“Settimane dopo la ragazza disse: – Il tizio era di mezz’età. Tutti i suoi averi erano sparsi lì sul prato. Non scherzo mica. Ci siamo ubriacati e abbiamo cominciato a ballare. In mezzo al vialetto. Oh Signore! Non ridete. Ha messo su dei dischi. Guardate questo giradischi. Ce l’ha regalato quel vecchio. Anche questi dischi orrendi. Ma avete visto che roba?
Continuava a parlare. Raccontò la storia a tutti. C’era dell’altro, lo sapeva, ma non riusciva a metterlo in parole. Dopo un po’, smise di parlarne.

A costo di commettere lo stesso errore della protagonista di questo vecchio racconto di Raymond Carver, ho deciso di raccontare quella fantastica giornata che mi ritrovai a trascorrere assieme ai Guillemots, in occasione dell’uscita del loro disco d’esordio Through The Window Pane. Un incredibile tour dell’Isola che non c’è, condotto da un novello ed egotico Peter Pan di nome Fyfe Dangerfield il quale, assecondato da un’allegra brigata di musicisti, allestì per tutti noi un incantevole giro di giostra capace di alternare luce ed ombra, esaltazione gioiosa e malinconia improvvisa, desiderio di estasi collettiva e melodrammatico desiderio di rimanere soli.
Se torno con la memoria a quel viaggio, riaffiorano sinestesie contraddittorie e suoni che, ieri come oggi, non saprei se attribuire alla campagna inglese più verde o a certe scogliere, fredde e ventose, a picco sul Mare del Nord… percezioni imbastardite dall’irruzione di elementi incongrui: fiati da esercito della salvezza, fragranze brasiliane capaci di proiettare tutto verso un altrove differente e – ancora – sapori di Canada e uggie scozzesi.
Su tutto regnava questo novello Puck capace di condurre i gitanti in un bosco fantastico, edificato sulle proprie paturnie e sui propri improvvisi slanci di umore. Suo il capriccio, suo l’arbitrio, sua la regia che imponeva alla camera ora di seguire il rito collettivo, ora di allontanarsi dalla scena e assecondarlo nei suoi abissi solitari.

Guillemots - Made-Up Lovesong #43

Non li conoscevamo da molto i Guillemots: giusto una manciata di singoli che avevano fatto alzare parecchie sopracciglie, perché brani come Trains To Brazil o Made-Up Love Song #43, nel 2004, non si trovavano tutti i giorni, neppure nell’affollato parco giochi del pop-rock inglese…
Per cui sapevamo il giusto: oltre a Fyfe Dangerfield, che veniva da Birmingham e da studi classici di pianoforte, facevano parte della banda il chitarrista brasiliano MC Lord Magrão, la contrabbassista canadese Aristazabal Hawkes e il batterista scozzese Greig Stewart. Un gruppo eterogeneo che, negli anni in cui gli hipster trionfavano con le loro finte promesse di integrazione, sostenibilità digitale e cappuccini a chilometro zero, sembrava perfetto… “Trough The Windowpane” resterà probabilmente questo: un disco perfetto per un periodo che non lascia nessuna epica da raccontare, solo un episodio personale; una gita fuori porta in compagnia di musicisti che non sapranno più ricreare quella fugace bellezza che, chissà come e per quale talento, erano riusciti a carpire.
Eppure… come resistere a una band capace di coniugare Elton John e gli Abba, di fare intravedere passaggi avant, restando in realtà ben piantati nel pop con la “P” maiuscola: quello che riempie di gioia e felicità e che, nel rendere liscio e rotondo ogni spigolo, mostra come dovrebbe essere condotta la nostra esistenza (altro che semplice musica leggera: qui siamo di fronte al Libro delle Rivelazioni).

Un viaggio che cominciava con quella che – usando le parole di Sir Paul MacCartney – era “un modo molto coraggioso per aprire un album“. Il vecchio Macca si riferiva alla bella orchestrazione che ornava il brano di apertura Little Bear e che accompagnava il cantato di un Fyfe che, accorato, intonava versi come:

Piccolo Orso, esci da questa vecchia casa prima che la bruci.
Non vorrei causarti qualcosa che potrebbe rompere il tuo bel viso in mille pezzi di porcellana frantumata, in questo mondo di pezzi rotti.

Ma, se non si nutrivano molti dubbi in merito al fatto che il “piccolo orso” del titolo fosse lo stesso Fyfe, aumentava la curiosità di sapere cosa avrebbe combinato una volta uscito dalla tana (la copertina del disco non mostrava dopotutto una finestra da cui sembrava naturale affacciarsi?).
A placare ogni curiosità giungeva dunque Made-Up Lovesong #43, con le sue orchestrazioni che deragliavano (fuori tonalità come fossero campionate) in mezzo a frasi candide e stupefatte (I love you through sparks and shining dragons, I do/ And now there’s poetry in an empty coke can/ I love you through sparks and shining dragons, I do/ Now there’s majesty in a burnt out caravan), a una chitarra che sembrava suonare una sveglia, districandosi in mezzo al giro elastico del contrabbasso e a variazioni melodiche felicissime, come quelle su cui Fyfe intonava: “You got me off the sofa/ Just sprang out of the air/ The best things come from nowhere/I can’t believe you care” per poi lasciarsi andare in gridolini che lanciavano la suggestione di trovarsi di fronte un Jeff Buckley bimbetto, senza sensualità e sofferenza, ma solo innocenza…

Lo stesso bimbo che cede al sonno, ripetendo come un mantra la frase “Yes, I believe you”, per poi risvegliarsi sul groove di Trains To Brazil, con tamburi e chitarre che sanno tanto di The Cure, per un brano che assomiglia davvero a un sogno pieno di colori sgargianti, sognato in maniera così forte da riuscire a far attraversare a tutti noi quello strano “confine”. Per l’occasione, ai quattro musicisti, si aggiungono anche i Bridled Guillemots, Alex Ward e Chris Cundy, che si occupano di un arrangiamento di fiati che completa il quadro, facendo suonare Trains To Brazil sul serio come “un’uscita da scuola anticipata in un giorno d’estate”(Ian McDonald cit.), grazie anche a un tambureggiare che trasmette gioia e rinculo di pelle tesa e giovane su cui rimbalza giocosamente una linea vocale che non ha bisogno di ritornello perché i fiati suppliscono alla perfezione al ruolo.

Guillemots - Trains To Brazil

Dopo l’esaltazione dell’accoppiata Made Up Love Song/Trains To Brazil, Fyfe sente poi il bisogno di raccogliersi in se stesso e così ecco che Redwings ritorna nei luoghi da cui il Piccolo Orso era partito, con orchestrazioni delicate, uno spazzolar di tamburi e pelli, un organo lontano e un fischio di vento che, sinistro, accompagna la voce in primissimo piano di Fyfe, presto doppiata nei suoi “You know I love You” dalla voce di Aristazabal.

E quanta amarezza é possibile scorgere in frasi come:

Qui è dove cadiamo dagli alberi
Qui è dove il cielo si copre
Questi assassini di gioia hanno fatto di me un uomo

e poi il pieno di orchestra e batteria su

Ma l’amore non è bastato a farmi mantenere la presa e tu non riesci a sentire come le mie dita scivolano verso quegli oceani nel cielo in cui la gente nuota. Oceani nel cielo che mi chiamano.

Una tristezza così intensa non può che avere uno strascico e così il brano successivo, Come Away With Me, ci inchioda sulle nostre gambe in una stasi contrapposta a un fondale sonoro infestato di suoni e presenze.
Occhi e orecchie però si sintonizzano sulla batteria di Craig che trasforma la tensione di Come Away With Me nel midtempo-seventies-eltonjohn-way di Through The Windowpane, in cui al felice disorientamento del testo (che si inventa anche un semplice “Words can’t express what it means/ And yes I believe you” che potrebbe benissimo descrivere il pop tutto…) si contrappongono le chitarre di Mc Lord che, prima aprono alla The Edge, poi improvvisano una danza singhiozzante sulla tastiera, che prelude all’apertura dei fiati dei cari Bridled Guillemots che sono sempre pronti a far respirare i brani, quando c’è bisogno.

Through The Windowpane

Poi tutto rallenta e si distorce in un caleidoscopio, da cui fuoriesce If The World Ends, settimo brano del disco, che tra batterie spazzolate e una lugubre sirena in lontananza conduce a We’re Here, ottava sosta del nostro viaggio, dove si riprende il pop più pieno ed estatico, con Fyfe che si inventa uno di quei passaggi che vale la storia (minore) del pop, quando esclama, su crescendo di archi e cori che ti cantano in testa il paradiso di Dante:

Yes we’re here
Free to run and cry
Obliged to try
And nothing here’s worth winning without a fight

ma soprattutto quando rallenta (con Craig che rulla in sottrazione) in “When I can’t move” ed esplode di vita e gioia in I’ll enjoy the still for a while And lose myself in waves/ And mountains and the sky and I’m back here quick as lightning

Guillemots - We're Here

Poi, sulle note di un theremin lontano, Fyfe si allontana.

Lo fa per riprendersi da una sbornia troppo piena, si rannicchia e appoggia il suo canto da bambino sofferente su un semplice pizzicato di violoncello: è tutta qui Blue Would Still Be Blu, con il suo pizzicare classicheggiante e Fyfe che canta lontano, perso nel suo melodrammatico dolore, ma che giunge come si trovasse a un centimetro dal tuo orecchio:

E spreco così tanto tempo, pensando al tempo
E dovrei essere là fuori, a reclamare ciò che è mio
Da un giorno all’altro potrei morire, così come sono nato
ma questa porzione nel mezzo è la ragione per cui sono qui
E vorrei solo riempirla piena di gioia
Se avessi te, tutte le stelle non cadrebbero dal cielo e la luna non comincerebbe a piangere.
Il blu sarebbe ancora blu, ma le cose sarebbero più facili con te.

Ci avviciniamo, quasi a voler consolare quel ragazzo che forse prende tutto troppo seriamente, ma lui si schernisce e – con un colpo di scena, quando nessuno se l’aspetta – piazza il capolavoro del disco: Annie, Let’s Not Wait riprende la vitalità pop di We’re Here e la sospinge ancora più in alto tra groove di batteria e contrabbassi gommosi e un MC Lord che, piuttosto che suonare le chitarre, ci si industria su, come farebbe un giocoliere… e poi un pianoforte che puntella le pareti della melodia e dei synth che disegnano zig zag fluorescenti, mandando segnali luminosi in cielo…
Perché nel frattempo s’è fatta notte, la batteria ha allentato le pelli e i cori – seppure si sia in piena Inghilterra – si colorano di Brasile, con cori e un senso della festa che viaggia sul ritmo di una batteria che perde colpi, si scompone e inscena un samba disastrato che collassa su se stesso, come degli OS Mutantes proiettati nello spazio da un theremin fuori sincrono.

Annie, Let's Not Wait

Siamo quasi al finale e se And If All… ne costituisce solo il preludio, è con São Paulo che si giunge al suo compimento. Fyfe indossa per l’occasione il vestito che i suoi gli avevano acquistato per il suo primo concerto da pianista classico. Il destino ha avuto altri piani, che vedono Fyfe prodursi in un finale di quasi dodici minuti in cui si eccita, urla, perde la misura, si sbrodola e rischia costantemente di finire fuori strada, ma in qualche modo imbastisce una specie di musical da Broadway con una melodia lussureggiante, condotta dalle scale di piano e un ritornello che è pura riuscitissima retorica (Sometimes I could cry for miles).
I ragazzi lo seguono, gli lasciano la scena, sanno quando farsi da parte e quando prendere parte al disegno, contribuendo a un pieno che riluce tra le corde vocali del leader, che – sempre più eccitato – sembra un Cyrano che manda a casa i nani, perché per certa rabbia servono giganti:

Trovatemi un dottore
Che si sbarazzi delle mie ossa
Trovami un amante
Che lasci in pace la mia testa
Trovami un soldato
Che mi combatta in questa guerra
Trovami un’uscita
Ho bisogno di una finestra o d’una porta
Trovatemi un avvocato
Che faccia causa al mondo per me
Trovami una persona
Che non sia io
Perché mi sto stancando
Della mia stupida faccia
Perché il mio posto non è qui
Non appartengo a questo posto
Non appartengo a questa corsa di cavalli

C’è tempo per l’ultimo vaudeville dal retrogusto carioca, prima di concludere con ancora più foga fino al collasso finale e a un carillon che conclude il disco. Aleggia un po’ di silenzio, qualcosa rimbomba ancora tra le orecchie.

Wow. Che disco.

Una eco, quella di questo album, che nelle mie orecchie ha proseguito a lungo. Nonostante alla fine con i Guillemots ci si sia persi di vista… Un po’ per colpa loro che nel 2008 pubblicavano il terrificante Red” che partiva con il riffone di grana grossa di “Kriss Kross”, scelto pure come singolo, quasi a voler rivendicare una scelta che ripudiava la capacità di planare con leggerezza su ogni melodia e malinconia. La zavorra sembrava essersi impadronita della sublime uggia e della brina che rilucevano in ogni nota di “Through the Windowpane”.
Andava di gran lunga meglio con Walk The Riverdel 2011 e soprattutto con Hello Landdel 2012, in cui la band cercava di evolversi in qualcos’altro rispetto alle magiche coordinate che avevano reso unico “Through the Windowpane” (coordinate che – per la cronaca – verranno ritrovate brevemente solo nel brano I Don’t Feel Amazing Now, contenuto in “Walk The River”, in particolare nel bridge che – da 2.31 a 3.11 – quando Fyfe comincia a slabbrare il brano, disperdendone il filo in mezzo a cori struggenti e un girovagare tra le pieghe della linea melodica che presto rientra nel ritornello).

I Don't Feel Amazing Now

Ma qualcosa si era forse spezzato. Forse nelle aspettative di tutti noi che avevamo partecipato a quella gita indimenticabile, il cui ricordo faceva sempre capolino, sabotando il nostro apprezzamento.
Dopo “Hello Land” che avrebbe dovuto far parte di una serie di quattro dischi, ispirati alle quattro stagioni, il gruppo si é poi definitivamente arenato (pare che, durante le registrazioni del disco che avrebbe dovuto rappresentare l’estate, la band abbia prodotto una tale quantità di materiale e di stratificazioni sonore da averli dissuasi dal cercare di ritrovare il bandolo della matassa e suggerito di mettere in stand by il progetto…).

Tutto dunque sembra finire qua.

Con Mc Lords che ha abbandonato la band per dedicarsi ad altri progetti e Fyfe che si è rivelato piuttosto dispersivo, pubblicando – dopo un classico disco solista, piacevole ma tutto sommato inutile (Fly Yellow Moon del 2010) – esperimenti che vanno dai brani musicali a corredo della serie “Birdwatcher” (sorta di “surreale mix di musica, canzoni, suoni e personaggi” da seguire in puntate settimanali sul sito del musicista) e, proprio quest’anno,Ludlow (August 2013)disco coraggioso e non privo di una notevole dose di autoindulgenza che mette in fila lunghissime improvvisazioni per voce e piano registrate nel 2013.

Ma cosa resta di quel viaggio che qualcuno di noi (alla fine invero pochi) ha compiuto nel 2006?
Resta un disco intitolato “Through the windowpane” e noi sappiamo bene quale può essere – inaspettatamente – il valore di un disco…
Qualcosa che la sua valutazione su Discogs non potrà mai cogliere davvero (ho appena controllato: una copia con copertina “near mint” va via a 0,45 centesimi…), perché a mettersi in mezzo provvedono le inclinazioni personali.

Per quanto mi riguarda “Through the windowpane” mi ha davvero accompagnato a lungo, adattandosi con la sua peculiare maniera, elastica e sbarazzina, estroversa e introspettiva, ai paesaggi assolati della Sicilia, così come alle nebbie medievali della Romagna, alle giornate uggiose brianzole e a quelle piovose di una Londra estiva pre-Brexit; alle passeggiate in compagnia della mia futura moglie, così come ai pomeriggi spesi in attesa che mio padre terminasse la sua agonia, con Fyfe a rassicurarmi che la bellezza alla fine resiste a tutto e da tutto ci salva.
Perché quando ci si ritrova negli scenari più intensi della propria vita, non serve ascoltare musica che racconta didascalicamente l’inferno emotivo che abitiamo: è meglio farsi inondare di luce.

Guillemots - Up On the Ride