“To Billy, this album is for you, love Paul”
Con queste parole scritte all’interno del booklet, Paul Haig dedicava Memory Palace all’amico di sempre, Billy Mackenzie, scomparso da alcuni anni proprio in quei giorni. Una dedica perfetta per introdurre un disco che racconta molto: un’amicizia, il lascito di una scena musicale, una particolare attitudine all’arte e alla vita e, infine, un risarcimento artistico postumo e mai riscosso.
Memory Palace è un disco intestato a due mancate star del pantheon britannico, due scozzesi che avrebbero potuto, ma che non hanno mai raccolto, per ragioni differenti, il successo che avrebbero meritato: da un lato il cupio dissolvi di Billy Mackenzie, leader degli Associates e cantante tra i più dotati della storia della musica britannica, e dall’altro la ridotta soglia dell’attenzione di Paul Haig, leader dei Josef K e successivamente dispersivo solista incapace di capitalizzare il proprio duttile talento.
Il disco viene pubblicato per la prima volta nell’agosto del 1999 dall’etichetta personale di Haig, la Rhythm Of Life Records. Non ha di fatto distribuzione ed è acquistabile solo sul sito web del cantante. Billy non c’è più da due anni, da quando il 22 gennaio 1997 viene trovato morto dal padre, dopo essersi scolato una bottiglietta intera di paracetamolo assieme agli antidepressivi che assumeva.
Il lavoro viene a un certo punto ritirato dalla vendita, per poi venire ristampato in maniera più ufficiale nel novembre del 2004 dalla One Little Indian. Inutile dire che entrambe le incarnazioni del disco passeranno praticamente sotto silenzio e saranno davvero in pochi a curarsene.
D’altronde perché prestare attenzione alle registrazioni di due ex-popstar degli anni ottanta, che tra il 1993 e il 1995 di tanto in tanto amavano vedersi a casa di uno dei due (Haig) e buttare giù canzoni, giocando con i suoni del momento, nella (privata) consapevolezza di essere due fuoriclasse?
Si trattava di session in cui i due giocavano a Doctor Jekyll e Mr. Hyde, con il primo ruolo interpretato da un Paul Haig responsabile delle pozioni sonore, dei campionamenti, delle ritmiche elettroniche e di tutti gli strumenti acustici, e il secondo da Billy – Hyde lussurioso, irrazionale e dionisiaco – che si occupava di mettere in musica il sogno libidinale di una grandezza che per essere tale doveva connotarsi come voluttuosamente decadente, fino a giungere a quei lidi in cui sublime e grottesco si confondono.
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“Billy era la mia anima gemella, fuori di testa ma in senso buono. Un personaggio davvero eccentrico! Cominciammo a diventare amici davvero perché i Josef K e gli Associates suonavano insieme così tante volte. C’era un programma ogni venerdì presentato da questo cantautore terribile, B.A. Robertson. Non sono sicuro che fosse trasmesso a livello nazionale, forse era solo in Scozia. E una volta c’erano ospiti gli Associates, Billy con addosso un’uniforme da marinaio e Alan con la chitarra acustica in playback, e fecero “Party Fears Two”. Dopo la canzone B.A. Robertson chiese “Billy, sei un cantante talmente bravo, ma chi è il tuo cantante preferito?”. E Billy rispose “Paul Haig”. Non riuscivo a crederci. Non so cantare per un cazzo ed ecco Billy che dice che sono il suo cantante preferito”.
Entrambi scozzesi, Paul di Edimburgo, Billy di Dundee, i due musicisti si erano conosciuti al tempo in cui, giovani star del post punk britannico, si pensava potessero conquistare il mondo. Non erano questi i piani della storia con la S maiuscola, che li vedeva piuttosto come “occasioni mancate”, “futuri non realizzati” o, nel migliore dei casi, “precursori”. Se di Billy abbiamo già parlato QUI con il buon Sirbilly (di cui peraltro raccomandiamo la lettura del bellissimo articolo su “Outernational”), di Paul Haig si legge davvero poco in giro. Cosa che non deve dargli troppo fastidio se consideriamo come tutta la vicenda del musicista scozzese sembra perseguire la volontà di sottrarsi e non apparire.
E ciò fin dalle prime esperienze alla guida di quei Josef K che, assieme agli Orange Juice, avrebbero dovuto rendere milionaria la Postcard Records, finendo però per donare soltanto l’aura mitica che ancora oggi circonda l’etichetta discografica. Il suono dei Josef K, che un fan e supporter come Paul Morley descrisse come “four shadows in search of a sunny day”, era qualcosa a metà tra le chitarre stridule e il tono alieno e alienato dei Television, le spigolosità ritmiche dei primi (e degli ultimi) Talking Heads, un’ispirazione tutta mitteleuropea nei testi (a partire dal nome prescelto che richiamava ovviamente “Il processo” di Kafka) e l’ombra di Ian Curtis a fare capolino qua e là (soprattutto in uno dei loro pezzi migliori: quella It’s Kinda Funny dedicata proprio alla morte del cantante dei Joy Division).
Ma se i presupposti per il successo c’erano tutti, i ragazzi – appena ventenni, inesperti e insicuri o, come direbbero loro, “Young and Stupid” – finiscono per autosabotarsi, registrando dapprima un esordio intitolato “Sorry for Laughing”, che – reo alle loro orecchie di essere “troppo pop” (precisamente: “flat and disinfected”) – viene ri-registrato in maniera più raw, con una scaletta quasi del tutto differente e il nuovo titolo di “The Only Fun In Town”. Siamo nel 1981 e la mossa del doppio disco finisce per generare confusione, ridimensionare l’attesa generata da una serie di singoli formidabili e scontentare un po’ tutti: dai fan del lato più rock della band, ai sostenitori della componente più pop. Tra questi troviamo il già citato superfan (nonché influente critico musicale) Paul Morley, il quale non desiste e continua a voler investire su Paul poiché lo vede (in compagnia di Jim Kerr, Marty Fry e proprio Billy Mackenzie) come “l’enigmatico quarto uomo” del cosiddetto New Pop britannico. Nuova cordata musicale che avrebbe dovuto ingrossare, colorare e dunque superare il suono plumbeo e minimale del post-punk, riversandosi sulle classifiche britanniche e dando vita a una rivoluzione che facesse della superficialità la nuova profondità e delle nuove soluzioni tecnologiche un modo per essere allo stesso tempo futuristici e modaioli (proprio Morley dirà anni dopo che si trattò più di una questione di stile che di contenuto, “ma in realtà il contenuto non mancava, solo che era tutto nello stile”). Il New Pop sembrava voler attuare una sorta di chiusura del cerchio, riportando in classifica un edonismo glam arricchito dalla componente arty e dal situazionismo post-punk; nella musica di Haig l’adesione a questa scena sembrava soprattutto una maniera di risalire in superficie, per evitare che la discesa nei meandri dell’esistenzialismo più decadente e depresso divenisse, da meramente intellettuale, pericolosamente concreta (Ian Curtis docet).
“Ero quasi anoressico. Scesi a meno di 50 chili e sono alto un metro e ottanta. Ero depresso e non mangiavo molto. avevo la mania di controllare le calorie e tutto quello che mangiavo… in quel periodo stavo svanendo nel nulla”
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Chiusa la vicenda dei Josef K, Paul Haig si ritrova dunque a essere un giovane di belle speranze che però sembra solo voler scomparire in mezzo alla propria musica (come avviene nella prima cassetta autoprodotta a suo nome, “Drama”, in cui – dispersa tra fondali noise e industrial – la sua voce si limita a leggere pagine dell’amato Kafka), mentre tutti intorno vorrebbero apparecchiargli una carriera da pop star.
“La cosa paradossale è che non ho mai voluto essere al centro del progetto. L’idea iniziale era quella di lavorare con diverse persone sotto il nome di Rhythm Of Life. Ma la Island voleva un’immagine pop da vendere… ma non la trovò.”
Dopo i Josef K, Haig approda alla belga Le disque du crepuscule (il rapporto con la Postcard non era mai decollato, con Alan Horne che gli aveva sempre preferito gli Orange Juice di Edwyn Collins, considerati più pop e meno problematici) e decide di prestare la sua voce da crooner, che vorrebbe somigliare, parole sue, a Frank Sinatra (ma che piuttosto si pone a metà tra il Lou Reed più glaciale e l’Iggy Pop post Stooges) al servizio della sigla Rhythmn Of Life. L’idea sarebbe quella di creare un nome dietro il quale far confluire il talento di più musicisti, ma in breve Rhythmn Of Life diviene appannaggio del solo Paul, al punto da diventare il titolo del suo primo vero disco solista del 1983. Complice l’hype generato dalla stampa che ha grandi aspettative (il solito Morley lo elegge “the face and sound of 1982” mentre il Melody Maker premia il suo taglio di capelli a spazzola ossigenato come “haircut of the year”), di Haig si interessa nientemeno che la Island che dovrebbe distribuirne il disco d’esordio. Il lavoro viene registrato a New York con musicisti del calibro di Anton Fier (batterista per The Feelies, Lounge Lizards, Golden Palominos e John Zorn) e Bernie Worrell (tastierista alla corte di George Clinton nei Parliament/Funkadelic e di David Byrne nei Talking Heads), sotto la supervisione di un produttore di grido come Alex Sadkin (Bob Marley, Robert Palmer, Grace Jones). Ma anche in questa occasione le cose non vanno nel verso giusto… Alla Island però non piace quello che viene fuori dalle session, al punto che il disco non viene nemmeno distribuito negli Stati Uniti (al suo posto verrà pubblicato un mini noto come “New York Remix”).
Haig ritorna nel suo cantuccio e registra il secondo solista intitolato “The Warp of Pure Fun”, con musicisti come Bernard Sumner dei New Order, Donald Johnson degli A Certain Ratio e soprattutto come Alan Rankine, ovvero il genio musicale che si nascondeva dietro il sound ineguagliabile e ineguagliato degli Associates e che proprio Billy Mackenzie aveva fatto scappare via nel 1982 dopo aver pubblicato il capolavoro Sulk.
Con Rankine, Haig lavora anche sul suo disco del 1989, intitolato “Chain” e che contiene non a caso una “Chained”, scritta proprio da Mackenzie, il quale restituisce il favore ad Haig interpretando la sua “Reach the top” per il disco degli Associates, che sarebbe dovuto uscire nel 1989 con il titolo di “The Glamour Chase“, ma che la Wea bloccherà per alcuni anni.
E’ già dal 1986 che Haig e Mackenzie girano assieme: tengono qualche data assieme in Scozia e chiudono anche l’anno uniti, apparendo nella trasmissione scozzese “Hogmanay” per una versione in playback di “Amazing Grace”:
Sul finire degli anni ottanta, Paul Haig e Billy Mackenzie sono due pop star ai margini: hanno avuto la loro occasione, ma non ce l’hanno fatta. La storia del pop non aspetta nessuno e se Billy soffre la sua condizione di prima donna relegata ai margini, Paul sembra più incline a sparire tra le pieghe della propria musica, che solitaria e defilata continua a mostrare uno sguardo sempre attento a ciò che “gira intorno” (hip hop e sample nel progetto Dub Organiser Paul, electro lounge con i vari capitoli di “Cinematique”, fino all’acid house con “Coincidence Vs. Faith”).
Quando giungono gli anni Novanta, Billy e Paul non hanno lo straccio di un contratto discografico, si trovano fuori dai giri che contano e appaiono come relitti di un’epoca superata dai fatti e dalla storia. Intorno a loro, il rock vede trionfare band come U2 (suggestione mica male: ascoltare Memory Palace è come immaginare il più classico dei what if con Billy al posto di Bono e Paul in luogo di The Edge… provate anche voi), mentre il suono elettronico più mainstream e cool parla la lingua del cosiddetto Trip-Hop. Haig che – come detto – è sempre sul pezzo (nel 1993 su “Coincidence Vs. Faith” collabora con producer come Mantronix e Lil Louis) si diverte a pasticciare con le nuove sonorità e insieme i due si divertono come matti a lavorare senza vincoli, facendosi ispirare solo dalla propria follia (“avevamo sviluppato un personaggio chiamato The Goatee: una capra con zoccoli di diamante che si sedeva sulla tua spalla e ti diceva cosa fare” dirà Haig ricordando sorridendo le session), interpretando al meglio (o forse loro malgrado) il ruolo di coloro ai quali “piaceva stare in fondo alla classe e tirare aeroplanini di carta verso il rock business” (come dirà invece Billy Mackenzie).
Memory Palace
Thunderstorm apre Memory Palace con un giro di basso e batteria che è puro trip hop narcolettico che si muove pigro, non fosse per un Billy che si sdoppia tra cori avvolgenti e toni medio bassi che sono carezze sull’anima. Paul programma ritmiche e allestisce sonorità, mentre piazza un arpeggio di chitarra a reiterarsi come fosse un campionamento sulle scansioni hip hop del groove. Un inizio che stordisce e ti fa controllare la data di scadenza del disco, mentre a scrollare ogni languore giunge l’acidume dei synth di Stone the memory palace con cui Paul imbastisce una trama su cui Billy può sfogare una lussuria tale che solo l’adorazione dell’intero pianeta avrebbe potuto placare… Si arriva esausti, ma felici alla fine del brano ma solo per abbandonarsi ectasici e voluttuosi alla trance notturna di Beyond love e successivamente immergersi nella soffusa carezza disco-house di Transobsession, adatta a dei privè poco illuminati.
Con Trash 3 il ritmo riprende vigore, Paul indovina i campionamenti vocali giusti e affastella ritmiche su cui la voce di Billy lievita impalpabile, come fosse una Donna Summer che canta la nostalgia per l’estasi che poteva essere e non sarà più.
Listen to me, è una delizia di piano, acustiche e ritmo pulsante e moderato: come se Lou Reed coverizzasse Sound & Vision di Bowie. I toni bassi della voce di Paul/Jekyll rinfrancano, pacificano e si prendono per la prima volta la scena, lasciando a Billy/Hyde il compito di entrare ed uscire come e meglio di Bono nella celeberrima Dumb degli U2.
Un Mr. Hyde che però torna subito in maniera prepotente e fuori misura con una sorta di reprise del brano precedente intitolata Listen again, sospesa tra caduta di gusto e divertissement innocuo, tra chitarre alla The Edge del coevo Achtung Baby e un Billy che gigioneggia come avesse davanti uno stadio intero a inneggiarlo.
Take a chance ripete il gioco di Listen to me con la voce di Paul placida come specchio d’acqua lacustre e quella di Billy a soffiare sulla superficie come un vento flessuoso.
Infine Give me time, che avrebbe poi aperto l’ultimo disco di Billy (Beyond The Sun, 1997), chiude il cerchio con la Thunderstorm iniziale, aggiungendo però pathos, emotività e un senso del pop che avrebbe dovuto fare di questa splendida torch song un monumento più duraturo del bronzo (N.B. quando la One Little Indian ripubblicherà il disco nel 2004, Dennis Wheatley ne farà una bella versione remix, impreziosita da efficaci inserti rap del – non accreditato – MC Buzz B).
Se anche fosse stato pubblicato negli anni in cui era stato concepito (magari con una resa sonora meno grezza e più curata…), dubitiamo che Memory Lane avrebbe rialzato le quotazioni dei due artisti. D’altronde, il disco non è certo un capolavoro tout court, quanto un lavoro per appassionati, in cui l’amore del fan funziona da rinforzo emotivo (non per creare, ma piuttosto) per cogliere la bellezza del disco.
Si ascolti dunque il modo in cui Mackenzie gioca con l’autenticità, imbastendo una rappresentazione teatrale più veritiera di qualunque “realismo” possibile, laddove il suo complice Haig sovrintende a suono e scrittura, ponendoli al servizio di una decadenza che ha il gusto del talento dissipato.
La dialettica Jekyll/Hyde, più volte richiamata, si riscontra d’altronde innanzitutto nella grammatica interna del disco, mirabile incontro tra scienza sonora e scrittura del refrain pop. Se le tessiture sonore sono pura costruzione intellettuale, sintonizzate sul presente a certificare a stessi e agli altri di essere vivi, la scrittura del brano é il momento di contatto con l’ascoltatore: cavallo di troia per creare identificazione prima e identità poi. In questo passaggio, vi è tutta la magia del pop, incantesimo artigiano che, tramite l’hook melodico, riesce a penetrare nella memoria collettiva e personale.
Il 21 gennaio del 1997, Paul telefona a Billy.
Lo trova molto giù.
Parlano un po’…
Paul promette a Billy che presto andrà a trovarlo a Dundee.
Il giorno dopo Billy viene trovato morto.
Paul Haig pubblicherà ancora parecchi dischi, fra i quali vogliamo almeno ricordare lo splendido “Kube” del 2013, in cui mette il suo talento melodico al servizio di futuribili architetture elettroniche, scheletriche, glaciali e ancora una volta assolutamente contemporanee seppure dotate di un gusto personale che sfugge ad ogni accusa di adeguamento.
Il palazzo della memoria eretto dai due amici, forse per dissipare energie creative e nottate insonni ancora odiosamente abbondanti, rimane ancora oggi in piedi a testimoniare un’amicizia, il lascito di una scena musicale, una particolare attitudine all’arte e alla vita e, infine, un risarcimento artistico postumo e mai riscosso.
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