Magari li conoscete già, ma per chi non avesse idea di che musica facciano i Modern Nature, band inglese che dal 2019 ha pubblicato “due dischi e mezzo”, suggeriamo di sfruttare questa breve introduzione per cominciare ad ascoltare i loro album. Oltre a farvi un favore, ci eviterete anche il rischio di dover “ingabbiare” una musica in verità inafferrabile e caratterizzata da una sorta di fluidità aerea, che da un lato trascina in un flusso continuo cui è facile abbandonarsi e dall’altro riesce a non trascurare affatto la forma canzone. La penna di Jack Cooper, leader della formazione (che, tra Beep Seals, Mazes e Ultimate Painting, non è esattamente un novellino della scena inglese) riesce infatti a conciliare perfettamente la forza del singolo episodio, pur collocandolo nel contesto sonoro del disco e nel flusso costante di cui questo è composto.

Provate dunque ad ascoltare il loro ultimo lavoro “Island Of Noise” che, pur non essendo propriamente un concept album, disegna un viaggio che parte dalla placida “Tempest”, solcata dalle perturbazioni del sassofono del grande Evan Parker, e si conclude e culmina nel crescendo minimale di “Build”, brano che non abbiamo timore a definire un piccolo capolavoro.
Nel mezzo, troviamo le dolcezze elettroacustiche di “Dunes”, “Bluster” e “Spell”, le rarefazioni di “Ariel” e “Simmetry”, le melodie cristalline di “Masque”, il groove sostenuto con colorazioni quasi mediorientali di “Brigade” e quello sincopato e “raffreddato” di “Performance”.

 

La qualità forse più sorprendente di questa sequenza di capitoli sotto forma di canzoni risiede nell’equilibrio e nella maturità con cui la band riesce a impreziosire e trascendere la forma canzone, mediante l’improvvisazione dei musicisti (affidata soprattutto al sax soprano di Evan Parker, ma anche a quello contralto e al clarinetto di basso di Jeff Tobias, senza dimenticare la tromba di Lily Carassik) e la cura per arrangiamenti talmente calibrati da disegnare un fil rouge sonoro tra i vari brani che, se non gli impedisce di brillare individualmente, dona loro un’identità comune che alimenta la sinergia complessiva della trama.
Insomma, un disco da non perdere, soprattutto ora che viene pubblicato in formato fisico dopo una prima edizione in formato deluxe, pubblicata a dicembre 2021 e andata a ruba.

Questa piccola grande meraviglia, poi, ci ha fatto voglia di saperne di più e così abbiamo contattato Jack Cooper che, seppure nelle turbolenze di una paternità nuova di zecca, si è gentilmente prestato a rispondere alle nostre domande.

Ciao Jack e grazie per averci concesso un po’ di tempo nel mezzo di questa nuova avventura…
Iniziamo parlando del nuovo disco. Siamo curiosi di sapere come è maturato, quali sono state, nell’approccio e nei temi, le differenze con How to live e Annual e se scorgi tra i vari lavori un percorso. Con Island Of Noise possiamo parlare della chiusura di una trilogia e dell’apertura di un nuovo ciclo, o invece è ancora tutto in divenire?
Penso che questo progetto abbia una serie di temi molto definiti; mi piace pensare al disco come una tavolozza, perchè penso che paragonare i temi a dei colori sia il modo migliore per esprimerli.

Non credo che sia corretto considerare i miei primi dischi come una trilogia anche perchè penso che sia una definizione fin troppo facile dato che i lavori sono tre. Pensando ad essi come a una trilogia, dovrei considerare questo disco come la fine di un percorso, ma non è così. Sento però che questo disco è un passo più vicino verso la meta che vorrei raggiungere perché sono presenti elementi che sono molto vicini a realizzare il tipo di musica che ho in testa, ma ancora non ci siamo. Quindi: no, non posso dire che sia il capitolo finale di una trilogia e anzi Island of Noise va piuttosto considerato come parte di una percorso ancora in essere, una sorta di progressione naturale.

Come è stato lavorare con Evan Parker? Quale contributo ha apportato alle session?
Beh, ero molto nervoso perché sono un grande ammiratore non solo della sua musica, ma anche della filosofia che vi sta dietro. La serietà con cui affronta la musica non è davvero una cosa molto comune… I musicisti possono avere ragioni molto diverse per fare musica e, nel caso di Evan, la percezione è che la ragione sia molto più profonda rispetto a quella di altri. Quindi mi sentivo un po’ intimidito perché volevo che riconoscesse che anch’io prendo la musica molto seriamente. Non volevo che pensasse che si trattasse solo di un disco indie rock in cui gli era stato chiesto di suonare. Abbiamo un amico in comune, così gli ho mandato una mail chiedendogli se fosse interessato a suonare. Evan ha cercato su Google “Modern Nature” ed è rimasto colpito dal titolo di una canzone presente nel nostro primo album, “Peradam”, che fa riferimento a un libro di René Daumal intitolato “Il Monte Analogo”. Evan mi ha quindi chiesto se Peradam fosse effettivamente un riferimento a quel libro, aggiungendo: “Se è così, ci sto“. Penso perciò che possa aver riconosciuto, in questo piccolo tratto comune, una sorta di spirito affine e che questo sia stato sufficiente a suscitare il suo interesse.

Ha registrato in studio con voi o a distanza?
Tutto il disco, tranne alcune parti, è stato inciso negli stessi studi perché le session sono state registrate su nastro ed anche se tecnicamente possibile, evito di inserire parti registrate in digitale in un contesto analogico. Quando ho portato le canzoni in studio pensavo ad esse come a una cornice all’interno della quale i vari musicisti potessero aggiungere linee e colori.

Ho anche scritto delle parti per Evan, ma si trattava più di riferimenti per fargli capire in che direzione desideravo spingere la mia musica, ma per il resto volevo solo che suonasse come Evan Parker e che riempisse la tela con la sua sensibilità e le sue abilità improvvisative. Non abbiamo fatto prove prima delle registrazioni. Ci sono state anche occasioni in cui ho proposto canzoni o sezioni che presentavano molte annotazioni e melodie intricate. Bisogna riconoscere a Evan il merito di aver provato a eseguire queste partiture, ma fondamentalmente dopo qualche tentativo ha detto che non se la sentiva di farlo e il modo in cui l’ha detto suonava un po’ come “se lo facessi sembrerebbe che lo faccia solo per guadagnarmi la paga”… In realtà a lui interessava unicamente essere se stesso ed era la stessa cosa che desideravo io.

Rispetto alle tue esperienze precedenti, sembra che con questa band tu abbia trovato una collocazione naturale, maggiormente distesa e adatta ad accogliere i tuoi umori artistici. Qual è il tuo rapporto con il progetto Modern Nature e qual è la sua intima essenza? Quella che va preservata e dona identità al progetto, al di là dei contributi esterni che arricchiscono la formula…
Uno degli obiettivi che mi sono prefissato è stato quello di sviluppare un flusso naturale e un clima di maggior rilassatezza. Uno dei motivi per cui mi piace registrare su nastro, al di là del suono particolarmente buono, è perché ti spinge ad avere un atteggiamento per il quale il tuo unico interesse è quello di suonare e registrare, senza preoccuparsi troppo degli errori o di eseguire la musica in maniera perfetta. E se tutto funziona a dovere, questo tipo di approccio rilassato si riflette nella musica.

Penso che al giorno d’oggi molta musica, soprattutto quella digitale sia molto difficile da elaborare per l’uomo; alludo proprio a livello cerebrale, perché contiene troppi elementi e stimoli che si accavallano tra loro. Penso che quando cominci a immergerti nello spazio, presente tra le note, e assapori periodi di silenzio più lunghi, il cervello può concentrarsi molto meglio sui singoli elementi e assorbirli correttamente. Trovo molta musica moderna troppo difficile da assimilare, come mi accade ad esempio quando guardo un film della Marvel.

Effettivamente nella vostra musica, c’è molto spazio tra le note… Anche il tuo modo di condurre le danze con la chitarra sembra portare la band in questa direzione…
Come ho detto prima penso che lo spazio sia l’elemento che manca alla maggior parte della musica. Se c’è spazio, allora la tua mente può elaborare più facilmente quello che c’è. È più facile restare affascinati da un albero solitario in un campo vuoto, che da uno in mezzo a una foresta.

Nel vostra musica si avverte una lontana eco di pastoralità britannica. Qual è il vostro rapporto con la tradizione folk inglese?
Sento che la musica folk scorre all’interno di quello che stiamo facendo, ma non mi interessa suonare come un gruppo degli anni Sessanta o Settanta. Voglio fare musica che abbia quello spirito e che presenti una connessione con il luogo da cui provengo, ma senza suonare come un revival.

Qual è invece il rapporto con la vostra nazione, da poco uscita dal ciclone Brexit? Come ha influito questa frattura con l’Europa sul tuo essere artista?
È una domanda molto interessante perché sono cresciuto sentendomi europeo e credo di aver sentito proprio negli ultimi anni una maggiore connessione con l’Europa. Penso che dopo la Brexit molti inglesi (e dico inglesi perché è stato il governo inglese a metterci in questa situazione; non la Scozia o l’Irlanda del Nord) si trovino in difficoltà. Penso che un sacco di gente di sinistra stia provando vergogna e imbarazzo a causa della Brexit. Come conseguenza, credo che un sacco di giovani stiano cercando di trovare elementi dell’essere inglesi di cui essere orgogliosi che non hanno nulla a che fare con il nazionalismo; si tratta di trovare un modo per prendere ispirazione dall’Inghilterra, trascendendo dal concetto patriottico e trovando altri aspetti della nostra cultura di cui essere orgogliosi. Ci sono così tanti grandi innovatori, artisti e pensatori a cui poter guardare come Derek Jarman, da cui abbiamo preso il nome di Modern Nature, Bridget Riley, Mike Leigh, Clement Attlee, Virginia Woolf, ecc. che sono la quintessenza dell’Inghilterra, ma che rappresentano l’esatto contrario di ciò che il nostro establishment attualmente rappresenta.

Credi che le tue composizioni e le vostre esecuzioni abbiano più a che fare con il mondo che vi circonda o descrivono piuttosto un mondo interiore? Credi che la musica dei Modern Nature si collochi in una propria atemporalità o sia figlia dei tempi in cui vive?
È difficile, sento che molte delle parole e dei testi del disco sono per me una maniera di cercare di afferrare questo particolare momento della storia, nel quale sembriamo arretrare e non progredire. Penso ci sia davvero, sia a livello psicologico che politico, molta confusione nelle persone e in me stesso e credo dunque che questa condizione finisca ad esempio per influenzare le mie parole e i miei pensieri che diventano un modo per elaborare ciò che sta succedendo nel mondo esterno. Ma allo stesso tempo, sento però di essere più interessato ad esplorare ciò che non si può dire con le parole, perché a mio avviso la musica è una forma di comunicazione e di espressione che si spinge al di là della parola scritta.

Abbiamo trovato l’ultimo brano “Build” una chiusura strepitosa. Siete tra quelli che pensano che un grande disco, come accade per i film più riusciti, debba avere un grande finale?
Il modo in cui mi approccio nella composizione dei miei dischi è abbastanza simile a quello della scrittura di un’opera teatrale o di un romanzo, per cui la successione dei brani all’interno di un album è certamente intenzionale e risponde sempre a un criterio.

Nello specifico in Island of Noise stavo cercando di sviluppare una sorta arco narrativo, quindi l’idea era di ricreare con l’ultimo brano una specie di scena finale che sintetizzasse e collegasse tutto quello che era avvenuto nelle canzoni precedenti. E così in Build abbiamo prelevato dal resto dell’album i diversi elementi sonori, i vari musicisti e le differenti melodie che hanno suonato e le abbiamo condensate nella maniera più semplice possibile in modo che tutto ciò che era avvenuto prima risultasse come fosse già stato elaborato.

Il risultato di questa somma/sintesi è un brano dalla forma fortemente metronomica, dove ad esempio nei ritornelli tutti i musicisti (tranne Evan Parker) suonano una nota sola.

Quindi dietro l’improvvisazione c’è un’idea forte e solida di canzone?
Sì, assolutamente.

Parlaci del progetto del film e del libro che accompagnano il disco e ne costituiscono in qualche modo la colonna “visiva”. Qual era l’obiettivo che ti sei posto? Siamo curiosi di comprendere quali sono stati i criteri con cui hai associato immagini e note e con cui hai scelto le persone che hanno contribuito al libro… Abbiamo intravisto una sorta di viaggio…
Penso che l’idea dietro il libro, il film e il disco strumentale sia nata dal fatto che quando ho finito il disco sentivo di non avere ancora detto tutto, percepivo la possibilità di continuare a lavorarci intravedendo ancora del “terreno da coprire”; insomma volevo dare il massimo e fare quello che sarebbe piaciuto a me come ascoltatore. Infatti per me è sempre stato così: ogni volta che sento per la prima volta un disco che mi piace o dal quale sono ossessionato, leggo tutto quello che posso su internet, ascolto molte versioni diverse o demo, alternate takes e cose del genere. Quindi l’idea di fondo è stata proprio questa: creare una versione con diversi elementi di approfondimento per coloro che volessero immergersi completamente nel lavoro.

Quanto tempo ci è voluto per completare il disco? Quando hai iniziato e quando hai finito?
In realtà la maggior parte delle canzoni era già pronta prima di registrare Annual. Ci stavo lavorando da un po’ di tempo, ma aspettavo essenzialmente di finalizzare un nuovo accordo con la casa discografica per avere il finanziamento necessario a produrre l’album. Per questo motivo Annual è stato pubblicato prima. La maggior parte delle canzoni sono state scritte all’inizio del 2019 e poi ho passato la prima metà del lockdown nel 2020 a lavorare sugli arrangiamenti, le partiture e le diverse sezioni dell’album. Abbiamo registrato l’album nel settembre 2020 (le registrazioni effettive hanno richiesto circa 10 giorni) e poi ci è voluto un po’ di tempo per riuscire a pubblicarlo.

Quindi la maggior parte dei brani era pronta molto prima del COVID e l’hai tenuta in serbo per un lungo periodo. L’esperienza della pandemia ha influito in qualche modo sulle canzoni?
Sì, alcuni test sono cambiati fino all’ultimo momento. Quindi ci sono sicuramente elementi relativi al COVID che possono essersi insinuati nelle canzoni, ma le idee e le tematiche principali sono antecedenti alla pandemia.

Come hai vissuto il lockdown? Sei riuscito a scrivere qualcosa? Come ha reagito la tua creatività in quella situazione?
Beh, è difficile dirlo perché la gente ha sofferto molto negli ultimi due anni. Ci sono stati tempi duri, per esempio dal punto di vista finanziario, ma i primi mesi della chiusura mi sono quasi sembrate come delle vacanze scolastiche, un periodo nel quale ci si sentiva strani ma pieni di entusiasmo; è stato stimolante avere così tanto tempo a disposizione.

Di conseguenza mi sono sentito particolarmente creativo e motivato perché, quando si è musicisti, spesso si spende la maggior parte delle proprie energie nei tour. Una volta che togli dall’equazione la dimensione live, ti trovi quindi completamente concentrato sulla scrittura e sulla registrazione.

Infine, vorremmo avere qualche informazione sul contenuto del secondo disco contenuto nell’edizione speciale di Island Of Noise, Island Of Silence.
Credo che ci siano musiche che rischiano di essere “sminuite” dalle parole. Non intendo il canto o la voce in sè, ma proprio le parole in quanto il loro significato tende a “svelare” troppo e a creare una sorta di preconcetto che può pregiudicare nell’ascoltatore la capacità di percepire quello che davvero la musica vuole comunicare. Sentivo che nei brani strumentali del disco c’era un’espressività e una capacità comunicativa tale da essere potenzialmente più interessante della loro stessa versione abbinata al canto. Inoltre ho un cattivo rapporto con la mia voce, quindi è stata una bella sensazione sentire le canzoni senza di essa.

Modern Nature - Island of Noise: A film by Jack Cooper & Conan Roberts