici, che riecheggiano una natura vissuta e non idealizzata. D‘altronde il suo sguardo, non solo in campo musicale, ma anche letterario, scientifico, etnologico e antropologico (non va dimenticato, infatti, che la musica è soltanto uno dei campi di espressione e di studio del nostro) è sempre stato rivolto al rapporto tra il mondo naturale e l’uomo.
Negli ultimi anni è emersa però una fascinazione dell’inglese nei confronti degli strumenti elettronici, che sono stati ampiamente utilizzati, in una stimolante contrapposizione tra ancestrale e moderno, in lavori come “These Charms May Be Sung Over A Wound” e “A guidonian hand” (dei quali abbiamo parlato qui e qui). Una fascinazione che nel dittico rappresentato da “A song to epsilon Lyrae” e “A song to Vega” (entrambi pubblicati solo in versione digitale sulla piattaforma bandcamp) si è arricchita di un altro elemento: l’interesse verso i corpi celesti, che ha portato Skelton a volgere il proprio sguardo verso il cosmo.
Negli ultimi anni l’artista e sua moglie, la poetessa Autumn Richardson, si sono trasferiti in una regione dell’inghilterra, che viene denominata “Dark-sky region”, in virtù di un inquinamento luminoso ridotto al minimo (e che per la medesima ragione ospita l’osservatorio astronomico di Kielder).
Come abbiamo avuto modo di raccontare nella recensione di “Border Ballads” e nella conseguente intervista, Skelton ritiene l’ambiente in cui vive una forte influenza per la propria creazione artistica e, dunque, il trasferimento in una regione dove l’osservazione delle stelle è ottimale, non poteva che esercitare un influsso anche sulle sue creazioni.
Non si é trattato, però, di una svolta verso una musica cosmica in stile kraut anni ‘70, quanto ma di un completamento di un percorso umano e artistico. L’artista inglese non guarda allo spazio come un cosmonauta in un film di fantascienza, ma piuttosto, tenendo i piedi ben saldati alla terra, come a un ulteriore tassello nel rapporto tra uomo e natura. D’altronde lo studio degli astri ha sempre rappresentato un riferimento nella storia umana a prescindere dalla prospettiva utilizzata (esoterica, religiosa o scientifica).
Arriviamo così a “Selenodesy” , lavoro da poco pubblicato per Phantom Limb. La Selenodesia è, analogamente alla Geodesia per la terra, una “branca dell’astronomia che studia la forma della Luna e ne cura le misurazioni e la rappresentazione grafica”. Pur suggerendo nel titolo un approccio scientifico, lo sguardo di Skelton non si risolve in una fredda interpretazione musicale di numeri e misure, ma preferisce “servirsi” dell’elemento astronomico e scientifico, per raccontare in musica la propria interpretazione soggettiva ed emozionale, come, ad esempio, nel passato era stato per le morene e i paesaggi post-glaciali di “‘Till Fabrics” o le coltri di ghiaccio di “Lastglacialmaximum”. E’ una sorta di memento per ricordare che lo sguardo razionale è solo uno dei modi per interpretare la realtà e che il filtro della soggettività di chi osserva può alterare la percezione di quella forma misurata e canonizzata.
Il comunicato stampa poi, ci offre un’ulteriore chiave di lettura: il disco è stato preceduto da un periodo di insonnia e dal sollievo trovato nell’osservazione delle stelle, durante i quali Skelton ha cercato di trascrivere le sue visioni ipnagogiche: “gran parte di questa musica mi è venuta nelle prime ore della notte, in quello stato di nulla tra il sogno e la veglia. Guardando fuori dalla finestra il cielo notturno sembrava essere un vortice di stelle. Marte o Venere si libravano nell’angolo della stanza. Mi sdraiavo lì e guardavo l’aurora boreale danzare sul soffitto.”.
Ma com’è, quindi, la Luna vista dalla Terra attraverso lo sguardo di Richard Skelton?
Il satellite ci si rivela piano piano attraverso le folate di synth, affilate e tremolanti, di “Albedo” che, sovrapponendosi in un alternarsi di stasi e movimento, ci restituiscono l’immagine glaciale e distante di un corpo celeste in perenno mutamento.
Nei brani successivi vediamo la Luna emergere misteriosamente dall’oscurità fino a mostrarsi interamente (“Plot of Lunar Phases”), deboli raggi lunari baluginare nel buio (“Faint Ray system”) e il satellite trovare il proprio equilibrio gravitazionale (“Isostasy”).
Per descrivere questi fenomeni, Skelton si serve delle numerose possibilità espressive offerte dagli strumenti elettronici: bordoni a bassa frequenza, onde sonore ricche di echi e riverberi, stilettate di suoni stridenti tipicamente skeltoniane, colate di rumore, pieni “orchestrali” (vedi “Impact Theory”), fino a sciabolate di synth che richiamano le tipiche sonorità della musica cosmica e addirittura, a tratti, la maestosità del Vangelis di “Blade Runner” (vedi il finale di “Faint Ray System”).
Il disco sembra ripercorrere il passaggio dall’approccio scientifico di partenza, algido e razionale, a uno più umano, caratterizzato dal prevalere della meraviglia e del mistero. Pian piano sembrano farsi spazio anche quei “luoghi comuni”, intesi come immagini e sonorità impresse nell’immaginario collettivo, grazie soprattutto a “certo” cinema di fantascienza, ovvero quello che si interroga sui misteri del Cosmo, tracciando un parallelo con le eterne domande esistenziali dell’uomo. Brani come “Isostasy” e “Hypervelocity” e la conclusiva “Fallback” rievocano con il loro lento movimento e i suoni misteriosi in equilibrio con il silenzio, le immagini di Kris Kelvin (l’uomo) che osserva Solaris (la Luna) cercando di svelare il mistero che si nasconde sotto l’enigmatica superficie (l’altra faccia della Luna?). Anche altri brani appaiono imbevuti di suggestioni cinematografiche: la magniloquenza cosmica che talvolta fa capolino, così atipica nella musica di Skelton, ci appare perfetta per descrivere lo stupore e la piccolezza dell’uomo che osserva l”’ignoto spazio profondo” di Herzog-iana memoria. In maniera uguale e contraria, “Lesser gravity” ripropone i clangori più tipici dell’autore, immergendoli in un riverbero infinito ed evoca la paura che il vuoto cosmico incute.
Insomma possiamo dirlo: missione compiuta. In “Selenodesy”, Skelton, immerso nell’oscurità del suo osservatorio naturale, riesce a mostrare quella che è la “sua” forma della luna, dove convivono due anime: quella scientifica e razionale e quella umanistica che vede nella Luna e nello spazio un perpetuo e immaginifico monito del mistero dell’esistenza. Dal punto di vista prettamente musicale, Skelton riesce a essere fedele a se stesso: ripropone i propri temi e stilemi, come il rapporto tra uomo e natura e tra suono/rumore e silenzio, ma utilizza forme in parte differenti. Sfruttando pienamente la gamma espressiva che la strumentazione elettronica gli permette, l’artista inglese lascia che la propria musica si faccia condurre in luoghi inediti e stimolanti. Il risultato finale è, dunque, un’opera pienamente riuscita, che si presenta, anche grazie a suggestioni cinematografiche, come il lavoro più accessibile e comunicativo della sua imponente discografia.
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