Ci sono dischi che non rivoluzionano nulla, ma cionondimeno irretiscono grazie alla loro grazia: si porgono dimessi, ma ammaliano con il mistero delle loro forme, appena intraviste tra le pieghe dei primi ascolti, come fosse il preludio di quella frequentazione assidua che finirà – inevitabilmente – per dissipare l’eccitazione della scoperta.
Scrivere di musica a volte può rappresentare il tentativo di fissare la sensazione iniziale che, al primo ascolto, convince ad accantonare le attività quotidiane e spinge a inseguire le note come un bambino il gioco o il corteggiatore la donna desiderata.
Un senso eccitante di scoperta e vastità d’ignoto destinato a soccombere alla felicità del rapporto consolidato.
Scriviamo allora (ma ne abbiamo già parlato anche nell’articolo di fine anno) di “Memory Fool’s” di Fortunato Durutti Marinetti cercando di fissare le sensazioni scatenate dal primo ascolto di un disco che non poteva che attirare la nostra attenzione, porgendosi con la gentilezza del primo Leonard Cohen, il tono affettato di una voce che richiamava il nostro caro Robert Forster, le chitarre luminose tipiche del Robert Fripp prestato al pop, le atmosfere sontuose e vagamente retrò che da Nino Ferrer giungono fino a Jim O’ Rourke, passando per i Tindersticks.
Un disco che, se al primo ascolto eccitava, al secondo sembrava adombrare il sospetto che, seppur bello, scontasse una certa monotonia nella scrittura: come se il ragazzo che si nascondeva dietro il moniker (all’anagrafe Daniel Colussi, italiano solo di nascita, poi cresciuto in Canada) avesse scritto per sette volte la stessa (pur bellissima) canzone.
Proseguendo con gli ascolti però il lavoro finiva per presentarsi come un dipinto capace di mutare ogni volta i propri dettagli, pur raffigurando sempre lo stesso paesaggio, glaciale e malinconico. Quasi come si trattasse di guardare dentro quelle primissime scatole magiche in cui si susseguono pochi fotogrammi, con minimi cambiamenti e un’illusione poetica di movimento.
Merito di una sinergia tra la produzione del disco, curata da un Sandro Perri in stato di grazia, e la penna di Daniel Colussi che conduce l’album verso una perfezione formale che diventa sostanza e coniuga massimalismo e minimalismo e dipinge un quadro allo stesso tempo ricchissimo e sobrio.
Non potevamo che contattare Fortunato Durutti Marinetti e porgergli alcune domande.
Ciao Daniel,
Cominciamo dal nome che hai scelto per questo progetto, che a noi italiani suona linguisticamente affine e richiama suggestioni locali (il futurismo del “nostro” Filippo Tommaso Marinetti) ed estere (l’anarchico spagnolo Buonaventura Durruti, ma anche il Vini Reilly dei Durutti Column). Spiegaci da dove nasce questo moniker e se, oltre alla felice sonorità delle parole in successione, c’è anche un qualche significato simbolico.
Ho passato anni a fare musica sotto lo pseudonimo The Pinc Lincolns con cui volevo rappresentare un’entità libera e indefinita. Il nome doveva essere invitante per le persone che volevano unirsi e contribuire: in particolare per i non musicisti che volevano suonare. Se fossi un artista contemporaneo direi che Pinc Lincolns era un “progetto d’arte relazionale” nello spirito, ma dal punto di vista musicale era un gruppo arruffato e sgangherato.
Durante la vita di quel progetto ho cambiato città diverse volte e mi sono trovato ogni volta a ricominciare da zero, cosa alla fine lo ha reso più un progetto solista che una band. Così, dopo una mezza dozzina di anni passati a presentare la mia musica sotto l’ombrello ideale di una band, ho sentito il bisogno di sfruttare il potere simbolico di un nome che rimandasse direttamente a un individuo. Ma non volevo usare il mio nome, perché non mi piace pormi come un serioso cantautore folk. Mi è quindi sembrato naturale e più appropriato presentare la mia musica sotto le spoglie di… uno pseudonimo assurdo e fantastico che la gente ha difficoltà a pronunciare e a ricordare!! In questo modo mi sento a mio agio. Sono io, ma non sono io…
Rispetto al tuo primo disco, ci è sembrato che le canzoni di “Memory Fool’s” cerchino meno di imprimersi nella memoria come singole unità, ma concorrano piuttosto a creare un quadro d’insieme, giocando con l’ascoltatore senza voler svelare troppo rapidamente una ricchezza che emerge solo con i vari ascolti. Sei d’accordo?
Credo di capire la differenza che descrivi tra “Desire” e “Memory’s Fool”. In passato, sempre tornando ai Pinc Lincolns, ho cercato di scrivere canzoni che fossero nettamente distinte l’una dall’altra perché volevo intrattenere l’ascoltatore e immaginavo i dischi dei Pinc Lincolns come un mixtape di band diverse.
Forse da questo punto di vista “Desire” è un disco di transizione in cui ho cercato di scrivere con una tavolozza di colori ben definiti (il violino e il pianoforte in primo piano in tutte le canzoni). Con “Memory’s Fool” volevo invece scrivere un album che avesse degli elementi ben precisi: una certa atmosfera, un determinato stato d’animo, una prospettiva, un tono, ecc. Volevo insomma creare uno spazio psichico che, per un determinato periodo di tempo, fosse occupato dalla mia musica e dall’ascoltatore. Si può forse dire che ho cambiato completamente rotta rispetto a ciò che voglio che i miei dischi offrano all’ascoltatore. Forse ha a che fare con l’età, perché in questa fase della mia vita di ascoltatore sono decisamente attratto da quei dischi omogenei che non si discostano necessariamente molto dallo stesso canovaccio dalla prima fino all’ultima canzone.
Sul finale di “All Roads”, si ascolta un lungo drone di violino che rappresenta un piccolo omaggio alla musica minimalista/serialista. So che ne sei appassionato: c’è la possibilità che queste componenti in futuro prendano maggiormente spazio nella tua musica? E’ possibile combinarle con la tua scrittura molto verbosa?
Il violino di Anju Sing su “All Roads” mi ha reso molto felice perché grazie ad esso sono riuscito a concretizzare e realizzare la connessione tra due mondi che amo molto: la musica pop ricca di testi e la nuova musica minimalista. Negli ultimi anni ho immaginato di fare musica che consistesse essenzialmente in me che interpretavo le mie composizioni vocali sui Four Full Flutes di Phil Niblock. Ma avrebbe senso? E’ una cosa che qualcuno desidererebbe ascoltare? Probabilmente no…
Ho fatto dei demo che andavano in questa direzione, ma niente che mi soddisfasse al punto da proseguire. Non ho ancora trovato il “terreno” giusto, ma è qualcosa che continuo a cercare. Solo che non so esattamente quale sia la maniera giusta per entrare in quel mondo e non voglio fare qualcosa che possa essere considerato dilettantesco.
Hai definito i cori femminili di “A Kind Of Educational” un modo per liberare spazio” in mezzo a tutte le parole del disco.
Che rapporto hai con le parole? Ti affascina la ricerca verso il silenzio di artisti come Mark Hollis? Credi questa ricerca possa un giorno essere tua o sei comunque troppo legato alla parola?
Sono sicuro che non batta alcun record mondiale, ma “Memory’s Fool” è certamente un disco piuttosto ricco di parole. Il mio approccio alla scrittura dell’album è stato quello di dare libero sfogo alle parole, affinché occupassero tutto lo spazio che ritenevo necessario. Ma per rispetto dell’ascoltatore, dovevano esserci delle pause dal mio cantato, costante e così ricco di impressioni e osservazioni da essere quasi didascalico. Così, in diversi momenti della scrittura e della registrazione, ho creato degli spazi nei quali la voce potesse scomparire del tutto, solo per dare un po’ di respiro alle persone.
Non posso dire di aver mai davvero pensato di fare musica esclusivamente strumentale. Mi piace molto giocare con il linguaggio e amo modificare, revisionare e sistemare ciò che scrivo. Cerco di essere il più preciso e articolato possibile nei testi. In una fase precedente della scrittura delle canzoni ero piuttosto restio nel revisionare ciò che scrivevo, perché temevo di rovinare l’essenza della canzone lavorando eccessivamente sulle parole. Ma ora provo una sensazione esattamente contraria.
Attualmente, nei miei dischi e anche nelle esibizioni dal vivo, arruolo più o meno tutti i musicisti necessari per completare le parti strumentali, mentre io mi limito a stare davanti al microfono e a cercare di cantare in modo intonato. Mi sono imbattuto in un gruppo di musicisti davvero eccellenti con i quali sono entrato in sintonia e mi sto godendo la ricchezza musicale che queste persone hanno apportato alle canzoni. In pratica sono diventato un catalizzatore che sta lì e incoraggia le persone a suonare in un certo modo. Si tratta di un ruolo nuovo per me. Il rischio nel muovermi verso la dimensione minimal/astratta consiste in una potenziale e più o meno completa eliminazione del mio contributo dalla produzione finale; cosa che in un certo senso sta già accadendo, ma non nella direzione della ricerca del silenzio, piuttosto all’opposto verso la creazione di un suono denso di fiati, tastiere e archi che arricchisca quello di una canonica rock band di quattro persone.
I brani del disco hanno una durata mediamente lunga, ma rimangono sempre focalizzati sulla forma canzone e non prevedono fughe strumentali. Questo respiro così ampio serve a diluire l’impatto delle parole che scrivi? E’ una maniera per creare un contesto musicale più ampio dove farle galleggiare?
Durante la scrittura di “Memory’s Fool”, volevo che la composizione della musica fosse come un campo aperto che non ponesse vincoli o limiti alla direzione che il testo voleva prendere. In alcune canzoni l’effetto è che i testi prendano a fluttuare sopra di noi, mentre in altre, testi e musiche sono più strettamente interconnessi.
Voglio comunque continuare ad andare avanti e provare cose diverse… Per me è naturale scrivere una sequenza di due accordi e adagiarvi sopra una lunga e costante sequenza di parole, ma non posso farlo troppo spesso, perché risulterebbe noioso all’ascolto.
Ho appena completato un nuovo disco, che aveva proprio l’intento di scrivere canzoni più brevi, contenere gli eccessi dei testi e utilizzare le parole con maggiore parsimonia… ma alla fine alcune canzoni risultano sempre piuttosto lunghe.
Le chitarre luminose di “Feels Like”, i fiati di “I Came Here For a Reason”, il Clavinet sincopato di “Everything Is Right Here”… Si tratta di un disco che vive di dettagli e di soluzioni sonore ricercate e piene di cura e amore.
Come sono andate le session? Qual è stato il rapporto tra te e Sandro Perri? Avevi in mente un suono verso cui hai indirizzato i numerosi musicisti coinvolti nel progetto? Qual è stato il tuo rapporto con questi ultimi?
Le session sono state un processo gioioso, ma è stato complicato realizzare quel disco a causa dello stato nel quale versava il mondo in quel dato momento. La maggior parte dell’album è stata registrata a Vancouver in diversi giorni, nel piccolo studio/spazio di registrazione di Jay Arner e Jessica Delisle. Eravamo tutti quanti stretti in questo spazio, con le mascherine, tranne me quando incidevo le parti cantate. Era la prima volta che le persone si riunivano per suonare dopo un anno e mezzo di assenza di spettacoli, di incontri, di musica, di socializzazione, ecc.
Il motivo per cui ho realizzato il disco a Vancouver è stato quello di lavorare con persone che conoscevo personalmente e che pensavo che avrebbero stabilito un contatto con le mie canzoni. Patrick Beattie, Jessica Delisle e Matt Skillings sono amici con cui avevo già suonato in passato, in diverse occasioni. Jay Arner ha registrato tutto; ha collaborato nella realizzazione di diversi dischi con me, lavoriamo molto bene insieme ed è molto bravo. Tutto è stato molto veloce: circa due serate di prove e poi abbiamo registrato tutto in un fine settimana. Dopodiché, io e Jay abbiamo avuto un paio di giorni per occuparci di tutte le sovraincisioni di violini, fiati e altre cose.
Abbiamo poi inviato a Sandro Perri i file e lui ha mixato/masterizzato l’album. Ha anche contribuito con parti davvero eccellenti di chitarra e tastiere nelle canzoni che avevano bisogno di più “azione”. Ho chiesto a Sandro di lavorare al disco perché adoro quello che fa e pensavo avrebbe capito subito il tipo di album che volevo realizzare. E così è stato.
Ho detto a Sandro che questo era il mio album del 1974 perché sentivo che quell’anno era la casa spirituale di questo album. È un ascoltatore molto attento con un’eccellente capacità di comunicazione. Purtroppo, eravamo in piena era Covid, e dunque con Sandro non ci siamo mai incontrati di persona, ma abbiamo solo parlato al telefono, via e-mail, via SMS, ecc. Per fortuna è andato tutto bene e abbiamo deciso di replicare: ho inciso un altro disco con Sandro, ma stavolta eravamo entrambi in studio. Questo ci ha permesso di consultarci e discutere maggiormente tra di noi, il che è fantastico perché Sandro ha una prospettiva olistica che gli consente di comprendere la canzone dal momento della sua creazione fino al missaggio finale. Ho davvero imparato molto da lui.
In “All Roads” esprimi – come fosse un’introduzione al racconto – tutto il tuo disorientamento; in “Feels Like” sembri osservarti da fuori, completamente disconnesso da te stesso, un mistero per te e per gli altri; in “I Came Here for a Reason” vorresti condividere la tua solitudine nella speranza che “it would be alright if I Dropped in on that little fire and tended to it just for a little while”; in “I Would Smile” sogni di essere un corridore che trova la felicità nella ripetizione dei gesti più semplici; e, infine, in “I Declare” sembri giungere a un luogo da cui poter desiderare l’arrivo di qualcuno che possa sollevarti dalla solitudine.
Possiamo dire che “Memory Fool’s” parla della necessità del movimento e della fuga e allo stesso tempo della esigenza di condividere la propria solitudine con qualcuno?
Sono aperto a qualsiasi interpretazione delle singole canzoni o dell’intero album da parte delle persone. Spero sempre che le persone percepiscano l’umorismo e l’assurdità che voglio trasmettere…
Qualche anno fa ho partecipato a un programma di scrittura condotto da Chris Kraus. Si parlava soprattutto di scrittura capace di sposare la prospettiva della “prima persona” con uno sguardo rivolta verso l’esterno e la comunicazione con l’altro. Ho interpretato questo concetto nelle mie canzoni: nonostante si sia radicati nelle proprie impressioni, é necessario rivolgere l’attenzione verso l’esterno, per comprendere gli altri e capire qual é la propria posizione in relazione a ciò che gli altri stanno vivendo. È l’alterità come metodo di scrittura. Ho preso spunto da Chris Kraus e ho cercato di applicare i suoi insegnamenti alla musica, perché non volevo fare un album che fosse semplicemente un diario ossessivamente rivolto verso di me, in un cortocircuito autoreferenziale. Mi piace pensare a quest’album, in modo umile e serio, come a qualcosa che possa comunicare in maniera sincera l’opportunità di condividere e relazionarsi.
Non possiamo non chiederti delle tue origini italiane. Quanto è rimasto di quegli anni passati nel nostro paese? E “quanta” Italia ti ha passato la tua famiglia? Ritieni che nel tuo bagaglio culturale o musicale vi siano influenze italiane?
Sono una delusione per tutti… Gonzalo di Bobo Integral mi ha organizzato alcuni spettacoli in Spagna lo scorso autunno e una persona italiana è venuta da me dopo lo spettacolo di Madrid e mi ha detto: “Tu non sei italiano”. Ma nella costa occidentale del Canada, dove sono cresciuto, avere i capelli scuri e un cognome italiano era una cosa vagamente esotica. I ragazzi pensavano che mio padre fosse il Padrino. La famiglia di mio padre viene dal Nord Italia, appena fuori Venezia, e quella zona praticamente non si considera nemmeno parte dell’Italia.
Mia cognata slovena dice sempre che la mia famiglia è in realtà slovena, per la vicinanza dal confine e per la forma appuntita dei nostri nasi.
In realtà, a questo punto della mia vita, l’italiano che mi viene trasmesso proviene direttamente dalla mia ragazza, che è più italiana di me. La scorsa primavera abbiamo visitato la sua famiglia allargata fuori Roma e Napoli, e nessuno dei suoi familiari mi considerava italiano. Per loro ero solo canadese.
Ultima domanda di rito: quali saranno i tuoi prossimi progetti musicali?
Nel marzo del 2022 ho registrato un nuovo disco, lavorando di nuovo con Sandro, ma questa volta con un gruppo di musicisti completamente nuovo, tutti assolutamente eccellenti e pieni di talento, che hanno contribuito con la propria notevole personalità e carattere alle registrazioni. C’è stato più tempo per provare e prepararsi prima di entrare in studio, dando così ad alcune canzoni il tempo di evolversi veramente. E’ stato un processo davvero soddisfacente.
L’intenzione era quella di modificare la tavolozza sonora dell’album precedente, cercando di trovare combinazioni interessanti di suoni; quindi ci sono molte tastiere, sintetizzatori e drum machine che convivono con violini e strumenti a fiato. Non ci sono invece molte chitarre.
All’inizio ho detto a Sandro che questo era il mio disco di “forme ibride”, ma Sandro sostiene si tratti di un disco punk rock. Non ho idea di cosa sia, cosa che trovo molto eccitante. Ci sono momenti in cui le parti musicali sono piuttosto complesse, mentre in altre si ascolta invece una maniera maggiormente ”primitiva” di suonare. Sandro dalla sala di controllo mi urlava: “Devi suonare come fossi un cavernicolo!“. Sto mettendo a punto un’ultima canzone con Jay Arner e poi fra un mese il disco sarà masterizzato. Sono davvero entusiasta di ciò che abbiamo realizzato, perché alcune parti suonano molto classicamente “alla F.D. Marinetti”, mentre altre battono un territorio nuovo. Ritengo che sia un buon disco, ma chissà, forse non piacerà a nessuno.
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