Due sere e due concerti. Due esibizioni che condividono esplorazioni etniche, un impianto percussivo tribale, una trance dilatata ed estatica, ma che per il resto… non potrebbero apparire più distanti! Parliamo di IOSONOUNCANE e dei 75 Dollar Bill.

Partiamo dalle location: da una parte abbiamo un teatro, l’auditorium Cariplo (“casa della musica” dell’Orchestra Sinfonica e Coro di Milano Giuseppe Verdi), tempio della musica istituzionale, nel pieno centro di Milano; dall’altra un tipico circolo ARCI di provincia, il Gagarin di Busto Arsizio.
Il concerto milanese del 23 aprile prevedeva l’esecuzione integrale di “IRA”, disco evento (comunque la si pensi a proposito…) dello scorso anno: una riproposizione che prometteva di essere totalmente fedele a ciò che si ascolta sull’album, nota per nota, suono per suono. I tre musicisti americani, il 24 aprile, offrivano invece un’esecuzione che, partendo dai brani registrati, si sarebbe snodata per territori ignoti e avventurosi.

Due viaggi insomma, ma differenti: il primo proponeva un ritorno a luoghi già noti per riviverne la bellezza e notare nuovi particolari o differenze rispetto ai propri ricordi; il secondo proponeva la visita di un luogo sconosciuto e la speranza di farsi conquistare dalla sua bellezza.
Viaggi diversi e aspettative differenti. Occorre dire che nel caso di “IRA” le intenzioni dell’autore erano ben diverse: l’esecuzione integrale avrebbe dovuto, infatti, non seguire, ma anticipare la pubblicazione dell’album, rappresentando così davvero un’avventura verso l’ignoto. Purtroppo, a causa della pandemia, le cose sono andate diversamente e il concerto è stato posticipato più volte, fino a diventare un riascolto del disco in condizioni differenti, piuttosto che il suo disvelamento: in ogni caso le aspettative erano alte e l’auditorium era gremito di persone che attendevano l’evento da più di due anni. Il Gagarin invece vedeva un centinaio di persone che probabilmente da due anni si chiedevano se avrebbero avuto l’emozione e la possibilità di capire come la musica di un disco magico come “I Was Real” sarebbe stata trasposta nella dimensione live.

Ebbene arriviamo infine ai concerti: sull’imponente palco del teatro, occupato da tantissimi strumenti e parecchia tecnologia, si presenta un ensemble di sette musicisti dei quali ben cinque impegnati con tastiere (lo stesso Jacopo Incani, Francesco Bolognini, Serena Locci, Simona Norato e Amedeo Perri) e “aggeggi” elettronici e due percussionisti (Simone Cavina e Mariagiulia Degli Amori). Sulla piccola pedana e nel buio del piccolo locale di Busto invece ci sono tre musicisti, un contrabbassista, il duo della line-up ufficiale Che Chen alla chitarra (e al sassofono in un brano) e Rick Brown alle percussioni, coadiuvati nel tour dal contrabbassista Andrew Lafkas.

Ho sottolineato all’inizio come i due progetti avessero in comune la dimensione percussivo-tribale, tra l’altro rimarcata anche nella disposizione fisica dei musicisti sul palco che presenta in entrambi i casi i percussionisti al centro. Al di là delle analogie però gli strumentisti e gli strumenti non avrebbero potuto essere più differenti: il gruppo di Incani annovera infatti un batterista e una musicista addetta a timpani e campanacci, mentre il duo americano vede Rick Brown destreggiarsi tra un trovarobato percussivo (ma anche di strumenti a fiato) autocostruito. Il musicista è uno spettacolo nello spettacolo: seduto con un cuscino su un consunto cubo di legno del quale percuote le pareti ai suoi lati con mazze certosinamente costruite e curate per produrre suoni differenti, scuote scatole di cartone (che usa anche come mazze) piene di “qualcosa”, suona tubi di metallo o strumenti a fiato fai-da-te prodotti con porta ance e tubi da idraulico e imbuti che sfoggiano ancora il codice a barre…

Insomma l’impianto percussivo è lo specchio perfetto della differenza tra i due eventi: la perfezione della grande produzione e la meticolosità della riproduzione da una parte e l’approccio più casalingo e autarchico dall’altra.

Il set di percussioni di Rick Brown

Però poi c’è la musica e le differenze formali e sostanziali si appianano nell’esperienza. Nel caso di “IRA” l’esecuzione è un’esperienza potente che, sebbene gli spettatori conoscano già l’opera, contrariamente alle intenzioni iniziali dell’autore, riesce a ghermire l’ascoltatore in un vortice di suoni, sensazioni ed emozioni: un viaggio da vivere ad occhi aperti per carpire ogni interazione tra i suoni e i colori del light show. Il concerto dei 75 Dollar Bill è invece un trip da vivere a occhi chiusi, perdendosi nelle spire delle reiterazione ipnotiche, dove la chitarra microtonale o la 12 corde di Che Chen instaurano un dialogo “aperto” con le percussioni, con il contrabbasso a fare da elemento di tessitura.

Al termine quindi risaltano forse più i tratti comuni. Innanzitutto la dimensione delle dilatazione e della perdita del senso del tempo. In “IRA” la potenza comunicativa dell’opera, espressa attraverso la straordinaria esecuzione degli interpreti, riesce a trasportare il pubblico in una condizione di atemporalità e ciò nonostante si conosca benissimo la durata di ogni singolo brano. Nel caso degli americani invece il minimalismo psichedelico trasforma il concerto in una sorta di rituale di soli 5 brani per quasi due ore di durata delle quali però si perde totalmente coscienza.

Ma soprattutto ad accomunare entrambe le esperienze provvede la comune dedizione verso la musica. Seppure in maniera differente infatti entrambi i concerti rappresentano un vero e proprio atto d’amore per la musica.

L’intenzione con cui Incani ha pensato il progetto e la pervicacia con cui lo ha portato dal vivo, nonostante gli avvenimenti avversi, rappresentano un atto d’amore e di profondo rispetto verso la musica e verso l’immane sforzo profuso da lui stesso e dai musicisti, protagonisti sia nello sviluppo in studio che nell’esibizione. Uno sforzo donato al pubblico in una condivisione collettiva. Le espressioni dei musicisti esausti per la fatica dell’esecuzione e della tournée (quella milanese era l’ultima delle sette date previste) ma fortemente emozionati, testimoniano la portata artistica ed emotiva dello spettacolo. Forse nelle intenzioni iniziali dell’autore lo spettacolo in anteprima voleva essere l’ultimo saluto alla propria creatura che con la pubblicazione avrebbe assunto vita propria e iniziato il proprio viaggio. E non è detto che tale distacco, nonostante il mutare delle condizioni, non si sia consumato lo stesso: le parole, fortemente segnate dall’emozione e rubate nel dopo concerto a una delle musiciste del gruppo (“questo non succederà mai più”), sembrano confermare questa tesi…

E come non parlare di amore per la musica e per il proprio pubblico nel caso di Ric Brown e Che Chen che, mettendo da parte momentaneamente il lavoro e la vita di tutti i giorni, si recano dall’altra parte dell’oceano per donare se stessi e la propria musica a pochi ma affezionati ascoltatori. Il lungo applauso del pubblico, risvegliatosi dall’incantesimo al termine dell’esibizione, e l’abbraccio scambiato dai musicisti prima di tornare a mescolarsi tra la gente esprimono proprio questo.

Insomma sarà banale ma, complice probabilmente anche quanto avvenuto in questi due anni che ci ha sottratto quasi del tutto la musica dal vivo e il contatto umano, questi due concerti così diversi hanno detto in fondo la stessa cosa: la musica dal vivo quando è espressione sincera, al di là della forma e del contesto in cui si manifesta, è vita, vita vera.Possiamo quindi dirci fortunati perché abbiamo ricominciato a vivere.
E potevamo farlo meglio di così?