E’ sorprendente come i Necks siano giunti solo dopo quasi 35 anni di carriera a dare un titolo come “Travel” a un proprio album, dato che quella del viaggio è una delle metafore forse più ovvie, ma certamente più calzanti per descrivere la musica del trio australiano. Non sappiamo quali siano le motivazioni che hanno portato i tre musicisti a spendere proprio ora questo titolo ma, provando a rincorrere la suggestione che la parola “viaggio” porta con sé, ci piace pensare si tratti di una dichiarazione di vitalità: gli anni che separano dal primo disco sono ormai molti, ma la musica, la testa e il cuore dei tre sono ancora in perenne movimento a descrivere un percorso in continuo mutamento.
Il nuovo disco torna alla struttura già sperimentata in “Unfold”, ovvero quella dei 4 brani distribuiti su doppio vinile, rinunciando ancora una volta al brano unico, che sta diventando sempre più raro nei lavori in studio. Una configurazione che forse riflette la voglia del gruppo di approfondire nel singolo album diversi registri espressivi, piuttosto che, come in passato, sviscerare in maniera estrema un solo tema musicale.
Ed effettivamente i brani propongono (come sempre del resto quando gli album dei Necks contengono più di una traccia) atmosfere e temi musicali ben distinti tra loro, pur non rinunciando alla classica progressione minimalista che contraddistingue l’opera del trio.
Si comincia con “Signal”, un brano che mette subito in evidenza la spina dorsale costituita dal giro di contrabbasso di Lloyd Swanton e dalle spazzole di Tony Buck. Attorno a questa struttura scheletrica si muove, con la solita grazia e misura, il piano di Chris Abrahams al quale si aggiungono, dopo qualche minuto, delle pennellate di organo.
Come di consueto le cellule sonore da cui è formato il brano si muovono mutando e scindendosi in un lentissimo, ma inesorabile crescendo. Provate ad abbarbicarvi, con le orecchie e la mente, al giro del contrabbasso cercando di tenere nota dei piccoli, ma decisivi cambiamenti che Swanton apporta ad esso. A un certo punto vi accorgerete che la razionalità è destinata a soccombere: la percezione del particolare svanisce e ci si trova immersi nel suono. Si realizza come piano piano, attorno allo scheletro sonoro iniziale, si sia formata come una sostanza in cui ci si ritrova immersi: il ritmo sembra essersi elevato, le pennate di contrabbasso in levare si uniscono a un giro di basso via via sempre più frenetico, mentre l’organo, da sporadico e aereo ornamento, si fa continuo e concreto accompagnamento.
“Forming” cambia registro, spostandosi su un piano sonoro più astratto e rarefatto, almeno al principio. Questa volta il focus del brano è fornito dal pianoforte, con Abrahams che suona note sparse che sembrano cercare una relazione melodica tra di loro. Buck con spazzole e timpani in sottofondo e Swanton con vampate apparentemente disordinate e insistenti di contrabbasso costruiscono la nebulosa sonora che aleggia attorno alle esplorazioni del pianoforte. Il titolo è perfetto per descrivere la dinamica del brano e la direzione in cui esso si muove: dal caos rarefatto e primordiale dell’incipit si passa a una materia sonora decisamente più compatta, formatasi attorno agli arpeggi del piano. Il drumming soffice di inizio brano è diventato un’arrembante e minacciosa ondata sonora, formata da tamburi quasi tribali e da percussioni assortite, innervata da un contrabbasso sempre più forsennato e quasi fuori controllo.
E’ poi la volta di “Imprinting”, che ci fa immergere in un’atmosfera misteriosa e straniante: su un fondale sfuggente, creato da organo e contrabbasso suonato con l’archetto, si innesta un ritmo complesso e quasi zoppicante di batteria e percussioni assortite e si fa strada una sequenza criptica di note slegate e dissonanti di pianoforte che disegnano una “non-melodia” difficile da afferrare. Come da marchio di fabbrica dei Necks queste combinazioni, che sembrano stridenti e free form, prendono progressivamente forma e coerenza, sia dal punto di vista ritmico grazie alla montante sinergia tra contrabbasso e drumming, che da quello del tema guida che, pur nella sua atipicità e sfuggevolezza, assume un proprio senso compiuto anzi diremmo l’unico senso possibile. E’ infatti questa una delle abilità principali, nonché l’inestinguibile forza motrice del trio: quella di compiere, di fronte al numero infinito di scelte che in ogni momento l’improvvisazione presenta ai musicisti, quella “giusta”, capace di seguire quel flusso che porta la musica in una direzione di creatività (nel senso letterale – citando da Treccani – “relativo alla realizzazione artistica, alla capacità di creare opere d’arte e d’ingegno”) e di coerenza compositiva.
A “Imprinting” segue la traccia conclusiva “Bloodstream”, che ripropone l’alternanza tra brano caratterizzato da un impianto maggiormente ritmico e uno più immateriale e freeform che aveva caratterizzato la sequenza iniziale composta da “Signal” e “Forming”. E proprio come quest’ultimo, il brano finale è una lenta e inesorabile progressione da una materia sonora nebulosa e impalpabile a una più densa e compatta. Le somiglianze però sono solamente “metodologiche” e terminano qui. La partenza di “Bloodstream” è decisamente sorprendente poiché vede come protagonista un solenne organo dal forte sapore ecclesiastico contrapposto a un piano decisamente jazzato. Pian piano emergono dallo sfondo prima dei droni di contrabbasso e poi una nebbia sonora avvolgente creata dal rullante di Buck. Mentre l’organo continua la sua melodia liturgica, il piano diventa sempre più formicolante e free, mentre contrabbasso e drumming aumentano gradualmente in intensità e volume. Il culmine è caratterizzato da vampate esplosive di batteria simili alle sfuriate di chitarra elettrica nel noise rock. Dopo questo picco la musica ci accompagna con un lento decalare alla conclusione di un brano che si configura come quintessenzialmente Necks, con la sua dicotomia tra staticità e dinamica, tra quiete e rumore.
“Travel” è un disco di quasi 80 minuti di musica che ci ripresenta, non abbiamo timore di dirlo, una delle formazione più importanti della scena musicale contemporanea, ancora oggi dopo quasi 35 anni di carriera discografica. Un trio di musicisti sempre uguale (nello spirito e nell’approccio libero alla musica) ma sempre diverso per l’incredibile capacità di divincolarsi negli infiniti multiversi improvvisativi che si trovano ad affrontare e di accompagnare noi ascoltatori verso mondi sempre nuovi, affascinanti e totalizzanti.
Perciò possiamo solo dire a Chris, Lloyd e Tony chapeau, ma soprattutto grazie.
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