A distanza di un anno e mezzo da “New Long Leg”, i Dry Cleaning tornano sulle scene con “Stumpwork”, ma a noi pare che questi 18 mesi abbiano significato molto di più per il quartetto di South London, che si ripresenta con una maturità sonora e artistica totalmente differente e quasi inaspettata.
Alla sorpresa per un artwork di copertina dal dubbio gusto (ma sicuramente iconica e destinata a restare nell’immaginario), fin dal primo ascolto si è aggiunta quella per una crescita artistica cui forse in pochi avrebbero scommesso.
Il tempo trascorso dal disco precedente è stato relativamente breve e i ragazzi sono stati impegnati in un lunghissimo tour mondiale (abbiamo parlato qui della data al Magnolia in Maggio) e per il ritorno in studio sono stati confermati sia l’etichetta discografica (4AD) che il produttore (John Parish)… Insomma tutto avrebbe lasciato presagire un nuovo disco che in generale si ponesse nel solco del precedente e invece, sembrano trascorse ere geologiche dai suoni post-punk di “Scratchcard Lanyard”, “New Long Leg” o “John Wick”.
Atmosfere allucinate, ipnagogiche e dissolute catturano l’orecchio fin dall’apertura “Anna Calls the Arctic”, una ballata che deve molto più al post rock di Bark Psychosis e Slint che al calderone post-punk in cui la band viene usualmente catalogata.
La voce di Shaw si snoda su un tappeto di chitarre, fiati (qualcuno forse sentirà anche King Krule, ormai disperso nelle campagne inglesi da più di due anni) e synth e sussurra scazzata di storie surreali con una scrittura estremamente personale, che la rende una delle (non) rockstar più originali in giro.
Un esempio? “Gary Ashby”, uno dei pezzi meglio riusciti del disco, è il racconto della fuga di una tartaruga (con tanto di nome e cognome!) dal giardino di famiglia, accompagnato da chitarre volutamente “smithsiane”.
Una delle migliori intuizioni di Parish è stata sicuramente quella di adattare suoni di diverse epoche alla moderna musica dei Dry Cleaning, e di utilizzare diversi riferimenti nella maniera più creativa e disparata, senza scadere mai nella ripetizione, anche quando un “compitino” avrebbe tranquillamente funzionato a livello commerciale e critico.
Dissonanze e ritmiche sghembe persistono anche in brani come “Driver’s Story”, “No Decent Shoes For Rain” e “Hot Penny Day”.
L’attenzione per il rumorismo e la dissonanza era già trapelata in occasione dei live della band, ma in “Stumpwork” diventa un fattore chiave per il successo del nuovo album.
Come da dichiarazione del gruppo stesso, “Stumpwork” rappresenta l’inizio di un nuovo capitolo nel percorso artistico dei Dry Cleaning che, pur mantenendo dal punto di vista sonoro i propri punti cardinali, si avventurano in territori finora inesplorati, facendosi guidare dalle cantilene di Florence Shaw, che stavolta come non mai con la sua spoken word, il suo sarcasmo e anche dei tentativi di cantato, ha il compito di ipnotizzare i propri adepti e portare la band verso il grande salto in termini di audience.
La sensazione è che il quartetto londinese sia piuttosto vulcanico e non abbia intenzione di fermarsi nella propria, personale ricerca sonora, ma anche che la guida discreta, ma a nostro avviso determinante di un gigante come John Parish rappresenti un ulteriore valore aggiunte che in futuro potrebbe continuare a dare i suoi frutti.
Se così fosse, probabilmente non ci sarà da aspettare molto prima di rivederli in zona e, magari, già fuori con un altro lavoro!
Dicci cosa ne pensi