INTRO
La verità è che non credo più che il pop possa salvarmi la vita. Che possa cambiare la mia percezione del mondo o consolarmi di ogni male, facendomi sentire membro di una società segreta, il cui credo principale consiste nella consapevolezza che imbastire una buona melodia non serve (solo) a vendere della musica, ma rappresenta il tentativo, quasi filantropico, di lenire le ferite e curare gli affanni che il nostro animo sensibile (?) ci procura.
Credo di aver smesso di crederci, principalmente perché ho esaurito la mia dose di stupore. Se il pop è sempre stato un parco giochi in cui attardarsi per provare quante più attrazioni possibili, allora si è trattato di una frequentazione talmente assidua e quotidiana da aver dato fondo a tutte le mie scorte.
Per anni l’Inghilterra ha rappresentato un serbatoio generoso da cui attingere. In quel pozzo mi ci sono calato a fondo, con una cavillosità che probabilmente non ho concesso ai padri fondatori americani (in America ho sempre cercato l’Uomo, in Inghilterra la Maschera…). Forse perché nella vecchia Albione il pop possiede un sapore unico, riuscendo spesso a suonare smaccatamente superficiale, senza perdere un grammo di artistica profondità. Questo saper unire ciò che sta in superficie con ciò che sta nel profondo è tipico di una società dello spettacolo che, fin da Oscar Wilde, ha usato il proprio tormento per cercare il riflettore e la fama, essere amati e divenire immortali, dando così senso all’arte.
LIBERTINES
Per quanto riguarda quel particolare filone capace di unire melodie e chitarre elettriche sono in molti a ritenere che la via britannica si sia con gli anni inaridita… o forse – appunto – a esser venuto meno é stato il nostro stupore.
Per quanto mi riguarda uno degli ultimi innamoramenti ha riguardato quei Libertines di Pete Doherty e Carl Barat, che recentemente sono tornati in giro per celebrare il ventennale del proprio disco d’esordio.
Il loro Up The Bracket – prodotto da Mick Jones con la cura del padre che controlla lo zaino ai figli il primo giorno di scuola – risultava a tratti addirittura esaltante. Questo perché la band, capitanata dai suddetti Pete e Carl, squatter londinesi che si occupavano di voci e chitarre, e completata dagli ottimi John Hassall al basso e Gary Powell alla batteria, era capace di pagare debiti alla tradizione, ma con la sicumera di chi sa di avere la personalità dalla propria. Quella, e un pizzico di magia che rendeva il sound del gruppo sbilenco, ma perfettamente ancorato ai pilastri abrasi del rock n’ roll.
Lo metteva subito in chiaro il primo singolo “What a Waster” in cui a una scrittura subito di impatto (ma che si sarebbe sempre più raffinata) si associava quella certa maniera di mandare il pezzo allo sbaraglio, ben sapendo che si sarebbe andato a schiantare in malo modo da qualche parte, ma sempre fuori campo, perché quello che le nostre orecchie registravano era ogni volta un sound che, se pareva sempre sul punto di scollarsi, riusciva poi a restare miracolosamente unito, caracollando – trionfale – fino alla meta.
A quel primo singolo ne sarebbero seguiti altri che avrebbero condotto al citato esordio sul lungo formato Up The Bracket (2002). Disco di cui si chiacchierò parecchio all’epoca, da un lato per ragioni extramusicali, sconfinanti con il gossip puro che riguardavano gli eccessi del gruppo e in particolare di Pete Doherty, dall’altra per la scelta di affidare la produzione all’ex chitarrista dei Clash (si sa: la stampa va a nozze con certi, più o meno improbabili, passaggi di testimone).
Mick Jones si sarebbe poi occupato anche del secondo capitolo della saga libertina, edito nel 2004 (“Libertines”) e in cui la formula del gruppo si perfezionava ulteriormente senza rivoluzionare nulla: le voci che si rincorrono disordinatamente e le chitarre grattugiate alla maniera del Dave Davies dei primissimi Kinks, il reggae punkeggiante rubato ai Clash e la baraonda alla Rolling Stones mischiata alla melodia ficcante di scuola Jam, oltre a una sezione ritmica capace di imprimere dinamica e movimento a ogni brano. Se Jones aveva “sentito” qualcosa in questi quattro ragazzi scapestrati non si trattava tanto di un amarcord personale di suoni settantasettini, quanto del profumo garage sixties che la musica dei quattro emanava.
I Libertines si affermarono nello stesso periodo in cui venivano celebrate altre band di rock n’ roll che con i quattro londinesi condividevano il fiato corto, per ragioni differenti: Pete, Carl e soci avrebbero potuto surclassare gente come Strokes e Interpol, potendo contare su una scrittura a mio avviso superiore e su una scalcinata epica da strada differente da quella emotiva e a tratti didascalica degli Arcade Fire; tuttavia – rispetto a queste e ad altre band coeve – la loro breve vita sembrava da ascrivere, più che alla mancanza di talento, al famoso adagio che ritiene preferibile bruciare con una fiammata piuttosto che spegnersi lentamente.
Purtroppo, dei Libertines si è sempre parlato più per i vizi che per i meriti musicali: per molti rimarranno sempre dei poseurs che si appropriano fuori tempo massimo dei luoghi comuni del rock n’ roll. La liaison di Pete con Kate Moss, le comunità di recupero, la fuga in Thailandia di Doherty e i suoi i furti ai danni di Carl e poi il gruppo che scoppiava e i leader che si intestavano nuove ragioni sociali, sciogliendo la compagnia principale. Finiva tutto alle ortiche, in maniera meravigliosamente (quella sì) rock n’ roll, senza passare mai a capitalizzare davvero talento e denaro.
POSTILLA #1:
Babyshambles (Pete) e Dirty Pretty Things (Carl) erano sempre un buon sentire, ma nei Libertines la somma finale – come avviene per i grandi gruppi – era sicuramente superiore al valore dei singoli addendi (anche se… spezzo una lancia per Carl Barat, musicista spesso oscurato dal carisma e dal maledettismo beone di Pete, ma in realtà autore di razza come dimostrano alcune cose dei Dirty Pretty Things e soprattutto i suoi due dischi solisti). E infatti quando, con un Pete Doherty sovrappeso, nel 2015 i ragazzi sono tornati con un disco intitolato Anthem for Doomed Youth (titolo che non cerca di rivendere per l’ennesima volta un maledettismo d’accatto, ma che cita in realtà una bellissima poesia del 1917 di Wilfred Owen sulla gioventù del tempo stroncata dalla guerra) é arrivato il terzo centro, portando il gruppo all’invidiabile score di tre dischi su tre praticamente perfetti. Beninteso: sempre se il pop britannico più ruvido, melodico e rock n’ roll rappresenti la propria tazza di tè.
POSTILLA #2:
Per la cronaca: al concerto che la band ha tenuto all’Alcatraz di Milano, l’11 novembre 2022, i vent’anni trascorsi dall’esordio si sono sentiti tutti, ma non certo a livello di performance musicale: i ragazzi hanno offerto uno spettacolo di circa due ore, con una prima parte impegnata dalla riproposizione integrale del disco d’esordio e una seconda in cui, con maggiore rilassatezza, il gruppo ha giocato con i propri classici, dimostrando ancora di possedere una genuina voglia di divertirsi con gli strumenti in mano.
Il tempo trascorso si è piuttosto manifestato nel modo in cui le canzoni sono arrivate al pubblico, rivelando quanto le stesse si fossero profondamente sedimentate nella memoria: nonostante i volumi da garage, un approccio allo strumento che evita come la peste il tocco pulito e un’acustica che impastava ogni suono, le melodie sono arrivate chiare e pulite, svettando leggere su tutto il magnifico frastuono che Peter Doherty, a metà fra lo sfascio dell’ultimo Brando e l’esuberanza fisica di un Bluto Blutarsky, e Carl Barat, al contrario splendidamente invecchiato, hanno prodotto assieme ai fidi John Hassall (statico sul palco e quasi incredulo) e a Gary Powell (protagonista anche di un siparietto per il suo compleanno che cadeva giusto quel giorno con tanto di torta e canzoncina intonata sul palco).
I know exactly what you’d do
With all the dreams we had
‘Cos blood runs thicker, oh
We’re as thick as thieves, you know
If that’s important to you
It’s important to me
Oh, what became of the likely lads?
What became of the dreams we had?
Oh, what became of forever? Though
Oh, what became of forever? Though
We’ll never know
ARCTIC MONKEYS
Chi, come il sottoscritto, non sembra più credere al pop chitarristico inglese sembra essere uno dei suoi protagonisti principali degli ultimi anni ovvero Alex Turner. Enfant prodige che a circa vent’anni fu capace nel 2006 di piazzare un colpo da maestro come Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not, esordio di una band – gli Arctic Monkeys – di cui già a lungo si chiacchierava, tanto che il suddetto esordio venderà qualcosa come 364.000 copie solo nella prima settimana (entrando addirittura nel Guinness dei primati). Whatever People Say I Am proponeva un rock punkettaro, asciutto e spigoloso, melodico e bastiancontrario (a partire dal titolo) che allo sfacelo dei Libertines aggiungeva una certa angolarità post-punk che in quegli anni andava per la maggiore. Look, suono e freschezza facevano del giovane Turner un piccolo Paul Weller in erba, paragone che per anni deve aver tormentato il ragazzo, il quale sembrava in effetti seguire la stessa trafila del Modfather, con gli Arctic Monkeys a rappresentare i suoi Jam, i Last Shadow Puppets gli Style Council (con l’ex Rascals e odierno solista Miles Kane nei panni di Mick Talbot) e quel piccolo ep di canzoni inedite, scritte per il film Submarine, uno scrigno prezioso che anticipava il Wild Wood che sarebbe sicuramente giunto da lì a poco.
Alex Turner però fino ad oggi non ha inteso avviare alcuna carriera solista e qualcuno ha cominciato a derubricarne il talento, stanco di aspettare la maturazione di un autore la cui penna sembrava non trovare mai davvero l’inchiostro giusto per diventare indelebile.
Non che il ragazzo si ponesse grandi problemi: con i suoi Arctic Monkeys, Turner non ha fatto che mietere successi di critica e soprattutto di pubblico, riempiendo palchi sempre più importanti, forte di un seguito reso ancora più prezioso e sorprendente dal calo verticale che il rock, come genere musicale, stava registrando tra i favori del giovane pubblico inglese in favore di altre musiche come grime, hyperpop o soul commerciale.
Ma proprio mentre gli Arctic sembravano destinati a diventare l’ultimo dinosauro di uno stadium rock piacevole ma tutto sommato superato dai fatti, ecco che la maturazione avveniva e in una maniera del tutto inaspettata: Tranquility Base Hotel & Casino, album degli Arctic Monkeys del 2018, mostrava finalmente un autore che riusciva a mettere tutta la sua personalità non tanto nella costruzione della melodia o nel refrain memorabile, ma nella ritmica delle parole: l’inflessione di una voce sempre più matura e capace di scandire in maniera inconfondibile ogni singola sillaba rendeva musicale ogni respiro e ogni pausa, riuscendo a fare a meno non solo dei ritornelli, ma persino della chitarre come strumento predominante, preferendo disporre di una tavolozza di colori molto più vasta del vocabolario muscolare e rock che, personalmente, in mano agli Arctic Monkeys non mi aveva mai convinto del tutto.
In questo senso va letta l’affermazione iniziale circa la mancanza di fede di Alex Turner nel pop chitarristico inglese. Da alcuni anni il cantante di Sheffield sembra rivolgere il suo sguardo lontano dal pop degli Smiths e del suo concittadino Jarvis Cocker, preferendo cercare nuove suggestioni, magari in quel particolare passaggio degli anni ottanta in cui il pop britannico subiva la fascinazione del soul americano o piuttosto in quelle sontuose colonne sonore che negli anni sessanta trovavano il modo di farsi canzoni.
Suggestioni soul che hanno cominciato a fare capolino in maniera sempre più prepotente prima nella gestione di alcuni ritornelli, corali e falsettosi, del best seller degli Arctic Monkeys AM e poi nel look e nelle orchestrazioni a supporto della scrittura raffinata di Everything You’ve Come To Expect dei Last Shadow Puppets. Un percorso che attraverso lo splendido e per molti versi sottovalutato Tranquility Base Hotel & Casino ha portato al nuovo lavoro degli Arctic Monkeys, pubblicato solo alcune settimane fa e intitolato The Car.
Un lavoro in cui Alex si abbandona totalmente al languore soul, alle orchestrazioni lussureggianti, alle batterie larghe e piene di groove e a una vocalità che cita crooner irregolari come Scott Walker e spazia e svolazza sopra, sotto e tutto intorno alla melodia, senza l’ossessione di trovare il gancio capace di arpionare attenzione e memoria.
Da parte di Alex e dei suoi commilitoni si percepisce un piacere nel fare musica che si trasmette all’ascoltatore, regalando così 37 minuti di puro godimento e… pazienza se ci sarà ancora chi rimpiangerà riff di chitarra che oggi in mano ad Alex suonerebbero forzati e poco sinceri. Meglio assecondare i desideri di quello che resta uno degli innegabili talenti musicali della canzone degli ultimi anni, un musicista che non diventerà mai il nuovo Paul Weller perché troppo impegnato a diventare fino in fondo Alex Turner.
OLIVER SIM – XX
L’afflato soul che bagna The Car si ritrova a ben vedere anche in un altro meraviglioso disco uscito quest’anno e che completa in qualche modo il discorso fin qui illustrato: Hideous Bastard di Oliver Sim è un disco che cresce con gli ascolti fino a monopolizzarli del tutto, lavorando su più livelli: una musica che scivola via senza increspature, scorrendo come balsamo sulle ferite dello stress quotidiano e dei testi-confessione che, scorrendo anch’essi tra le mani, graffiano come frammenti di vetro aguzzo. Dalla HIV contratta dal cantante a soli 17 anni, alle difficoltà di veder accettata la propria omosessualità, Oliver mette in scena un diario intimo, trasfigurato dalla propria passione per le tematiche horror, mentre musicalmente si affida da un lato a una voce calda e pastosa che ricorda le raffinatezze di Paul Buchanan e dall’altro al compare degli XX, ovvero un Jamie XX che si occupa di una produzione semplicemente perfetta, che sa stare al proprio posto, sa essere minimale nelle proprie idee e non cerca mai la soluzione sorprendente, preferendo lavorare per la canzone, in modo da lasciare la scena all’ugola e alla penna di Oliver.
Non sarà forse un caso se quello che si preannuncia essere uno dei dischi migliori di pop britannico del 2022 viene da due musicisti che rappresentano ⅔ degli XX, ovvero una delle ultime next big thing a cui hanno gridato e non a vanvera i giornalisti inglesi.
Personalmente, ho sempre trovato alla lunga piuttosto noioso questo gruppo (il loro lavoro che ho più apprezzato è il vario e più ispirato I See You del 2017), ma ho sempre considerato interessante e meritevole di attenzione la sua proposta musicale, non tanto perché capace di rievocare certe svenevolezze wave degli anni ottanta, ma perché cercava di ibridarle con le suggestioni dubstep che in quel periodo monopolizzavano la scena elettronica britannica, rallentando e riempiendo di bassi pesanti il celebre Hardcore Continuum.
E non era dunque soltanto un caso anche il fatto che, a pochi anni di distanza dalla deflagrazione dei Libertines, le attenzioni si spostassero su un gruppo che basava il proprio suono più che sulla chitarra di Romy Madley-Croft e sul basso di Oliver sulle manipolazioni da producer di Jamie XX: quasi una maniera per rimuovere l’etichetta di genere conservatore a un pop che continuava a giochicchiare con chitarre e batterie, mentre intorno in Inghilterra si allestivano nuove e futuristiche avventure Hi-Fi, trafficando con campionatori, schede audio e paradisi digitali.
Nel suo rimanere pervicacemente aggrappato a topoi consumati dagli anni come il ritornello innodico, la melodia da singalong, l’intimismo da cameretta, le chitarre ora spigolose, ora declinate in jingle jangle scintillanti, il guitar pop sembrava perfetto per descrivere un processo di restaurazione continuo che proseguiva a vagheggiare una perduta età dell’oro ubicata da qualche parte negli anni sessanta.
Critiche per certi versi condivisibili: chi ha bisogno di avventure musicali farebbe meglio in effetti a rivolgersi altrove… certo, si perderebbe il piacere di risalire il fiume carsico del pop, lasciando questa occupazione a coloro che – a dispetto dell’età e dell’esperienza accumulata – ancora credono che con la giusta alternanza tra strofa e ritornello si possano salvare delle vite, cambiare la percezione del mondo e lenire le proprie ferite.
Il vecchio parco giochi oggi può sembrare disadorno, ma è sempre aperto ed accogliente.
POSTILLA #3: Thus Love.
E’ bello tenersi aggiornati, seguire la scena elettronica, quella avant o, ancora, il nuovo jazz che piace ai vecchi rocker; appassionarsi magari all’hip hop facendo finta che sia una cosa nuova e in perenne evoluzione.
Poi… ricevi una soffiata su questi ragazzotti che dimostrano come nel Vermont non di soli Phish si vive, ma anche di chitarre arpeggiate come a Edimburgo nel ‘79, di una voce che sembra nasale come l’Iguana berlinese, svaccata come un Julian Casablancas senza filtri fighetti, epica come quella del primo disco dei Chapel Club (mio culto personale…) e capace di intonare un paio di melodie su cui inspiegabilmente non fai altro che ritornare.
E così ti segni l’ennesimo nome, Thus Love, e ti esalti per l’ennesimo trio (americano peraltro: che smacco per quegli altri!).
E memorizzi ovviamente anche il titolo del disco, Memorial, perché è questo che fai da quando hai memoria, da quando eri poco più di un bambinetto.
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