Anche quest’anno, giunti a fine corsa, ci siamo guardati in giro. Un po’ per fare il punto della situazione, un po’ per capire se l’impressione che avevamo avuto durante l’anno fosse stata corretta, ovvero che il 2022 non avesse prodotto alcun disco/scena/movimento capaci di tracciare nuove rotte, abbattere steccati o costruirne altri.
Eppure anche quest’anno tra le nostre orecchie di musica ne è passata parecchio e anche quest’anno, come di consueto, siamo andati a spulciare i “nostri” canali di informazione, cercando di barcamenarci in quella bulimia diffusa che, da ricchezza, comincia sempre più a somigliare a una masochistica forma di oppressione (che il gesto politico più forte oggi risieda proprio nel rifiutare le possibilità offerte dal consumo illimitato?).
Spulciando per bene le nostre liste, possiamo dire che il 2022 sia stato un anno assolutamente positivo, pieno di bei dischi e che ad ogni mese ha saputo regalarci qualcosa che ha reso migliori le nostre vite. Una pienezza che ci ha spinto a pensare che a volte la ricerca affannosa del disco “messianico” ci distrae dal vero obiettivo di ricercare nella musica quella bellezza che prima sorprende e successivamente spinge a tornare più e più volte al piacere del riascolto.
Prendete il caso del nuovo attesissimo lavoro di Kendrick Lamar, “Mr. Morale & The Big Steppers”. Un lavoro da cui ci si aspettava facesse compiere il salto definitivo al rap come fenomeno di massa popolare, ridefinendone al contempo la più intima grammatica. Una maniera di approcciarsi che ha rischiato di non rendere giustizia a un disco che – a nostro avviso – non voleva essere epocale, ma semplicemente bello e intenso. Cosa in cui riesce pienamente, proponendosi come un lavoro avvolgente e “musicale” nel senso più puro del termine. Flow da fuoriclasse e interplay tra suono e parola riuscitissimo, Kendrick non cerca di alzare l’asticella avventurandosi in nuovi territori hip hop, ma perfeziona il suono classico di questi anni senza sclerotizzarlo, puntando tutto su una emotività che arriva all’ascoltatore a partire dall’urgenza che permea tutto il lavoro.
Se l’album di Lamar ci ha fatto riflettere su come si possa osservare un disco da un’ottica sbagliata, ci sono stati lavori che semplicemente ci hanno conquistato, raccontandoci storie che conosciamo già, trascinandosi in luoghi che abbiamo frequentato già a lungo e che mai ci stancheremo di bazzicare: su tutti l’America dei Big Thief e l’Inghilterra dei Modern Nature.
“Dragon New Warm Mountain I Believe In You” dei Big Thief è un lavoro permeato della stessa libertà che avvolgeva certi capolavori degli anni sessanta. Un disco americano fino al midollo che richiama lo spirito di gruppi “cantinari” come la Band, senza rimanerne imprigionati, grazie a un enciclopedismo che tiene conto degli aggiornamenti subiti dal canone americano, negli anni passato da Dylan ai Wilco, dai Blonde Redhead ai Low. Ed é proprio nell’anno in cui ci ha lasciati Mimi Parker che ci piace pensare a un piccolo passaggio di testimone tra la cantante scomparsa e una Adriane Lenker che ad esempio in “Sparrow” è capace di spezzarci il cuore proprio come a Mimi riusciva ogni volta.
Il lavoro dei Modern Nature, “Island of noise”, è un’opera “caratterizzata da una sorta di fluidità aerea, che da un lato trascina in un flusso continuo cui è facile abbandonarsi e dall’altro riesce a non trascurare affatto la forma canzone”. Ma soprattutto è un fulgido esempio di artigianato certosino che riporta a una maniera di fare musica antica seppur priva di nostalgia. Una dedizione amorevole che si manifesta “nell’equilibrio e la maturità con cui la band riesce a impreziosire e trascendere la forma canzone, mediante l’improvvisazione dei musicisti e nella cura per gli arrangiamenti.” Il risultato finale è “un viaggio che parte dalla placida “Tempest”, solcata dalle perturbazioni del sassofono del grande Evan Parker, e si conclude e culmina nel crescendo minimale di “Build”, brano che non abbiamo timore di definire un piccolo capolavoro”.
La medesima Inghilterra, trasfigurata nel disco dei Modern Nature, trova nuove e più inquietanti declinazioni in altre due opere che hanno segnato il nostro 2022: “The Ruby Cord” di Richard Dawson si è rivelato un disco ispiratissimo, che si fa perdonare anche qualche lungaggine grazie a melodie memorabili, condotte da un fraseggio vocale raffinato e viscerale (spesso affine ai registri utilizzati da Robertino Nostro – ndr Wyatt… per chi non fosse a conoscenza dell’estrema passione di chi scrive) e di una forza narrativa che “arriva” al di là delle parole. Un disco capace di giocare su più tavoli (folk, prog, pop, avant) riuscendo a essere comunque fruibilissimo ed emozionante, anche in virtù di una libertà creativa che richiama quella particolare stirpe di lunatici britannici cui Dawson va certamente accomunato.
All’Inghilterra di Dawson, raccontata con l’espediente narrativo del racconto di fantascienza distopico, fa eco la terra di nessuno, spettrale e infestata, raccontata dai due EP gemelli di Burial “Antidawn” e “Streetlands”. Se del primo abbiamo già abbondantemente scritto, salutandolo come il primo grande disco del 2022, del secondo possiamo dire che si iscrive anch’esso nel filone ambient dell’artista londinese che dunque prosegue ad inoltrarsi in quella “terra desolata, abitata da ricordi del passato e dai fruscii increspati della memoria”. Anche “Streetlands”, infatti, pur vantando una maggiore concretezza nei suoni, presenta “una peculiare forma di ambient, quasi del tutto priva di beat, che sostituisce i bordoni di tastiera o i tappeti di droni con una serie di campioni affastellati in maniera disordinata, che sembrano non andare da nessuna parte e a cui non viene dato il tempo di esprimersi, venendo subito sostituiti dai capricci della memoria e dalla disordinata associazione mentale di chi si abbandona al ricordo. Quella proposta è una passeggiata in una wasteland esistenziale, non sappiamo se abitata da fantasmi reali o se invece partoriti dalla mente del musicista”. La musica di Burial colpisce ancora per la capacità di coniugare intensità emotiva e farsi però allo stesso tempo sfondo ideale su cui proiettare speculazioni filosofiche “che vengono semplicemente evocate in maniera naturale, lasciando che la musica ne divenga “correlativo oggettivo” e ristabilendo così i corretti ruoli e i giusti confini tra l’attività intellettuale e quella musicale”.
Se Burial ha fatto presto a diventare un classico di questi ultimi quindici anni di musica, oltrepassando generi e categorie, un’altra band che in poco tempo è diventata una sicurezza sono i Fontaines DC che con “Skinty Fia” è giunta a un classicismo (proprio e di genere) che non sembra avere intenzione di stancare. Ciò grazie a una scrittura che continua a restare solida, un suono che si limita ad alcune innovazioni, ma senza apportare modifiche sostanziali e a un personalità che, innegabile, si irradia dalla voce di Grian Chatten e dalla maniera con cui il gruppo ha saputo tenere il palco durante il tour del disco. “Skinty Fia” ha regalato canzoni memorabili e una band a cui un tempo – quando eravamo più giovani e carini – avremmo consegnato la nostra vita. Senza tirare in ballo il rock epico di U2 ed Echo and The Bunnymen e cercando un paragone più prossimo, si potrebbe fare un parallelismo con i National (l’ultimo gruppo indie rock con cui forse sono paragonabili a livello di diffusione e apprezzamento) e vedere nell’ultimo disco degli irlandesi il loro “High Violet”.
Tra le nuove leve del rock, vanno certamente annoverati i Dry Cleaning di “Stumpwork” che al secondo disco dimostrano di essere una band destinata a restare perché capace di allargare la propria tavolozza di colori e di arricchire con molte influenze (indie, C86, post rock) la scarna piattaforma dell’esordio su cui avevano mandato felicemente in collisione post punk e saturazioni rock blues. Un ottimo lavoro di transizioni in attesa di capire cosa la band vorrà davvero diventare da grande.
Il passato più recente è invece incarnato dagli Smile il cui noto rapporto di parentela con i Radiohead (dato dalla presenza nella band di Jonny Greenwood e Thom Yorke) ha rappresentato croce e delizia di “A Light For Attracting Attention”: da un lato troppo simile al suono della band d’origine per non sembrare un mal riuscito esperimento “sotto mentite spoglie”, dall’altro pur sempre nobilitato dalla bellezza della band di Oxford che inevitabile ha permeato anche il nuovo progetto. La soluzione al dilemma sta probabilmente nel soffermarsi unicamente nella musica, senza prestare troppa attenzione a quale ragione sociale viene scelta…
Più o meno della stessa generazione dei Radiohead possiamo considerare quei Wilco che con “Cruel Country” sono tornati con il loro migliore lavoro da parecchi anni (e noi siamo tra quelli che hanno adorato “Ode To Joy”). Un disco importante che dice molto e in parte ridefinisce il rapporto tra leader e band e tra scrittura e arrangiamento, annullando ogni sudditanza in favore di una compenetrazione che supera ogni gerarchia (ascoltate la chitarra di Nels Cline in “Many Worlds” perfettamente amalgamata nella band eppure così libera di esprimersi: un momento magico la cui registrazione è riuscita a cogliere quel particolare tipo di emozione che solo i musicisti nel momento estemporaneo della creazione possono provare). Tra arrangiamenti misterici ed oppiacei (“The Empty Condor” o “The Mistery Binds”), rimandi ai Big Star del terzo disco (“Tonight the Day”) o a quella stagione in cui gente come Gram Parson e Gene Clark faceva sembrare scrivere canzoni la cosa più facile del mondo perché ispirati dalla grazia del momento storico (“Bird without a Tail”), “Cruel Country” pesca, celebra e rilancia quel serbatoio che è lo “Spazio Americano”: contemporaneamente gabbia e distesa infinita da percorrere (ricordate l’onirica sequenza iniziale di “My Own Private Idaho”?).
Infine, non possiamo non citare il ritorno di Brian Eno che con “FOREVERANDEVERNOMORE” consegna un lavoro dalla scrittura magnifica “in grado di proporre una felice sintesi tra forma canzone e verbo ambient” e “di sfuggire alla realtà codificata ed esistere, conducendoci in un non luogo e in un tempo inesistente, sospeso tra passato, presente e futuro”.
Inoltrandoci, con la benedizione di Re Brian, in territori più avant celebriamo il superlativo “Comradely Objects” degli Horse Lords e la doppietta recapitata quest’anno da Oren Ambarchi con “Ghosted” e “Shebang”.
Tre lavori in cui perdersi: più fisici gli Horse Lords che portano il loro rock totale in territori immaginifici in cui un Sun Ra alla guida dei Comet Is Coming si divide tra un passato math rock, un presente afro ritmico e un futuro di frattaglie ambientali disperse tra una battuta poliritmica e l’altra.
Certamente più cerebrale, Oren Ambarchi ha pubblicato un “Ghosted” dai sapori più spostati verso l’avant jazz (anche grazie alla presenza della sezione ritmica dei Fire!) e un “Shebang” in cui si è affidato più a un minimalismo seriale che ha trovato in musicisti come Chris Abrahams dei Necks un perfetto complice.
Chiudiamo la carrellata dei nostri dischi dell’anno con due lavori italiani. Cominciamo con il secondo lavoro del progetto LIBERATO che si conferma essere “un felice incontro generazionale che si consuma nel campo di quella musica popolare che (giustamente) non si vergogna di puntare al consumo di massa”. Scrivevamo in sede di recensione che “la musica di LIBERATO appare “popolare”, non per ricerca intellettuale o commerciale, ma per naturale collocazione (…) per nulla inficiata dal livello di sofisticazione utilizzato da chi gestisce in ogni minimo particolare il progetto dell’artista”. LIBERATO ha proseguito a gestire il proprio progetto multimediale che ha finalmente trovato il suo completamento anche in un live finalmente all’altezza del progetto stesso. “II” rimane lavoro di passaggio che si propone di levigare, piuttosto che enfatizzare, le derive più felicemente dance del progetto, inseguendo una bella calligrafia pop che sembra soltanto rimandare alla prossima mossa quello scarto in avanti che la colonna sonora di ULTRAS ha lasciato presagire.
Infine, Alessandro Fiori ha pubblicato con “Mi sono perso nel bosco” un’opera senza tempo che pesca a piene mani dalla canzone italiana di fine anni sessanta, permeandola con l’umore stralunato delle proprie melodie che uniscono modernità, quotidianità senza tempo ed empatica introspezione: erano anni che non succedeva qualcosa di simile nella canzone italiana d’autore. Il passaggio dalle bizzarre contaminazioni elettroniche che avevano reso straordinario il precedente “Plancton” verso le sonorità più classiche di “Mi sono perso nel bosco” sembra trovare la sua ragione proprio nell’essenza più intima di questi brani che Fiori ha saputo trattare da par loro: come dei classici che non ci stancheremo per molto tempo di ascoltare.
* * *
Questi dunque i dischi che più abbiamo amato. Ma dodici mesi sono lunghi da passare e sarebbe impossibile davvero fotografare tutto… Qualunque lista non potrebbe che lasciare l’amaro in bocca, sapendo di lasciare inevitabilmente qualcosa fuori. Per lenire il senso di colpa e magari incuriosire Voi lettori, abbiamo pensato alle consuete appendici per “genere”:
1. Il termine “POP”, più che inquadrare un genere codificato (pavlovianamente quando sentiamo quel termine noi ad esempio tiriamo fuori i nostri dischi dei dischi di Beatles, Elvis Costello e Burt Bacharach), deve essere inteso come abbreviazione di “Popular”: musica che la gente ascolta o che può potenzialmente ascoltare in maniera diffusa. Da questo punto di vista la nostra classifica pop tende a contemplare dischi giudicati popolari per la loro reale diffusione o per quella potenziale.
In quest’ottica, difficilmente si potrebbe contestare il titolo di miglior disco a “MOTOMAMI” di Rosalia. “MOTOMAMI” si iscrive in quel filone mainstream pop che da anni conduce la sua personale guerra alla musica indipendente cercando, dopo anni passati a cannibalizzarne e addomesticarne le intuizioni, di strapparne lo scettro di musica più creativa tramite una sintesi perfetta tra sonorità elettroniche/IDM e accessibilità da heavy rotation radiofonica. “MOTOMAMI” gode di diversi momenti eclatanti in cui è francamente difficile non alzarsi dalla sedia (i ritmi infuocati di “SAOKO”, “BIZCOCHITO” e “DIABLO”) o restare piacevolmente sorpresi dalle ballad e dalle doti vocali della trentenne catalana (“HENTAI” e “CANDY” su tutte, dove spicca anche una linea vocale presa in prestito da un misterioso produttore di South London…).
Rosalia gioca bene su dissonanze e poliritmi, consegnando un disco che è letteralmente esploso non solo a livello di critica, ma anche di numeri, se consideriamo poi il minimo investimento pubblicitario rispetto alle campagne faraoniche di Dua Lipa, Billie Eilish, Beyoncé e co.
All’artista catalana affianchiamo due nomi inglesi: l’esordio solista di Oliver Sim degli XX che con “Hideous Bastard” lavora su più livelli da un lato “una musica che scivola via senza increspature, scorrendo come balsamo sulle ferite dello stress quotidiano” e dall’altro dei “testi-confessione che, scorrendo anch’essi tra le mani, graffiano come frammenti di vetro aguzzo: dalla HIV contratta dal cantante a soli 17 anni, alle difficoltà di veder accettata la propria omosessualità, Oliver mette in scena un diario intimo, trasfigurato dalla propria passione per le tematiche horror, mentre musicalmente si affida da un lato a una voce calda e pastosa che ricorda le raffinatezze di Paul Buchanan e dall’altro al compare degli XX, ovvero un Jamie XX che si occupa di una produzione semplicemente perfetta, che sa stare al proprio posto, sa essere minimale nelle proprie idee e non cerca mai la soluzione sorprendente, preferendo lavorare per la canzone, in modo da lasciare la scena all’ugola e alla penna di Oliver”.
Ed infine citiamo “Being Funny In a Foreign Language” di quei 1975 che finalmente ci hanno convinto appieno con il loro disco più pop, rilassato e lontano da quel clamore che da sempre nutre l’ego di Matthew Healy, ma che rischiava di spingerlo con la propria pressione a disperderne l’innegabile talento.
2. Quando parliamo di Rock si rischia di dividersi peggio di un congresso della sinistra. Dunque per cercare di essere più ecumenici possibile, diremo che all’interno dei dischi che “usano le chitarre in maniera preponderante” o che usano “altri strumenti ma come fossero delle chitarre” segnaliamo innanzitutto il ritorno dei Breathless con “See Those Colours Fly”. Risulta un po’ difficile parlare del gruppo di Dominic, Ari e Gary perché rappresentano un pezzo di vita che torna e che ogni volta, riscoprendolo immutato nel fascino, ti fa comprendere appieno il concetto di “casa”. Vi basterà sapere che la loro wave psichedelica che un tempo anticipava lo shoegaze continua a porsi al di sopra di ogni stagione, ritorna uguale a se stessa, ma continuamente diversa suggerendo un’idea di “placida serenità che sconfina nella tristezza”.
Territori ben più aspri e dissonanti vengono invece battuti dai Black Midi che con “Hellfire” si confermano band inafferrabile e sempre più personale: funambolica, sopra le righe e (spesso) autoironica. La loro euforia giovanile e il loro volersi divertire con la propria (notevole) tecnica senza mai prendersi sul serio, cercando piuttosto di creare un linguaggio personale vanno certamente premiate.
Così come va premiata la brutalità della Gilla Band che con “Most Normal” ha dato un seguito ancora più violento all’ottimo “The Talkies” del 2019, confermandosi band capace di coniugare assalto No Wave e isterismo di scuola Fall, chiamando in causa influenze come quelle di Daughters, Boris e Melvins. La band irlandese non inventa nulla, ma riesce a distinguersi dalla massa anche grazie ai deliri di Dara Kiely al cui fascino è difficile sottrarsi.
3. Per Avant, intendiamo tutte le musiche di frontiera che ci restituiscono l’immagine di musicisti/esploratori che si avventurano in territori sonori impervi e inesplorati. La loro grandezza consiste nel far scorgere, in paesaggi che sembrerebbero ostili all’orecchio umano, bagliori di bellezza. Se di Oren Ambarchi abbiamo già parlato, restiamo al di fuori del monopolio anglo-americano con tre dischi che ci hanno rapito durante il corso dell’anno.
Partiamo con “¡Ay!“ della colombiana Lucrecia Dalt, che incanta per la riuscitissima sintesi tra la musica tradizionale del proprio paese e le più moderne sonorità internazionali. La sua fusione tra strumentazione acustica ed elettronica é stata capace di raffreddare l’esuberanza tipica della musica sudamericana, senza tradirne l’anima, finendo piuttosto per esaltarla anche grazie all’attitudine intellettuale e autoriale della Dalt.
Il secondo disco della categoria è “The Liquified Throne Of Simplicity” dei Sirom, band proveniente geograficamente dalla vicina Slovenia ma idealmente e musicalmente da un paese immaginario dove suggestioni etniche, minimalismo, spirito avant, reminiscenze di folk esoterico alla Comus e Third Ear Band e molto altro si condensano in una miscela sonora libera ad alto tasso di trance.
Infine, Kali Malone, “esule” americana in Svezia, che con il terzo disco “Living Torch” mette da parte l’organo a canne del precedente doppio album per espandere il proprio suono in direzione elettro-acustica, con un lavoro diviso in due parti decisamente diverse tra loro ma che vanno a formare un movimento circolare: alla stasi ambient-drone della prima parte segue una seconda sezione all’insegna di una lenta progressione dove i droni sono squarciati da rumorismi alla Ben Frost che, collassando su se stessi, si ricollegano nuovamente all’incipit del disco.
4. Se c’è una musica che incarna sempre più la categoria di popular quella é certamente la cosiddetta musica Black che raccoglie al suo interno diverse direttrici e filoni: dal nuovo jazz che piace anche al di fuori dei confini di genere, all’hip-hop che nelle sue varie declinazioni è diventato sempre più “culturalmente egemone”, fino alle nuove forme di soul contaminate da elettronica e rap.
Anche quest’anno, con un disco pubblicato – in spregio ad ogni classifica – a inizio Dicembre, senza annunci e di lunedì, intitolato “NO THANK YOU”, Little Simz ha ribadito il proprio ruolo di regina dell’Hip-Hop: a differenza del colossale e (giustamente) blasonato “Sometimes I Might Be Introvert”, troviamo “solo” 10 brani inediti, ma che presentano una durata più alta della media hip-hop e vantano una produzione affidata come di consueto all’iper prolifico Inflo, che sembra non riuscire a dare fine alla sua vena creativa. Un taglio fortemente soul e roots, unito a una penna particolarmente vispa e guerrigliera contraddistingue il nuovo lavoro della rapper di Islington, che dimostra ancora una volta il potere della musica indipendente.
Ci siamo poi esaltati per il ritorno dei Black Star che con “No Fear Of Time” hanno pubblicato un disco che vanta un’epica d’altri tempi, pieno di richiami interni tra i brani e una produzione, a cura di un ispiratissimo Madlib, che punta verso un mood psichedelico/oppiaceo e su cui si innestano le barre di Yasiin e Taleb che con il loro tono sfatto, strascicato e orgogliosamente old school consegnano un classico purtroppo destinato al culto di pochi fedeli, complice anche la peculiare (e certamente criticabile) distribuzione.
Chiude il trittico il lavoro di Sudan Archives, che con il suo sophomore album “Natural Brown Prom Queen” si conferma una presenza solidissima all’interno della scena hip-hop alternativa. Quindici brani che scorrono in maniera leggiadra, mescolando RNB e influenze jazz con una forte componente elettronica. Notevolissimo in questo senso il poker “Selfish Soul” / “Loyal” / “OMG BRITT” / “ChevyS10”.
5. La musica elettronica da alcuni anni risulta essere la sorvegliata speciale per quanto riguarda l’innovazione e l’evoluzione delle nostre musiche. E’ da lì che ci attendiamo giungano le novità che verranno poi cannibalizzate dagli altri generi per rinnovare il proprio vocabolario. Un carico di aspettative che ci sembra a volte distorca il nostro giudizio, finendo per farci sottovalutare dischi belli e riusciti solo perché poco innovatori. Quest’anno, in assenza di lavori realmente innovativi, abbiamo finito per abbandonarci a un’elettronica maggiormente emotiva e rilassata.
Innanzitutto con il dittico di Loraine James che, prima con il disco a suo nome “Building Something Beautiful for Me” (omaggio al compositore minimalista Julius Eastman scomparso nel 1990) e poi con il moniker (e il disco omonimo) di Whatever The Weather (sinestetico viaggio musicale/meteorologico attraverso temperature differenti usati come titoli e suggestioni) ci ha deliziato con paesaggi techno–ambient che alternano formicolanti ritmiche a glaciali pulsazioni ambient.
Citiamo anche l’italianissimo Selfimperfectionist che con “Pure” è riuscito a spostare l’attenzione dalla perizia tecnica (comunque presente: basti pensare al perfetto controllo del rumore bianco in Dialectical), all’aspetto emotivo della questione, in ragione forse – supposizione nostra – del ricchissimo background dell’artista, cresciuto con il post punk degli anni ottanta e con il suono britannico pre brit-pop (d’altronde la scelta del moniker parla chiaro… almeno per i maniaci di band come Adorable). Groove, astrazioni, rasoiate in “alta definizione”, synth romantici, tappeti ambient e minimali, klingori caracollanti: Giorgio Pilon (questo il nome dietro il moniker) non si nega nulla, ma riesce al contempo ad evitare l’effetto “catalogo”, in quanto ogni registro utilizzato trova la sua ragione in un preciso disegno, volto a comunicare emotivamente con l’ascoltatore.
6.In ambito Folk è stato facile anche quest’anno trovare numerose perle sia al di qua che al di là dell’oceano (ma anche in casa nostra come vedremo più avanti). Ne vogliamo citare tre che ben rappresentano la vitalità del genere in diversi ambiti.
Per il folk britannico vogliamo indicare il magnifico “The “Sorrow Songs: Folk Songs Of Black British Experience” di Angeline Morrison, disco di debutto che fin dal titolo mette in bella mostra la questione attorno a cui ruota l’opera ovvero domande come “Dove sono le persone di colore nel folk britannico?“. Non è questa la sede adatta per soffermarsi sulla questione, ma va detto che il risultato musicale è un disco di capitale importanza che dimostra che il futuro del folk si trova nel meticciato culturale e non nell’arroccamento e che l’emozione provata nell’ascoltare la Morrison alle prese con i propri e autografi “nuovi traditional” riecheggia quella dell’immortale esordio di Terry Callier.
Arriva invece dagli States “Good And Green Again”, quarto disco di Jake Xerxes Fussell che lo vede nella ormai assodata veste di cantastorie e divulgatore del folk americano. La novità è che stavolta Fussell si propone anche come autorevole prosecutore di tale storia con brani scritti di proprio pugno (ndr una comunanza forse non casuale con il lavoro di Morrison) che non sfigurano affatto e che si mescolano senza soluzione di continuità ai traditional in maniera simile a quella con cui James Ellroy mescola realtà e finzione nei suoi romanzi.
Bastano infine poche parole per decantare la solita grande bellezza del nuovo disco di Marisa Anderson, “Still Here”, capace come sempre con la chitarra di coniugare tradizione e innovazione, intimismo e i grandi spazi dell’America.
7. Sono giunte anche ottime vibrazioni dal Nostro Paese, che conferma come i nostri musicisti, soprattutto al di fuori dell’ambito rock, sembrano liberarsi di qualunque sudditanza e appaiono in grado di fare proprie eventuali influenze esterne, amalgamarle alle proprie, giungendo poi a una propria sintesi. Dischi come quelli di Llay Lamas, C’mon Tigre, Mace, 72 Hour Party o lo strepitoso ritorno degli Almamegretta ci sembrano dimostrare questo assunto, così come il tris che più ha colpito la nostra immaginazione.
Cominciamo con l’impressionante lavoro pubblicato da Mai Mai Mai. “Rimorso” è il disco che qualunque appassionato di folk italiano sognava da anni venisse pubblicato. Un lavoro capace di fare piazza pulita della sclerotizzazione accademica operata sul nostro folk al fine di resuscitarne l’anima più vera, spettrale, ferale e selvatica, e consegnarla a un presente e a una modernità che non può può fare a meno delle contaminazioni/manipolazioni elettroniche.
Discorso non troppo dissimile da quello presente nell’esordio di Tullia Benedicta con il moniker di Nziria, che con “XXYBRID” fonde la tradizione melodica napoletana con sonorità gabber e trance, generando un felice corto circuito tra delicatezza e un’aggressività che deflagra con maggiore enfasi proprio perché contrapposta all’evocatività delle trame canore.
Infine, Vieri Cervelli Montel autore di un esordio pubblicato non sorprendentemente dalla Tanca Records di Jacopo Incani; al di là delle eventuali affinità musicali, è facile vedere nei due degli spiriti affini nel cercare una sintesi tra cantautorato e sperimentalismo. “I” è un disco complesso dove Cervelli Montel modella una scrittura già matura in canzoni imbevute di canzone d’autore italiana, suggestioni radioheadiane, post rock e sperimentazione elettronica.
8. Una categoria a sé stante è quella degli Eroi di Culto ovvero artisti più o meno noti (per lo più “meno”…) cui ci sentiamo legati in ragione di affinità sentimentali che magari ce li rendono più prossimi di nomi maggiormente blasonati. Il 2022 da questo punto di vista ci ha regalato tanti ritorni di cui il mondo non sembra essersi troppo accorto…
Potremmo citare artisti come Interpol, Metronomy, Suede, Kula Shaker, Orchids, Micah P. Hinson, House Of Love, ma il trittico su cui vogliamo concentrarci é costituito innanzitutto da Michael Head & The Red Elastic Band che con “Dear Scott” ha aggiunto l’ennesimo tassello di una discografia parca, ma dal livello medio altissimo, aiutato per l’occasione dalla produzione di un altro nostro eroe di culto quel Bill Ryder Jones, ex Coral e poi notevole solista, che ha gestito benissimo i due registri del disco: quello più canzonettaro e pop della prima parte e quello più “involuto” (in senso buono) della seconda.
Segue poi una delle sorprese dell’anno, ovvero gli americani Florist della cantante e musicista sperimentale Emily Sprague. Il loro disco omonimo alterna bozzetti impressionistici e strumentali e canzoni dal tono folk, languido e notturno, resi ancora più sognanti e suggestivi dagli interventi di synth e sax. E’ forse solo una suggestione, ma l’album si può paragonare a una versione notturna del disco dei Big Thief. Se quest’ultimo risulta rustico e odora di cantina, quello dei Florist sa di caligine e di campi e ti conduce sulla classica sedia a dondolo, fuori in veranda, a rimirare le stelle e i terreni illuminati dalla luna, accompagnato dal suono dei grilli che realmente si sentono nelle incisioni.
Un piacevole e inatteso ritorno è stato quello dei Duster con “Together”. Il terzetto di San Josè, da sempre storicamente ostile al successo e alla promozione, pubblica il quarto album (il secondo dopo la reunion del 2018) in studio nel silenzio più totale.
“Together” è una raccolta di ballate autodistruttive, lente e solenni, caratterizzate da pesanti muri di suono, fiati dissonanti e reminiscenti di Microphones e Talk Talk e liriche catastrofiche. Anche qui nessuna invenzione, ma solo consolidamento di alta qualità.
Abbiamo finora parlato di tre dischi per categoria, ma veniamo volentieri meno alla nostra stessa regola per segnalare un nostro particolare eroe di culto che con le regole ha da sempre un rapporto controverso. Parliamo di Mr. Gurubanana, Andrea Fusari, che alla guida dei Basement 3 con “Naturalismo” ci ha ricordato come si possa essere un “jazzista della melodia, capace di comporre canzoni a getto continuo per poi affidarle ai musicisti che di volta in volta lo affiancano, nella consapevolezza che ogni formazione le vestirà in maniera differente, ma senza intaccarne mai la vera essenza. Naturalismo! mostra una band che concilia perfettamente la propria radicata tendenza alla jam dilatata con una scrittura invece ben focalizzata e decisamente ispirata”.
9. Concludiamo la lunghissima carrellata scommettendo su tre Promesse che ci piacerebbe in futuro pubblicassero ancora lavori all’altezza dei dischi che abbiamo avuto il piacere di ascoltare quest’anno.
Cominciamo con Fortunato Durutti Marinetti, il cui “Memory’s Fool” è un disco che si disvela piano piano fino ad assumere l’aspetto di un dipinto che, nel raffigurare il medesimo paesaggio, glaciale e malinconico, muta ogni volta i propri dettagli con minimi cambiamenti e un’illusione poetica di movimento. Merito di una sinergia tra la produzione del disco, curata da un Sandro Perri in stato di grazia, e la penna di Daniel Colussi che conduce l’album verso una perfezione formale che diventa davvero sostanza e coniuga massimalismo e minimalismo, dipingendo un quadro allo stesso tempo ricchissimo e sobrio;
I Caroline con il disco “Omonimo” ci hanno colpito per la propria maniera personale e fascinosa di essere inconcludenti e irrisolti, consegnando un lavoro la cui bellezza sfuggente invita al riascolto. Un disco dalle tante suggestioni, ma che suona fresco per una capacità di sintesi non lontana da quella che – con le dovute differenze stilistiche – operano band come i Black Country, New Road;
Infine i Thus Love di “Memorial” ci hanno conquistano con chitarre arpeggiate come si fosse a Edimburgo nel ‘79, una voce che sembra nasale come l’Iguana berlinese, svaccata come un Julian Casablancas senza filtri fighetti, epica come quella del primo disco dei Chapel Club e capace di intonare un paio di melodie su cui inspiegabilmente non si fa altro che ritornare.
“Cosi tanta musica e così poco tempo”.
Buon anno!
LE NOSTRE TOP TEN
THE LINE
Dry Cleaning – Stumpwork
Rosalia – MOTOMAMI
Big Thief – Dragon New Warm I Believe In You
Little Simz – NO THANK YOU
Black Midi – Hellfire
Cities Aviv – MAN PLAYS THE HORN
Modern Nature – Island of Noise
Duster – Together
Gilla Band – Most Normal
Fontaines DC – Skinty Fia
MASON
Modern Nature – Island Of Noise
Wilco – Cruel Country
Brian Eno – FOREVERANDEVERNOMORE
Richard Dawson – The Ruby Cord
Big Thief – Dragon New Warm Mountain I Believe In You
Oren Ambarchi – Shebang/Ghosted
Florist – Florist
Lucrecia Dalt – ¡Ay!
Sirom – The Liquified Throne Of Simplicity
Burial – Antidawn Ep/Streetlands Ep
DIXON
Big Thief – Dragon New Warm Mountain
Black Star – No Fear Of Time
Alessandro Fiori – Mi Sono Perso Nel Bosco
Modern Nature – Island Of Noise
Burial – Antidawn EP
Liberato – II
Fortunato Durutti Marinetti – Memory’s Fool
Richard Dawson – The Ruby Cord
Oliver Sim – Hideous Bastard
Breathless – See Those Colours Fly
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