Entro nella bella sala dello Spazio Teatro 89 alle 20,50 circa. L’inizio del concerto è previsto per le 21,00. L’area è stata allestita con delle file di sedie e la sala, immersa nella penombra, lascia subito intendere che non stiamo per assistere a un concerto rock, ma a uno spettacolo che richiederà pace e raccoglimento. Le sedie già occupate sono poche, tanto che riesco a prendere posto in prima fila per me e il mio socio Theline. A circa un chilometro di distanza, allo stadio Meazza, che ho circumnavigato per arrivare, l’atmosfera non potrebbe essere più diversa. Un gioco di opposti che mette a confronto calciatori milionari incitati da una folla di adoratori, con due musicisti che hanno attraversato l’oceano Atlantico armati solo della propria arte per esibirsi di fronte a un pubblico sparuto ma devoto. Considerazioni che spingono subito ad alcune domande: quali motivazioni spingono davvero musicisti come Eric Chenaux e Mary Lattimore? E cosa spinge Marco Monaci del negozio di dischi milanese Volume, nonché chitarrista della storica band Fine Before You Came, a (s)battersi per portarli in Italia, convincendo i ragazzi dello Spazio Teatro 89 a ospitarli? Che cosa infine mi ha smosso dal divano già pronto per la partita del Milan e ha distolto gli altri spettatori (che nel frattempo hanno occupato tutte le sedie) dalla loro vita quotidiana per decidere di venire lì quella sera?
La risposta è scontata, certo: la passione. Ma mi rendo conto immediatamente di quanto sia comunque importante ribadirla e decido già prima dell’esibizione che avrei scritto della serata.
Concerti come questi infatti, vanno ricordati a prescindere del risultato dell’esibizione: raccontarlo agli altri (e a se stessi) è un dovere e un atto di rispetto profondo per tutte le persone che vi sono coinvolte, siano essi protagonisti o sparring partner.
Se poi tutte le componenti si allineano, come gli astri in una costellazione, oltre al valore a prescindere, la serata può diventare memorabile.
E da ricordare é stata senz’altro l’esibizione di Chenaux. Il canadese esce sul palco in maniera felpata quasi come a chiedere scusa e, imbracciata la chitarra, dopo un timido buonasera, fa partire con un iPod d’epoca (!) una base minimale per poi iniziare a cantare. La scaletta verte quasi interamente sul suo ultimo album “Say Laura”, progetto che ribadisce con forza la sua idea di musica. Un’idea che ruota attorno alla contrapposizione tra due elementi: da una parte la canzone autoriale adagiata su una voce vellutata, che ricorda certe inflessioni di John Martyn, così come fanno alcune delle linee melodiche che Chenaux porge con grazia ai suoi ascoltatori; dall’altra una controparte strumentale di spirito avant basata sulle dissonanze della chitarra, spesso manipolata da effetti e pedaliere, che forniscono un caratteristico effetto di “scordatura” alle note dello strumento. Una musica non certo facile da trasferire in dimensione live, con un set voce e chitarra elettrica, decisamente ostico da proporre. Chenaux però riesce a ipnotizzare il pubblico con le basi per lo più metronomiche e minimali e con le linee vocali che da filo conduttore vengono poi stravolte da stranianti variazioni e dissonanze chitarristiche.
Uno dei brani migliori del concerto è “Say Laura”, title track dell’ultimo album, dove melodia e dissonanza più che contrapporsi si intersecano fino a sintetizzarsi paradossalmente in flusso consonante. Il momento più alto, però, è costituito senz’altro da “There they were”. Il brano ripercorre dapprima il classico canovaccio di Chenaux, per poi fiorire in una seconda parte catartica, dove l’artista ripete numerose volte come un mantra, una strofa che sembra durare all’infinito, accompagnandolo con assoli di una chitarra scintillante, che per una volta abbandona le dissonanza e abbraccia un suono liquido ed estatico. Il brano termina con il mantra vocale ripetuto alcune volte senza alcun accompagnamento, nel perfetto silenzio del pubblico, che alla fine irrompe con un applauso scrosciante e sentito.
Se vogliamo trovare un difetto all’esibizione, ma in generale alla musica del canadese, è quello di essere a tratti monocorde, in parte a causa di una voce aggraziata che però insiste forse troppo sugli stessi stilemi, ma anche per via del ricorso, massiccio e forse esagerato, ai medesimi effetti chitarristici. Un particolare che però passa in secondo piano rispetto all’intensità e all’intimità dell’esibizione, che rimane senz’altro impressa nella memoria e non solo del pubblico presente.
Le immagini di Chenaux che raccoglie velocemente le sue cose da solo, per prepararsi a ripartire il giorno seguente per tornare a casa, riassumono perfettamente il senso e l’atmosfera della serata.
E’ la volta poi dell’arpista Mary Lattimore, che sul palco si dimostra decisamente più spigliata ed estroversa di Chenaux fornendo un contrasto di atmosfera che si dimostra efficace per la riuscita della serata. L’artista americana dedica canzoni ad amiche, ricorda i tempi lontani nei quali aveva studiato a Milano e soprattutto condivide con il pubblico l’emozione di suonare una pregiatissima arpa di Salvi, famoso liutaio di Milano, che la Lattimore sottolinea non si potrà mai permettere di acquistare in vita sua.
La musica della Lattimore da una parte si dimostra decisamente diversa rispetto a quella di Chenaux, fondandosi sulle note scintillanti e luminose dell’arpa ma condivide con essa invece l’aspetto ipnotico. L’artista infatti si divide tra le corde dell’arpa e le manipolazioni e le stratificazioni sonore create live con una loop station. La moltiplicazione dei pattern dona alla musica un effetto di trance estatica, riuscendo così non solo a incantare il pubblico, ma anche a sfuggire alla trappola di un suono di stampo “new age”, della quale uno strumento come l’arpa rischia di essere facilmente vittima.
E’ quasi un peccato isolare dei brani nella splendida esibizione, ma vogliamo ricordarne due il minimale crescendo di “Silver Ladders”, title track dell’ album del 2020 prodotto da Neil Halstead , di Slowdive e Mojave 3, ma soprattutto la lunga “Till a Mermaid drags you under”, dove le stratificazioni sonore progressive conferiscono alla melodia iniziale un’atmosfera arcana e mesmerica che rapisce gli astanti. Una sorridente Lattimore esce velocemente dal palco dopo un bis, forse ancora in preda all’emozione di aver realizzato il sogno di suonare un’arpa così prestigiosa.
Il pubblico, soddisfatto per una serata intima e coinvolgente con i suoi chiaroscuri dati dalle differenti musiche e personalità dei due artisti, lascia lentamente la sala per dirigersi verso casa, mescolandosi nelle strade ai reduci della partita di San Siro dove le due situazioni, così opposte tra loro, finalmente tornano a riassorbirsi nella vita quotidiana.
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