Uno dei mantra del blog è “così tanta musica e così poco tempo”, e costantemente ci ritroviamo a combattere (vanamente) contro questa legge universale..
Non tutto il male viene per nuocere, visto che con il passare del tempo ci siamo accorti come sia a volte preferibile approcciarsi a un disco a qualche mese/anno dall’uscita, in modo da avere un ascolto meno condizionato dalle “scadenze” e più attento. 

Ed è così che, per puro caso e dopo l’immane sforzo di produrre classifiche e playlist per l’anno appena terminato, ci siamo imbattuti nella canadese Mali Obomsawin e nel suo jazz/folk sperimentale. 
Classe 1995, statunitense di nascita ma nativa Abenaki (popolo appartenente alle Prime Nazioni), Mali Obomsawin è una cantante, polistrumentista, storica e attivista politica, attiva fin da giovanissima nel mondo della musica. 
Mali dimostra fin dalla giovane età interesse per la musica tradizionale del suo popolo e in generale per la musica folk, e intraprende diversi studi sotto l’egida di Steve Muise al “Maine Fiddle Camp” (NDR: college orientato allo studio di musica e strumenti tradizionali).
Se gli esordi col trio Lula Wiles (nato durante l’esperienza a Berklee) sono caratterizzati da un’impronta indie/folk rock e da un discreto successo commerciale, con tanto di tour globali, la svolta sonora avviene con l’abbandono del gruppo e la creazione del Mali Obomsawin Sextet, composto esclusivamente da musicisti nativi Abenaki.

Sweet Tooth, pubblicato nell’Ottobre 2022, è l’album di debutto della carriera solista di Mali e presenta connotazioni radicalmente differenti: si passa ad atmosfere più rarefatte e destrutturate, di matrice non solo jazz sperimentale, ma si registra anche il passaggio verso un post-rock di Jeff-Parkeriana memoria. 
Obomsawin si pone come leader, bassista e talvolta chitarrista del sestetto, e consegna agli ascoltatori sei brani, che vanno a comporre insieme una lunga suite. 
Sweet Tooth”, come dichiarato dalla stessa autrice, narra di storie indigene tramite sonorità jazz, usufruendo di diversi linguaggi ormai appartenenti al popolo Abenaki (inglese, francese e algonchino), ma lascia anche spazio e libertà di espressione al suono e agli strumenti, che spesso fraseggiano su ritmiche destrutturate ed eteree. 

I sei brani dell’album compongono una narrazione fortemente politicizzata, incentrata sulla resistenza indigena, sull’amore e sulle cosiddette “Blood Politics” applicate dai governi statunitensi nel corso dei secoli. 
Odana”, il brano di apertura, è una narrazione corale su un tappeto di batterie e fiati dissonanti, mentre i brani “Lineage” e “Fractions”, posizionati in posizioni corrispondenti all’interno della tracklist, quasi come intervallo, sono due interessantissimi brani strumentali, forse quelli più adatti a un orecchio “occidentalizzato” come il nostro, reminiscenti sia di una certa corrente del post-rock che di alcuni episodi di free jazz:

"Lineage" - Mali Obomsawin Sextet live at Pesumkuk

I brani più interessanti e meravigliosi (nel senso autentico del termine, poiché generano meraviglia e stupore in chi ascolta) sono probabilmente quelli narrati in lingua indigena e più deliberatamente ispirati alle correnti artistiche navigate dall’artista: nei brani “Blood Quantum” e “Wawasint8da” risaltano la formazione jazz e l’influenza della musica tradizionale del Maine e delle isole di Cape Breton in Canada, dove Mali ha trascorso parte della sua vita e tuttora insegna o svolge attività di sensibilizzazione. 

"Wawasint8da ta Pedagwajois" - Mali Obomsawin Sextet live at Pesumkuk

È indubbiamente raro scoprire lavori di tale raffinatezza e sensibilità in maniera quasi del tutto casuale, al di fuori di ogni raccomandazione algoritmica, ed è tuttora uno dei piaceri maggiori nella “carriera” di un ascoltatore appassionato.