Quando si affronta un nuovo disco di John Cale ci si trova quasi sempre di fronte a una certezza e a un interrogativo: la certezza è che il disco sarà prodotto divinamente, l’interrogativo riguarderà invece la direzione musicale che il gallese ha inteso dare all’opera.
Avevamo lasciato Cale alle prese con l’incauto rifacimento di “Music For A New Society” (come si può reinterpretare un disco perfetto?) che però aveva avuto il pregio di mostrare un crescente interesse verso l’elettronica. Un interesse che, a dire il vero, si era già rivelato in dischi di pop sperimentale come l’ottimo “Hobo Sapiens” e lo stuzzicante, ma penalizzato da una scrittura poco incisiva, “Shifty Adventures in Nookie Wood”.

Con il nuovo album, “Mercy”, prosegue il flirt con un’elettronica che non si limita più a subentrare nel processo produttivo, ma che invece risulta ben radicata anche in quello compositivo e strutturale. Insomma Cale non utilizza più l’elemento digitale come “abbellimento”, ma costruisce i brani attorno a pulsazioni e tessiture interamente elettroniche, utilizzando voci e strumenti tradizionali, peraltro spesso pesantemente trattati, come elementi di disturbo e arrangiamento.
Si tratta però, di un’elettronica poco a “la page”, piuttosto distante dalla perfezione citazionista di quella “Hi-tech” così in voga oggi: l’album è dominato da suoni semplici e mai astrusi o pesantemente concettuali e, addirittura nel caso dei pattern di drum machine, quasi casalinghi. Una scelta che però non dà vita a un suono “cheap” o dilettantesco, ma che al contrario risulta caldo e perfetto nella sua imperfezione.
Appare curioso anche il fatto che i numerosi featuring di artisti di peso (da Laurel Halo a Weyes Blood passando, tra gli altri, per Animal Collective e Fat White Family) non sembrino, di primo acchito, caratterizzare più di tanto le varie tracce.

Ma non si può però a nostro avviso parlare di “Mercy” senza raccontare la maniera in cui il disco riesce a farsi strada nell’ascoltatore. Per quanto ci riguarda, nonostante ci ripromettiamo di giudicare un disco solo a seguito di parecchi ascolti, anche noi cediamo – da arroganti ascoltatori smaliziati – alla tentazione di aver capito tutto già al primo “giro”. Ebbene, il nostro primo “giro” con “Mercy” – ultimati i suoi 72, a tratti faticosi, minuti – ci aveva lasciati “perplessi”. La prima impressione era stata quella di un disco monolitico che in alcuni momenti bordeggiava la noia e che in altri appariva più soporifero che narcotico. Se fin da subito dai brani emergevano parecchie buone linee melodiche, le stesse sembravano poi perdersi nell’impasto sonoro, annegati nella medesima e monotona ritmica mid tempo; il risultato sembrava essere quello di un disco i cui episodi non parevano distinguersi tra loro, anche perché appesantiti da un lunghezza eccessiva. L’assenza di variazioni, le onnipresenti tonalità scure, l’enfasi data alle frequenze basse sembravano suggerire l’idea che la presenza di un produttore esterno avrebbe giovato alla riuscita del disco.

Tuttavia, l’ascolto del disco lasciava perplessi, ma non delusi: faceva fin da subito capolino l’idea che quel monolite era solo in apparenza impenetrabile e respingente e che invece la sua materia melliflua e viscosa emanasse una sottile fascinazione che spingeva a tornare all’ascolto divenendo via via una coltre spessa di materiale che non si riusciva più a togliere di dosso.
Quello che sembrava un suono che annegava gli spunti melodici in un magma omogeneo si rivelava, con gli ascolti, essere la manifestazione della sapienza di un maestro che con saggezza sembrava voler “filtrare” gli ascoltatori distratti e impazienti.
Se l’interesse di Cale verso la musica del presente risulta evidente fin dal coinvolgimento di nomi nuovi o comunque non attempati (che a ben vedere lasciano una loro sottile ma importante traccia nelle canzoni in cui intervengono), allo stesso tempo si coglie la totale indifferenza del maestro verso le logiche “terrene” e mercantili: d’altronde quando non hai più niente da dimostrare puoi fare semplicemente quello che vuoi e dunque che senso avrebbe avvalersi dell’ausilio di un co-produttore?

Insomma, il disco è cresciuto con gli ascolti e continua a farlo, mostrando pian piano anche la forza e la diversità delle canzoni che all’inizio non sembravano essere in grado di manifestarsi.

L’album parte con “Mercy” e un piano elettrico che non può non richiamare “Music for a new society”. Una ballata avvolgente e toccante che mette subito in evidenza le scelte produttive dell’album: pattern ritmici votati al mid tempo, folate di tastiera (probabilmente ad opera dell’ospite Laurel Halo), voce impastata nel tessuto sonoro, ma che riesce a giungere in maniera assolutamente intensa e sovrapposizioni vocali fantasmagoriche che sembrano provenire da lontano
Poi è la volta di “MARILYN MONROE’S LEGS (beauty elsewhere)”, uno degli apici del disco e l’unico brano a rinunciare alla struttura classica della canzone: il risultato è un sorta di gospel spettrale con brandelli vocali che vanno e vengono, una ritmica zoppicante e disturbi elettronici inquietanti. L’apporto di Actress in questo brano è forse quello più consistente tra tutti.
“Noise of you” è una sorta di dolce romantica ninna nanna in 4/4 con un suggestivo refrain vocale e un ritornello epico suggellato da pennellate di tastiere. “Stories of blood” continua sulla medesima velocità di crociera, ma aggiunge agli ingredienti di base una minimale intro di piano e i cori dell’ospite Weyes Blood (che il brano sia ispirato da lei visto il titolo?) mentre “Time stands still” sfiora terreni hip hop con un intermezzo evocativo dove Cale è affiancato dall’eco lontano della voce di Sylvain Esso.
Pennellate di archi trattati e un coro fanno da introduzione a quello che probabilmente è il vertice artistico ed emotivo dell’intero disco: il brano dedicato a Nico, “MOONSTRUCK (Nico’s Song)”. La melodia che guida la canzone è davvero ispirata e sublime e l’arrangiamento degli archi da brividi. Il lavoro fatto sul cantato di Cale che appare in diverse forme è magistrale ed efficacissimo: prima appare mixato in modo che risalti sull’accompagnamento strumentale, poi viene rafforzato da un coro maestoso e ultraterreno e infine, sepolto da tonnellate di eco, diviene un sussurro lontano. La perfetta combinazione di questi elementi unitamente al testo pieno di affetto, dona al brano una forza emotiva incredibile e rappresenta un omaggio davvero straordinario all’amica di una vita, Nico.

MOONSTRUCK (Nico's Song)

“Everlasting days” è un brano dalla melodia obliqua, dove la caratteristica vocalità dei due Animal Collective viene utilizzata per conferire un tocco weird e un senso di straniamento alla traccia.
“Night Crawling” è il brano più immediato del disco (non per niente è stato pubblicato come primo singolo) con un ritornello killer e un pattern di drum e percussioni che finalmente mostra una vivacità poliritmica. Un brano che risplende di luce propria e contribuisce ulteriormente a smantellare definitivamente il teorema dell’eccessiva omogeneità che scaturiva dal primo ascolto.
“Not the end of the world” è un brano sinuoso che si sviluppa in un lento crescendo strumentale e corale nel quale la voce di Cale tocca uno degli apici di espressività dell’intero album.
E’ la volta poi di “The legal status of Ice” brano lungo 7 minuti con ospiti i Fat White Family. La traccia è divisa in tre sezioni: la prima in chiave quasi dub con un cantato-spoken quasi inespressivo, una seconda caratterizzata da un’accelerazione post rock epica e virata elettronicamente e da una terza astratta e freeform. Si tratta certamente di uno dei brani che si rivela maggiormente con il passare degli ascolti.
“I know you’re happy” è il brano più solare dell’album e mescola sonorità dream pop e nu soul. In definitiva il brano meno riuscito del disco e forse in questo caso una sforbiciata avrebbe giovato.
Chiude l’album l’intensissima ballata “Out Your Window” dove il pianoforte fa da co-protagonista alle ormai consuete voci e cori, sia nella prima parte più delicata e intimista che nel dirompente crescendo finale.

Ho voluto parlare di ogni singola canzone proprio per far capire quanto sia sottile e in qualche modo subdola la costruzione di un disco che sembra respingere l’ascoltatore solo per mostrarsi successivamente in tutta la sua straordinarietà.“Mercy” si rivela dunque essere un percorso interiore che costringe, con il procedere degli ascolti, a mettere in discussione la percezione stessa del disco, mostrando via via colori dove prima si avvertivano solo tonalità di grigio, nonché uno dei possibili dischi dell’anno dove prima si vedeva solo un album sottotono. In un’epoca nella quale è facile diventare preda della bulimia musicale, un disco così assume un’importanza davvero straordinaria.

Non ci resta che ringraziare Cale per essere semplicemente quello che è: un grande artista che va dritto per la sua strada.