Credo che siano in pochi a non ritenere Jeff Tweedy uno dei più grandi songwriter viventi, così come non credo siano in molti a non considerare i Wilco una band formidabile e praticamente perfetta.
Eppure…
Eppure da un po’ di tempo a questa parte si aveva come la precisa sensazione che qualcosa non andasse.
Che si fosse perso lo smalto migliore…
E ciò nonostante la band di Chicago schierasse una formazione, consolidata ormai da circa venti anni, che in occasione delle varie comparsate riusciva sempre a strappare applausi a chiunque, finendo allo stesso però per ricordare quei talenti sportivi che, certi di avere già la vittoria in tasca, limitano al minimo gli sforzi, concedendo giusto un paio di guizzi per i fan innamorati.
Una formazione che si era stabilizzata a partire dalla tournée di “A Ghost Is Born” e che probabilmente a nostro giudizio non ha mai davvero espresso tutto il suo potenziale. L’album che più c’era andato vicino era stato il primo parto in studio, “Sky Blue Sky”, che aveva rappresentato la calma dopo la tempesta e il tormento di “Yankee Hotel Foxtrot” e “A Ghost is Born”, ma che restava indeciso tra il disco di ballate (davvero vicine alla perfezione) e brani più rock meno significativi, se si eccettua la fenomenale “Impossible Germany” che con il micidiale assolo di Nels Cline e il finale di twin guitars sarebbe poi diventata l’emblema dei Wilco nella propria dimensione live, divenuta con gli anni tanto spettacolare quanto a rischio di (divina) prevedibilità. L’album successivo, l’omonimo “Wilco (The Album)”, aveva proposto un distillato della musica dei Wilco, senza cali di qualità o riempitivi ma risultava un po’ troppo telefonato. Il primo brano del successivo album, “A Whole Love”, “Art of Almost” aveva fatto drizzare i capelli con la commistione inedita tra il classico stile della band di Chicago, pulsioni kraute, impennate noise e inserti elettronici. I brani seguenti, pur buoni come sempre, non aggiungevano però molto al canone del gruppo, almeno fino all’ultimo e inatteso sussulto di 11 minuti, rappresentato da “One Sunday Morning”: un lungo brano di folk circolare dal sapore dylaniano con arrangiamenti delicati e calibrati alla perfezione. Insomma con questi due piccoli capolavori, davvero all’altezza dei Wilco migliori, era lecito ben sperare per il futuro… Purtroppo però arrivarono due dischi “solo” da 7 (sono sempre i Wilco in fondo) e un po’ tirati via come “Star Wars” e “Schmilco”.
Nel frattempo il sestetto era diventato probabilmente il più grande spettacolo rock in circolazione, grazie a show che deliziano i fan con veri e propri greatest hits, scalette che cambiavano ogni sera, dosi di virtuosismo, battute di Jeff Tweedy e singalong che coinvolgono tutta la platea in un rituale di festa. Tutto bellissimo (io andrei a vederli ogni mese se potessi) ma con il passare del tempo anche un po’ troppo “facile” e con un retrogusto di insoddisfazione rispetto a ciò che avrebbe potuto essere.
D’altronde chi ha letto la bella autobiografia di Tweedy “Let’s Go (So we can get back)” lo ha capito. Jeff ha sempre tirato fuori il meglio di sé quando ha avuto qualcosa o qualcuno con cui scontrarsi: prima la rivalità con Jay Farrar, poi la voglia di dimostrare di essere ben più del cantante di un gruppo alternative-country. E ancora: l’antagonismo con l’altro Jay, Bennett, la lotta contro la dipendenza dagli antidolorifici, passando per le contese con la casa discografica. Non dovrebbe dunque sorprendere più di tanto constatare come, quando, dopo “A Ghost is Born”, raggiunta finalmente una certa pacificazione interiore, Tweedy si era ritrovato tra le mani la band perfetta (tra l’altro immortalata in un uno dei migliori dischi live di inizio millennio, “Kicking Television”) aveva finito per utilizzarla, più che come un gruppo con cui spingersi ai limiti del proprio talento, come una formazione con cui fare musica di qualità senza troppi tormenti e pericoli. Una band con cui conciliare la vita artistica e la serenità della vita quotidiana.
Qualcosa però negli ultimi anni sembra essere cambiato. Nel 2019 il gruppo di Chicago ha pubblicato ”Ode To Joy”, un album prezioso (a nostro avviso il migliore dai tempi di “Sky Blue Sky”) ma soprattutto importante perché testimonia finalmente in Jeff la voglia di uscire dal proprio pensionamento dorato e di tornare a rischiare.
Un disco nel quale veniva evitata accuratamente ogni forma di spettacolarità, a favore di una musica all’insegna dell’understatement; in cui si imponeva a Glenn Kotche un drumming minimale e scheletrico e lo si sfidava a dimostrare il proprio talento con meno tocchi possibili. Uno spirito “olistico” di autolimitazione che aveva finito per contagiare l’intera formazione e in particolare quel Nels Cline che, smessi i panni di guitar hero sonico, aveva lavorato in maniera minimale e funzionale alla squadra. Se aggiungiamo canzoni molto spesso dimesse, interpretate con un filo di voce da un magistrale Jeff e una produzione scarna e spaziosa, lontana dal suono pieno e lussurioso degli ultimi dischi, quello che era venuto fuori era un album che, per la sua natura fantasmatica, sembrava quasi il perfetto seguito a distanza di anni di “A Ghost is Born”.
Al di là dei giudizi sul disco (invero piuttosto divisi e mediamente tiepidi), quello che risultava evidente era la voglia della band di uscire dalla comfort zone in cui si era, ormai da parecchio tempo, rifugiata e di riconnettersi idealmente al filo spezzatosi quasi 20 anni prima.
La curiosità e le aspettative che tale mossa aveva generato ha però rischiato di subire un’immediata delusione già al momento dell’annuncio della pubblicazione del disco successivo: un doppio album “country” che sembrava avere il sapore del più classico passo indietro.
Fortunatamente ci si sbagliava di grosso; innanzitutto perchè si tratta davvero di un ottimo disco, ma soprattutto perchè, al di là delle enormi differenze di scrittura e di generi musicali, “Cruel Country”non rappresenta un passo indietro, ma anzi si dimostra un album figlio anche delle scelte che avevano portato alla creazione di “Ode To Joy”.
Le canzoni del disco sono state scritte da Jeff durante la pandemia, ma hanno preso forma in studio insieme alla band che, per la prima volta dai tempi di “Sky Blue Sky”, ha suonato e registrato i brani in presa diretta con poche sovraincisioni in fase di post produzione. Questo ha conferito all’album un’impronta collettiva, dando la possibilità a ogni componente di dare il proprio contributo nel modellare la forma delle canzoni. Una forma che sa farsi sostanza, assumendo esattamente la veste cui i brani sembravano destinati fin dal momento in cui erano venuti fuori dalla penna di Tweedy..
Gli arrangiamenti orchestrati dalla band paiono mettere a frutto in maniera naturale quel processo di auto sottrazione sperimentato durante le session dell’album precedente. Pur nel contesto di una produzione decisamente più corposa rispetto a “Ode To Joy”, si nota in tutto l’album una tendenza a costruire le canzoni con il minimo necessario, lontano dalla stratificazione e spettacolarizzazione della quale talvolta nel passato la band era stata vittima.
Parliamo quindi di una continuità più di spirito e attitudine che di fatto.
Prendiamo ad esempio “The Empty Condor”, dapprima costruita attorno a pochi elementi (una chitarra, un organo in secondo piano e la voce quasi spezzata) e che decolla nella seconda parte grazie a un drumming minimale di Kotche e a delle sovraincisioni di tastiere e chitarre perfettamente misurate; oppure la desolazione scheletrica di “The Plains”, avvolta in un’atmosfera spettrale di rumori statici.
Si diceva in precedenza che l’album era stato annunciato come il disco country della band. L’affermazione si dimostra veritiera solo in parte: più che di country, che comunque troviamo in parecchi brani, appare più corretto parlare di album roots o di un’americana che, rinuncia del tutto alla componente rock, oscillando tra la ballad e dei midtempo che non prevedono grandi accelerazioni. Gli album più affini dal punto di vista musicale sono “Sky Blue Sky” e “Being There” senza però, ad esempio, le folate rock del primo o l’enciclopedismo del secondo.
Anche se ovviamente da un autore del calibro di Tweedy ci si attende sempre un livello di scrittura alto, in questo caso Jeff riesce nuovamente a sorprendere: “Cruel Country” è composto da ben 21 brani di notevolissima fattura, senza ombra di cali o riempitivi. Paradossalmente si potrebbero togliere diversi brani in maniera casuale senza che la qualità ne risenta.
E’ veramente sorprendente e quasi paradossale come Tweedy riesca a giocare con i propri topoi, in modo da tirarne fuori canzoni capaci di suonare per l’ascoltatore da un lato confortevoli e note e dall’altro del tutto fresche e da scoprire! Provate per credere brani come “Hearts Hard to Find”, “Hints” o “Tired Of taking out on you” che mostrano come Jeff abbia raggiunto un traguardo in cui però contribuisce in egual misura l’apporto della band e la sinergia tra i due elementi. Come avviene ad esempio nella title track “Cruel Country”: dove il classicismo del brano viene riscattato da stanchezza e noia proprio in forza del trattamente riservato dalla band con piccoli e quasi impercettibili tocchi come l’utilizzo del classico “clip clop” di marca Wilsoniana (nel senso di Brian) o di un’aliena pennellata di pedal steel effettata capace di far emergere l’inquietudine sottopelle evocata dal testo.
Il titolo dell’album gioca con l’ambivalenza del termine country, inteso sia come nazione che come genere musicale e diverse sono le canzoni che rispecchiano i canoni della tradizione. Della title track abbiamo già detto, ma vanno citati anche l’incipit fornito dal valzerone di “I am my mother”; il mid tempo di “Falling apart” che in altri tempi avrebbe potuto diventare un fulminante rock’n’roll; il vivace country-folk di “A lifetime to find”, in cui sembra di tornare ai tempi di “Mermaid Avenue” e infine una“Please Be Wrong”, con la quale Tweedy porge un omaggio alla tradizione delle ballate country più malinconiche, e la già citata “The Plains”, che chiude il disco con un altro valzer tra country e cantautorato.
E’ dura comunque non segnalare tutti i brani perché ciascuno ha qualche spunto per il quale si fa ricordare: difficile tralasciare ad esempio lo scintillante soul sincopato di “Tonight’s The day” o dimenticare “All Across The World” con il suo piano squillante e un ritornello maestoso e implacabile. E come non parlare di “Darkness Is cheap” e della sua tromba che evoca fantasmi beatlesiani, di “Ambulance” con un Tweedy sulle orme di Woody Guthrie come ai tempi di “Mermaid Avenue” o dell’arrangiamento magistrale a base di chitarre scintillanti e archi pizzicati di “In a sad kind of way”. E possiamo non citare “Mystery Binds” con il suo andamento obliquo e straniante o “The Universe”, accarezzata da folate di mellotron alla “Summerteeth” che riportano inevitabilmente il pensiero a Jay Bennett?
Per non farsi mancare niente ci sono anche due brani più lunghi e bipartiti. La lieve e sfuggente ”Bird Without a Tail/ Base of My Skull” contiene al suo interno un crescendo sognante ed evocativo e “Many Worlds”: brano meraviglioso, che evoca classici della band come “Reservations” o “Less than you think” con le sue atmosfere dilatate, la melodia sofferta e le scariche statiche a perturbare il tutto, per poi esplodere in maniera soffice nella coda strumentale dal sapore epico e cinematografico dove la band mostra tutta la propria maestria senza mai strafare.
Dunque se la grande rentrée dei Wilco era più o meno attesa da tutti come un ritorno a quel territorio tra tradizione e sperimentazione che aveva prodotto i due album più acclamati, la band invece ha sorpreso tutti riducendo programmaticamente il proprio raggio d’azione. Nonostante ciò riesce a far emergere la propria forza espressiva in un contesto sonoro apparentemente limitato, come quello della musica roots. La scrittura straordinaria e sempre più matura di Tweedy fa sintesi con la capacità del resto della band di coglierne l’essenza con una nota o uno svolazzo in meno piuttosto che in più, rinnovando in maniera “morbida ed elastica” la forma canzone tra tradizione e modernità, paradossalmente senza apportare innovazioni visibili.
* * *
Vogliamo infine parlare brevemente dei testi che, come al solito, in Tweedy sono una commistione inestricabile tra vita vissuta, riflessioni e “storie da raccontare”, proprio come quelle della canzone omonima “Story To Tell”: il testo colpisce soprattutto per la adamantina sincerità e per il candore con i quali Jeff condivide e praticamente riassume il senso della sua autobiografia in una canzone.
I’ve been through hell
On my way to hell
I only fought with myself
So I’d have a story to tell
The world is always on the brink
And love is dumber than you think
Singing songs of death and doom
With all the voices inside of you
….
Once I started a war
But I don’t fight anymore
I held the line until the old oak fell
I was left behind
With a story to tell
Se in passato, per avere una storia da raccontare, l’autore aveva bisogno di“combattere contro chiunque”, procurandosi ferite e traumi da poter poi raccontare, forse non si stava facendo altro che combattere contro se stessi, non confidando nella propria profondità e nella propria capacità di scrivere.Adesso, raggiunta la maturità, l’autore trova dentro di sé le storie da raccontare… o forse é proprio la maturità, raggiunta grazie anche a quei traumi, a essere diventata la storia definitiva da raccontare…
Insomma un brano che tocca nel profondo come solo i grandi artisti sanno fare e che ricorda il “gospel laico e umanistico” di Bill Fay, di cui Jeff è un grande ammiratore.
Un altra canzone dove Tweedy si offre come un libro aperto è “Country Song Upside Down”, porgendoci in dono l’assoluto mistero dell’ispirazione che percorre sentieri misteriosi e risale nuotando “in direzione ostinata e contraria” le correnti dell’anima e dell’ego, mettendo alla prova le certezze dell’autore.
I found a song upside-down
A country song, like a trout
Dying sky and water
Rainbow flickering out
The more moonlike I become
Rounding all of my edges
‘Cause I’m worried
It can’t be sung
It goes
Like this
Infine vogliamo accennare ai pochi ma ficcanti versi di amore (o sull’incapacità di odiare) che Tweedy dedica alla sua terra, la “Country” del titolo proprio nella title track:
I love my country
Stupid and cruel
…
All you have to do is sing in the choir
Kill yourself once in a while
And sing in the choir
With me
Con un pugno di parole, l’autore riesce a mettere in evidenza una delle più grandi contraddizioni a stelle strisce ovvero quella tra la libertà di critica e di parola e l’intoccabile patriottismo di fronte al quale alla fine ogni buon americano si arrende, rinunciando di buon grado alle proprie istanze per “cantare nel coro” le lodi del buon vecchio Zio Sam.
Insomma i Wilco ci hanno regalato il sussulto che tutti attendevano, ma nel quale pochi speravano, regalandoci un disco lungo ma che si ascolta e riascolta senza fatica, molto più denso e pregnante di quello che il contesto “leggero” potrebbe far pensare. Un album che mostra un autore ormai maturo e pacificato, pronto forse per un ulteriore rilancio della propria autorialità, supportato da una band che finalmente riesce a esprimere tutte le proprie potenzialità, percorrendo una strada inversa rispetto a quella più ovvia e facile. Chissà che questa scossa non si riverberi sull’esperienza live della band: a quel punto le band rischierebbe veramente di sfiorare la perfezione…
Sono rimasto come ipnotizzato e attaccato a questa lettura nella magnifica recensione dell’arte che i Wilco conoscono e sanno fare.
Tweady ne ha fatta di strada e per fortuna è stato capace di rinnovarsi.
L’ultimo disco dei Wilco è esattamente così. Lo si può ascoltare più volte senza mai annoiarsi, ed è uno scrigno pieno di sorprese.
Mi auguro che la band resti legata alla semplicità delle cose da dove si può costruire un futuro infinito…