I bluesmen sono gente strana. Soprattutto quando si mettono in testa di mollare l’ortodossia del loro genere d’elezione e, mantenendo il medesimo approccio dell’anima, andare a esplorare nuovi territori. Finisce che si incaponiscono nella loro visione e fanno le bizze, sconfinando spesso nella paranoia pura. E’ il caso di Andrea Fusari, musicista di Manerbio, che, dopo una vita passata a suonare il blues più basico e libero, ha deciso di portare quella musica altrove, tramite progetti di cui vi abbiamo ampiamente parlato QUI, quali Gurubanana, Nana Bang! e infine Basement 3.

Occorre subito premettere che lo stato d’animo con cui Fusari si dedica a quest’ultimo progetto si caratterizza da sempre per una certa vena paranoide con punte di follia sciamanica. Se infatti per il disco d’esordio del 2019, intitolato Permafrost Walkers, aveva costretto i suoi due sfortunati sodali, i fratelli Achille Giulio e Alberto Manfredini, a ripercorrere le gesta dell’esploratore Roald Amundsen e recarsi, prima in nave e poi a piedi, al polo Sud, al fine di registrare in una sala prove locale i suoi gassosi raga folk psichedelici, per questo nuovo lavoro, intitolato Naturalismo!, Fusari, assunta nuovamente l’identità di A Fuzzer (laddove i due fratelli sono appellati – immaginiamo, loro malgrado – “A Buzzer” e “A Jizzer”…), ha costretto i due ragazzi a vivere per diverse settimane all’interno di uno scantinato, privandoli di ogni contatto con il mondo esterno. Pare che l’idea di Fusari a questo giro sia stata quella di andare al nocciolo non tanto della musica dei Basement 3, quanto del nome stesso della band… da qui l’idea di vivere in tre (3) in un seminterrato umido (Basement) per diverse settimane. Tutto ciò al fine di recuperare il cosiddetto “grado zero” del rock’n’roll che, a dire di Mr. Fusari, può essere intercettato solo recandosi sottoterra. Il connubio cantina-rock evoca immediatamente l’immagine di ragazzi che strimpellano gli strumenti con un entusiasmo spesso inversamente proporzionale alle abilità tecniche, coprendo con volumi assordanti le lamentele di genitori divisi tra esasperazione e affetto per i propri figli. Scene felici che però mal si sposano con l’atmosfera plumbea che ha invece caratterizzato le session del disco, condotte da un Fusari dispotico e maniacale che, giusto per fare un esempio, ha preteso che il riff ossessivo di “I Have No Mouth”, ripetuto nel brano per quattordici volte, fosse “ritagliato” da quattordici take differenti cui aveva costretto i suoi musicisti:

Basement 3 - I Have No Mouth

Ma se l’atteggiamento di Fusari è certamente censurabile dal punto di vista umano, non possiamo però che plaudire all’esito artistico della sua controversa condotta, almeno fino a quando condurrà a brani come il già citato incubo onirico di “I Have No Mouth”, ispirato all’omonimo e terrificante racconto di Harlan Harrison (che Fusari costringeva i fratelli a leggere ad alta voce ogni sera prima di farli addormentare… Fusari, invece, si sa, non dorme mai) o come la contagiosa melodia di “Johnny Ray” che tra lick rutilanti di chitarra country e parti di piano che sembrano uscite da un saloon immaginario infila un ritornello che ricorda la scrittura di John Darnielle aka Mountain Goats, uno che di semplicità e autarchia se ne intende.

Ma probabilmente il brano che meglio esprime l’idea di sound che ossessionava la mente di Fusari è “Tabula Rasa”, canzone non a caso scelta per anticipare (programmaticamente) l’uscita del disco e che nelle intenzioni dell’autore dovrebbe rappresentare la perfetta ossessione blues, scarnificata e resa aguzza e tagliente dopo essere stata tenuta per giorni a pane e acqua. Cosa che pare sia avvenuta davvero: la band ha suonato ininterrottamente il brano per giorni interi, mentre Fusari nelle pause del cantato si occupava di cibare i due fratelli versandogli direttamente in bocca del gatorade e dei piccoli pezzi di pane (ndr del brano si favoleggia esista anche una versione lunga 5 ore e 45 minuti):

Basement 3 Tabula Rasa

L’atmosfera lugubre delle session non ha però impedito alla luce di fare capolino in brani come il sublime soffio, glaciale e wave, della ballata “Labord’s Chameleon Short Lifespan” con le sue liquide pennellate di chitarra e una semplice batteria elettronica mandata in loop, o come la filastrocca quasi vaudeville, storta e zoppicante, di “Buy a House” adornata da stranianti tastiere e svisate psichedeliche di chitarra.

Barlumi di luce destinati a disperdersi, in quanto il disco prosegue immergendosi sempre più nei meandri della mente di Mr. Gurubanana che scopriamo avere pareti poco regolari come certe scale disegnate da Escher: si ascoltino lo sproloquio fuori controllo della new wave-motorik (senza batteria!) di “Humphrey Bogart” o la narcotica “Toll Gate”, costruita su un’ostinata nota di piano e avvolta in una nebbia lisergica di chitarre e riverbero. “Afterparty” invece è mal di testa post-party e hangover in attesa del mattino, laddove il formicolio synthetico di “FYFF” è un delirio paranoico che nel ritornello ripete allo strenuo “I’m a fly”:

As I Am” è blues obliquo con tanto di ritornello barrettiano, mentre “Terminal 2” è un estatico raga rock che conclude magnificamente l’album con un’atmosfera di serenità trascendente.

C’è anche da dire che la conclusione del disco non è stata frutto di una scelta di Fusari, ma piuttosto delle circostanze che hanno voluto che i due fratelli Manfredini riuscissero infine a scappare dal seminterrato, tramortendo un Fusari momentaneamente estraniatosi per dialogare con il mentore Kevin Ayers. I fratelli sono per fortuna riusciti a portare con sé i nastri delle registrazioni e consegnarli alle cure di Davide Chiari e Giovanni Ferrario.
Quello dunque che possiamo oggi ascoltare è il frutto di un compromesso tra la visione titanica di un Fusari invasato dai propri spiritelli blues e il talento dei due fratelli Manfredini riusciti per la seconda volta a tenere testa al tiranno dispotico.
Non possiamo però che apprezzare Fusari, raro esempio di jazzista della melodia, capace di comporre canzoni a getto continuo per poi affidarle ai musicisti che di volta in volta lo affiancano, nella consapevolezza che ogni formazione le vestirà in maniera differente, ma senza intaccarne mai la vera essenza.

Naturalismo! mostra dunque una band che concilia perfettamente la propria radicata tendenza alla jam dilatata con una scrittura invece ben focalizzata e decisamente ispirata.
Un disco che preserva il sacro fuoco del R’n’R, musica che da sempre ci imbroglia con l’illusione che il tempo si fermi e la promessa di rimanere (o ritornare…) per sempre giovani. E se anche l’incantesimo, come in questo caso, dura solo 34 minuti, ci accontentiamo… magari tornando alla vita di tutti i giorni canticchiando la melodia di “Johnny Ray”…