Hanno facce da commedia britannica, suonano una musica che rende le giornate migliori e il loro disco d’esordio ha lo stesso titolo dell’unico libro di poesie pubblicato da Boe Szyslak (sì, proprio lui: il barista dei Simpson). Signore e Signori, ecco a voi i Pynch! Band londinese che si era fatta notare per una serie di singoli che a ogni uscita sembravano rilanciarne sempre più in alto le quotazioni, perfezionando via via una formula semplice, ma efficace: chitarre e melodie come architravi di una struttura che trovava nei synth coloriture vivaci e nei testi del cantante Spencer Enock venature malinconiche, capaci di donare profondità alla formula.

L’attesa per la prova sulla lunga distanza non è mai sfociata in nessun tipo di hype, ma ci piacerebbe che l’uscita di questo Howling At A Concrete Mooncambiasse le cose. Questo perché il lavoro dei quattro ragazzi, oltre a candidarsi come uno dei nostri dischi di pop inglese dell’anno, rappresenta una bella boccata d’ossigeno in un paese, l’Inghilterra, che sembra essersi ficcato dentro un cul de sac post-punk. E se è vero che band come gli Italia 90 hanno dimostrato come questa scena sia tutt’altro che esaurita (ma anzi continui a ben interpretare musicalmente l’atmosfera livorosa e incattivita in cui versa il paese), accogliamo comunque con piacere queste dieci canzoni scritte sugli accordi e non su riff spigolosi e giri di basso incombenti, che esprimono emozioni non ancorate al dualismo rabbia/schizofrenia, ma che si concedono il lusso di un’ironia che non vuole essere acida, ma solo disillusa e amara.

Da un certo punto di vista, ha forse giovato al gruppo la separazione dal Re Mida del momento: quel Dan Carey (responsabile della produzione di Fontaines DC, Wet Leg, Geese, Goat Girl, Squid, Black Midi, Kae Tempest, Slowthai) che, dopo aver prodotto il primo singolo della band, ha lasciato che i ragazzi proseguissero in solitaria, coadiuvati dalla preziosa co-produzione di Andy Ramsay, che i più ricorderanno come batterista degli Stereolab.

Howling At A Concrete Moon aggiunge, ai sei singoli finora usciti, altri quattro brani per un totale di dieci episodi che evitano spoken, talking et similia ed anzi dispiegano per benino le proprie melodie, con un gusto musicale che va a parare più dalle parti di un britpop senza chitarroni e con qualche synth in più (come dei Pulp, ma senza l’affettazione dandy di Jarvis Cocker), che si nutre di atmosfere sbarazzine (come dei Franz Ferdinand, ma senza eccessive angolarità ritmiche e richiami alla new wave) e che punta alla melodia memorabile con la stessa pervicacia del centravanti che ovunque si trovi punta la porta. E a testimoniare la facilità con cui i ragazzi vanno a rete, basta ascoltare le dieci tracce del disco, a partire dalla melodia solare e le chitarre sature e rumorose di Haven’t Lived A Day che apre le danze con voce piena e un programmatico: Trying to figure out just what I’m feeling/ Trying to understand just what I’m seeing.

Si prosegue con la melodia circolare (come dei Bloc Party, ma più melodici e meno anfetaminici) della nuova versione di Disco Lights, primo singolo della band (We were heading for disaster, looking for an answer/ Trying to make some sense/ And disco Lights shine in the distance, nothing ever makes sense/Everybody pretends) e il ritornello scioglilingua di Maybe. Tin Foil avanza leggera grazie a una chitarra punkettara e un organetto che le saltella intorno come ai tempi gloriosi della C86, mentre 2009 si lascia andare alla nostalgia, fa i conti con il passato e – tra chitarre, coretti e una stasi centrale che ricorda i Coldplay dei primi due album – segna uno dei punti più felici dell’album.

The City (Part 2) abbassa i ritmi, ma non l’inquietudine di un testo molto diretto:

Walking through the city, has it always been so ugly?
You never see the same face twice
It’s a marvel of human creation where men in suits prop up the nation
Where a million dreams have laid to die

Breathing in the poison, waiting for a train
Waking up tomorrow morning to do it all again
If we’re the product of years of evolution will we ever find a solution?
Will things always be this way?

Mentre The City (Part 1) si concede le scansioni di un beat elettronico e una coda disco con chitarre che sembrano lanciare bengala in aria. Segue il groove leggero di Karaoke, con basso alla Cure, chitarre alla Wild Swans e un arrangiamento stratificato tra saturazioni, voci trattate e diamoniche lontane; una London che presenta scansioni metriche perfette e che nel finale si apre in una singalong memorabile. Probabilmente, il miglior brano del disco, London riflette in maniera acuta e poco didascalica sugli effetti esistenziali che la gentrificazione di una città può avere sui suoi abitanti:

Welcome to the real world, you’re not the only one that’s scared
So try and find some peace of mind if you can
Have you ever dreamed of owning your own home?
That’s just a bourgeois fantasy, better leave that shit alone

Pynch - London (Official Video)

Il disco si conclude con il basso battente e i synth che formicolano attorno alle chitarre di Somebody Else, in cui fa capolino una leggera punta di isterica urgenza, che sembra comunicare il desiderio di tornare presto in campo. E in effetti la band è già al lavoro per il secondo disco di melodie a presa rapida che gli auguriamo mantengano la sincerità e la freschezza dell’esordio, nonché la voglia di resistere al mondo, utilizzando le armi di cui si è stati dotati.