Se c’è una cosa dei concerti rock che mi fa capire quanto sono diventato “vecchio”, oltre alle “orde” di ragazzini che mi circondano, è la mia insofferenza verso i volumi “insensati” che spesso vengono proposti nei live. E la beffa è che non posso neanche ricorrere al famigerato “ai miei tempi…” del perfetto vecchio brontolone, perché anche allora i volumi facevano spesso e volentieri sanguinare le orecchie.
Coincidenza vuole che, dopo la pace acustica e l’estasi sonora del concerto del trio di Bill Frisell e i volumi moderati dell’esibizione dei Van Der Graaf Generator (che bel concerto: mi sentivo giovane in mezzo a tutte quelle teste canute…), i due seguenti concerti cui ho assistito siano stati entrambi contraddistinti da decibel a profusione. Mi riferisco al live dei Black Midi dell’11 maggio al Santeria di Milano e a quello dei Motorpsycho del 15 maggio al Live di Trezzo sull’Adda (MI). Il volume elevato è però la sola cosa in comune tra le due esibizioni.
E vorrei anche vedere, potreste giustamente dire, come si fa ad accostare un trio di giovani e ipertecnici londinesi, pure un po’ fighetti, con una band di capelluti norvegesi che ha sulle spalle più di trent’anni di concerti in giro per il mondo?
Ma se, in effetti, il paragone proprio non esiste, si possono però scorgere dei parallelismi che possono servire almeno in parte a spiegare perché la band inglese mi abbia profondamente deluso, mentre i cosmonauti hard scandinavi mi abbiano invece (ancora una volta) pienamente soddisfatto.
Partiamo proprio dal volume che fuoriusciva dall’impianto: come detto in apertura in entrambi i casi era veramente elevato, ma l’effetto finale è stato molto diverso. Nel caso dei Motorpsycho ha rimarcato la pesantezza del suono (con il basso di Bent Saether distorto, suonato a plettrate a mò di chitarra elettrica a dispensare bassi da oltretomba), coadiuvando lo straniamento psichedelico (con le svisate al rumore bianco di Snah o gli intrecci delle chitarre con l’ospite d’eccezione Reine Fiske), mentre nel caso dei Black Midi ha creato un muro granitico di suono. Una decisione apparsa però infelice, anche perchè il missaggio e l’equalizzazione ipercompressa hanno finito per produrre un suono impastato che annullava le stratificazioni e le sfumature di basso, chitarra e tastiere sovrastate dalla tonitruante batteria di Morgan Simpson. Mentre sulla base delle precedenti esperienze sappiamo che questo tipo di amplificazione è un marchio di fabbrica dei Motorpsycho, non ci è dato sapere se il suono che abbiamo sentito al Santeria sia stato frutto di scelte del fonico o piuttosto di un’indicazione ricevuta dalla band, ma in ogni caso il risultato è stato quello di un appiattimento sonoro che ha livellato fino quasi a far scomparire la complessità armonica e melodica della musica dei Black Midi, che ha finito per apparire per lo più come una serie di composizioni schizoidi dal punto di vista ritmico con esplosioni di sax del pur bravo Kaidi Akinnibi, ma che terminano – in maniera sempre piuttosto simile – in una sorta di caos controllato.
E’ un peccato perché avremmo voluto sentire come si deve i sei brani tratti da Hellfire, prossimo album in uscita a luglio, proposti in anteprima. Anche perché il nuovissimo singolo Welcome To Hell sembra essere una promettentissima ulteriore rifinitura di quanto di buono avevamo già ascoltato in Cavalcade dello scorso anno (di cui abbiamo parlato QUI). E dispiace anche perchè pur in questo muro sonoro quasi indistinto siamo riusciti a veder confermate, anzi migliorate, le buoni impressioni a proposito del cantato del chitarrista Geordie Greep.
Un cantato che, per tornare ai Motorpsycho, non è mai stato la cosa più importante nei live dei norvegesi. Gli spettatori si aspettano ben altro che la buona esecuzione di una canzone; sono pronti per partire per un vero e proprio viaggio nell’ignoto, con una scaletta che varia di sera in sera, attingendo da una ormai sterminata discografia che, a dispetto di qualche fisiologico momento di stanca, non smette di alimentare le scalette e le interminabili jam del terzetto, capaci di travalicare la bontà o meno del brano da cui traggono il punto di partenza.
Una cosa che impressiona nelle esibizioni della band, oltre all’affiatamento quasi telepatico, è la capacità di costruire un set dinamico fatto di momenti fragorosi alternati a episodi di quiete quasi totale, di divagazioni psichedelico ora liquide (come nel caso della jam in Little Lucid Moments) ora ottundenti (l’hard rock al fulmicotone di Whole Lotta Diana), di momenti estatici (il crescendo del bis Fools Gold) o trascinanti (la cavalcata alla Dinosaur Jr. di No Evil) come viaggi nella paranoia (il caterpillar sabbathiano di The Wheel). Questo permette ai norvegesi di tenere incollato il pubblico per ben 2 ore e 45 di concerto senza momenti di stanca ma anzi con la voglia di volere ancora musica (tranquilli sarà per il prossimo anno, pandemia permettendo, vista la puntualità svizzera della band).
Ed è proprio questa dinamica, questo alternarsi di forte e piano che trovo sia mancato nell’esibizione dei Black Midi. Il trio inglese ha proposto un set incendiario mono-tono con brani strutturati tutti in maniera piuttosto simile basato sull’impatto a discapito delle invenzioni sonore che dovrebbero essere il loro fiore all’occhiello. Un concerto che ha travolto il pubblico più interessato a vivere la dimensione fisica del live e del pogo sotto palco; scelta ovviamente legittima ma che sembra fare torto al variegato talento della band.
A proposito di talento, entrambi i concerti hanno proposto due batteristi dalla bravura tecnica eccezionale: Morgan Simpson è davvero impressionante, uno schiacciasassi del ritmo che si muove però con la velocità di un aereo supersonico. La sua potenza e il suo ritmo sono di un parossismo controllato che pare impossibile, ma invece si materializza proprio davanti a te. Ma ancora una volta il problema sembra quello della dinamica: Simpson procede sempre a tutta velocità e con una violenza che non va mai a scapito della precisione, ma nei momenti di quiete il suo drumming non risalta, quasi che facesse il suo dovere solo nell’attesa di esplodere nuovamente, come la star più brillante del gruppo.
Il batterista dei Motorpsycho, lo svedese Tomas Jarmyr (entrato nel 2017 a sostituire l’ottimo Kenneth Kapstad) invece dimostra il proprio talento mettendosi al servizio della squadra e svolgendo il ruolo di motore ritmico: trascinante quando il gruppo accelera, pesante quando la musica diventa stoner denso ai confini col doom, ma anche agile nello scomporre i ritmi quando le trame strumentali si liquefanno in maniera psichedelica.
Infine sappiamo che la musica non si misura in termini quantitativi e non si può paragonare una band con cinque anni di vita e tre dischi in canna, con un gruppo con più di 30 anni sul palco e 25 album sulle spalle, ma c’è un dato statistico che colpisce.
I Black Midi hanno proposto 14 brani senza bis per un’ora circa di concerto, mentre i Motorpsycho hanno suonato 13 brani, bis compreso, per un set di 2 ore e 45. Ripeto niente bilancino e la generosità nel darsi al pubblico dei Motorpsycho è ben nota nonché quasi unica (almeno da questa sponda dell’Atlantico); ma anche non facendo paragoni scomodi, un live di 60 minuti non depone certo a favore del coinvolgimento della band nei confronti del pubblico. Pur non avendo personalmente mai amato la pantomima del dentro-fuori dei bis, dopo un’esibizione di così breve durata, la scelta del gruppo di negarsi è sembrata quasi irrispettosa.
Insomma se in queste righe non nascondo di certo la mia ammirazione per i Motorpsycho, che rappresentano uno dei live act più importanti in assoluto quando si parla di rock psichedelico con tendenza alla jam, le parole sui Black Midi saranno senz’altro sembrate (ed effettivamente lo sono) molto severe. La mia intenzione però non è certo quella di fare il brillante stroncatore, ma anzi quanto espresso nasce proprio dal mio apprezzamento verso la loro musica e per il percorso che la loro discografia sembra disegnare. Per questo le mie aspettative (rinforzate anche da live visti su youtube) erano piuttosto alte e quindi anche la delusione risulta forse più grande di quando l’esibizione realmente meriti.
Visto però che quello della band londinese sembra un percorso di crescita artistica in divenire e frutto di un reale talento, non dubito del fatto che con il passare del tempo anche la dimensione live mostrerà quella maturazione intravista nelle incisioni in studio. Insomma la prossima volta sicuramente concederò ai ragazzi una seconda occasione, magari con un paio di tappi per le orecchie dietro…
Per quanto riguarda i Motorpsycho invece l’appuntamento è già al prossimo concerto ormai diventato una piacevole consuetudine, sempre uguale ma sempre diversa.
Per una volta sarò felice di farmi sommergere da un volume esagerato. E magari mi sentirò pure meno vecchio….
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