H. Hawkline è uno di quegli artisti di culto per cui viene naturale fare il tifo. A ogni sua uscita ti sorprendi a sperare che sia la volta buona per vedergli consegnare quel gioiello definitivo che sai essere nelle sue corde. Un tesoro dalla bellezza sottile destinato a rimanere un segreto per pochi eletti e quindi ancora più prezioso: niente d’altronde esalta più l’ascoltatore di un disco capace di nobilitarlo, dandogli l’impressione di saper scorgere la bellezza laddove altri sguardi distratti passano oltre.
Non sappiamo se questo “Milk for Flowers” finirà per diventare il disco di culto che ripescheremo tra vent’anni, trovandone intatta la bellezza, però possiamo dire che il quinto lavoro dell’artista gallese (prodotto dalla conterranea Cate Le Bon) è uno di quelli che rinfrancano lo spirito e riconciliano con la canzone, intesa come piccolo manufatto pop.
Probabilmente la scrittura di Hawkline ha lasciato un po’ per strada quella sbilenca stralunatezza che tanto affascinava nei dischi precedenti e che lasciava una piacevole sensazione di incompiutezza, ma in fondo è normale maturare: la vita ti pone di fronte a perdite naturali, ma non per questo meno dolorose, come quella dei genitori e così finisci per consegnare il tuo lavoro più intenso e ispirato, che – data la necessità di fare chiarezza – si presenta come quello musicalmente più concentrato e a fuoco.Meno divertimento e creatività, ma più profondità? Qualcosa del genere… e c’è da dire che questo cambio di registro si accorda benissimo al resto di una discografia da subito ben variegata, avviata con il finger-picking, weird e faheyano, di “A Cup Of Salt” (2010), proseguita con il minimalismo lo-fi alla Jonathan Richman di “The Strange Uses Of Ox Gall” (2011) e infine raffinata nel dittico-pop, memore delle stralunatezze di Kevin Ayers, rappresentato da “In The Pink Of Condition” (2015) e “I Romanticize” (2017).
Dunque ben venga questo disco che si apre con una Milk for Flowers che detta da subito il tono, con un pianoforte pop a puntellare una melodia piena, che nel ritornello diventa persino solare… non fosse per quella voce che resta inevitabilmente malinconica: avete presente quando piove in una giornata di sole? Ecco…
La ricerca della melodia, rotonda e benefica, costituisce la vera cifra di un lavoro che qua e là lascia però riaffiorare quello spiritello weird che abbiano da sempre associato al gallese, incarnato ad esempio in Plastic Man, secondo brano del disco, da una chitarra elettrica che non fa altro che disturbare, come un bambino capriccioso impegnato in assoli grossolani.
Il disco smette poi di saltellare, distendendosi nel ritornello arioso e corale, che chiude in falsetto celestiale, di Suppression Street, che sfoggia anche un sassofono da cocktail-lounge che piacerebbe a gente come Brian Ferry e David Bowie. In I Need Him, il “Blue jeans, blue jeans…” iniziale è puro Macca (e il resto non è da meno), mentre, in Denver, le tastiere singhiozzano, le chitarre srotolano mini rosari di note e la voce cuce e conduce all’ennesimo ritornello, sommesso, informale, ma intimamente elegante, come un giovane lord che indossa il completo più comodo per sopravvivere a un’uggiosa domenica, prigioniero nella propria tenuta di campagna.
Athens At Night, tra synth, batteria metronomica e voce in falsetto, parte molto eighties, fino a quando l’ingresso di chitarre liquide e del ritornello (“I am a passenger in this seat, oh/ I move in where the wheel goes to sleep, oh) portano tutto in zona Wild Beasts. Like You Do, ballata dedicata alla madre scomparsa, vanta una bellezza cristallina che, ascoltata nel punto giusto della notte, può farvi davvero del bene, così come la bellissima Mostly che, dopo la coda strumentale, lunare e impalpabile, di It’s a Living, si muove tra un pianoforte accorato e chitarre discrete nel mettere i puntini sulle “i”. Un brano magnifico sospeso tra un ritornello minore e indelebile “I wanna die/I wanna die/I wanna die happy/An empty glass/ Knowing that I had sisters who loved me/Nobody home to here me call/For the seabird to take me/A ruined back/An empty glass/I want a stranger to hold me) e una voce capace di alternare senza soluzione di continuità registri bassi (Peace comes for dinner/ But I’m forever eating lunch) a falsetti sublimi (And if she’s hungry/ I’ve made enough for us to eat/ Which is as good as nothing).
Chiude tutto il ricordo del padre di Empty Room che presenta stranianti inserti da ballata country, perfetti – come da tradizione del genere – a musicare il dolore:
Don’t leave the room this way
Stay inside
Won’t that be nice?
Don’t go on holiday
Keep a lock on the door
Don’t show me anymore of that empty room
(…)
My dad, he don’t sleep anymore
l nostro consiglio è dunque quello di custodire con cura questo scrigno di canzoni, che sfoggiano tante e tali melodie come fossero uno sbocco naturale: come se quella voce, così duttile e gentile, non avesse altro modo per esprimersi che arrotondare spigoli e cesellare margini, consegnando così queste creature fragili destinate ad essere riposte in alto nei nostri scaffali. Come manufatti da riprendere giusto quelle mattine di domenica, quando devi scovare qualcosa da fare prima che la noia prenda il sopravvento sulla malinconia.
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