Che cos’è la Memory Band? In teoria, ma anche in pratica, è un gruppo che si occupa di suonare musica tradizionale britannica. Ma si tratta in realtà di una questione non così semplice quanto appare: dietro al termine “band” si cela un’entità in perenne mutamento, per componenti e formazione, che ruota attorno a un perno: il fondatore Stephen Cracknell. E se il termine “memoria” sembra essere perfetto per chi si occupa di musica tradizionale, il discorso con Stephen Cracknell si fa un po’ più complesso… Della “memoria” Cracknell, è infatti interessato a cogliere soprattutto l’aspetto più scivoloso e soggettivo, quello che attraverso la soggettività trasforma un fatto, avvenuto in un dato momento, in un ricordo. Succede lo stesso ai brani tradizionali che si trasformano, scivolando nella testa, nel cuore e nelle mani dei musicisti, vibrando nei suoni degli strumenti e codificandosi nelle macchine, e passano da elemento del passato, destinato a scolorire e a essere dimenticato, a ricordo vivo. Memory Band quindi è un’idea nella testa del suo creatore, quella di un nuovo approccio alla musica folk; un’idea che si trasforma attraverso l’urgenza e la creatività dei collaboratori del momento, in una materia mutante e misteriosa anche per lo stesso Stephen. Ed è così che ciò che nella teoria corrisponde a un progetto preciso diventa un enigma nella pratica; un rompicapo il cui vero fascino risiede proprio nella sua insolubilità. D’altronde cosa c’è di più noioso di un enigma risolto? Ecco, è questo il gioco della Memory Band: presentare dei dischi sotto forma di enigmi (o forse enigmi sotto forma di dischi), per poi passare ad altro prima che si rivelino nella propria ordinarietà.

Un processo che si traduce in una musica complessa, ma mai cervellotica o involuta, capace di veicolare il fascino del passato, bloccandolo in una sorta di bolla atemporale, di farci pensare ed emozionare, di intrattenerci e stimolarci. Una musica che non rinuncia mai al fattore umano, anche quando viene filtrata dal silicio dei computer.

Consigliare uno o più dischi della band sembra quantomeno azzardato, perché tutti i lavori ci appaiono necessari per comporre quel disegno ancora incompleto e che speriamo mai si completerà. Ma se proprio dobbiamo dare qualche indicazione, come è giusto che sia, a qualcuno che volesse iniziare a dare uno sguardo, consigliamo due dischi: “Apron Strings” che suona folk come se a farlo fosse la Penguin Cafè Orchestra e “On The Chalk (Our Navigation Of The Line of The Downs)”, che dimostra come sia possibile pubblicare un disco folk capace di accettare la sfida della modernità, tramite un lavoro di decostruzione e rielaborazione effettuata attraverso l’interazione tra uomo e macchina.

The Wearing of the Horns (Weyhill On My Mind)

Per cercare di capire un po’ di più (ma non troppo…) di questa entità musicale e per parlare del disco più recente “Colours” abbiamo fatto una chiacchierata con Stephen Cracknell, ed ecco quello che ne è uscito fuori.

 

“The Memory Band è una band immaginaria, costruita all’interno di un computer che elabora musica tratta dalla banca dati collettiva e la concretizza grazie ai contributi di numerosi musicisti. Dal vivo una band acustica dai numeri in continua evoluzione e su disco un nuovo approccio alla musica tradizionale.”
Stephen Cracknell

Ciao Stephen, e grazie per la tua disponibilità. Non possiamo che partire dalle tue parole e dal nome che hai voluto dare a un progetto che ruota attorno al concetto di memoria, inteso sia nell’accezione umana che in quella informatica dell’immagazzinamento dei dati. Come si relaziona la Memory band con i due concetti di memoria appena descritti e perché hai voluto mettere in piedi un gruppo virtuale che ruoti attorno a questi due concetti? Parlaci del tuo background e del cammino che ti ha portato alla fondazione di “The Memory Band”?
Quella citazione è ormai molto vecchia. E’ strano rileggerla e ragionare su ciò che stavo cercando di dire all’epoca; è difficile scrivere comunicati stampa che, col senno di poi, non ti facciano rabbrividire per la loro pomposità. La band, in realtà, si è materializzata in maniera del tutto istintiva, come reazione rispetto al mondo che mi circondava e non come frutto di un manifesto programmatico . Quando ho scelto il nome della band mi piaceva il fatto che potesse avere molteplici significati, dire tutto ma anche niente ed essere più suggestivo che specifico. Queste stesse qualità sono ciò che mi intrigano della memoria e del suo significato, in particolare, in relazione alla musica. Il fatto che ancora oggi non riesca a definire queste cose con precisione, probabilmente rappresenta un elemento fondamentale che fa sì che il lavoro vada avanti.

Negli ultimi anni, il concetto di memoria è risultato centrale anche nella cosiddetta musica hauntologica che si propone di far emergere i fantasmi del passato che infestano il presente. Come ti poni rispetto a questo movimento che ci sembra essere comunque affine alla tua sensibilità e la cui strada ha avuto modo di intersecare la tua, pensiamo ad esempio alle notevoli collaborazioni con Jim Jupp (Belbury Poly)?
Jim e Julian di Ghost Box hanno costruito un incredibile corpus musicale e credo che il principale collegamento tra di noi sia dato dal fatto che come ascoltatori siamo fondamentalmente tutti dei crate diggers (ndr: Il crate digger è una persona che passa le giornate a cercare vecchi vinili nei mercatini). Hauntology invece è uno di quei termini contemporanei nato nel mondo accademico, ma che poi è finito nel gergo del marketing. A quel punto, smetto di interrogarmi sul significato del termine e mi limito ad aggiungerlo nei “metadati”.. Come musicisti ci viene spesso domandato come ci poniamo di fronte a questi termini e spesso siamo giudicati in base alla nostra conformità a queste nozioni, ma dove sta il divertimento nella conformità? Una delle motivazioni che mi ha spinto fin da giovane a cercare musica “di seconda mano” è stata la varietà del tutto casuale che se ne ottiene. Ed è una cosa che mi attrae ancora oggi. Se dovessi prendere una laurea in hauntologia, allora dovrei basarmi sul mio lavoro sul campo, piuttosto che scrivere una tesi.

The Memory Band with Belbury Poly & Grantby - The Ballad of Imber Down

Veniamo ai componenti che hanno contribuito e contribuiscono a The Memory Band. Come avviene la scelta dei collaboratori per ciascun progetto? Sono i collaboratori che influenzano la musica che ascolteremo nel disco o è l’idea che hai fin dall’inizio del disco a determinare la scelta dei collaboratori?
Come molte delle mie risposte di oggi, la cosa fondamentale è che non devo mai fissare queste cose: mi concentro solo sul risultato finale continuando a variare il procedimento. La maggior parte dei musicisti presenti nel nuovo album è costituita da persone con cui lavoro da molto tempo. Ogni relazione è diversa, ma di solito è incentrata sul fatto che c’è qualcosa in ogni individuo e nel suo modo di suonare che mi commuove in qualche modo, che mi fa desiderare di ascoltarlo di più, mi fa desiderare di scrivere pensando a loro. In diversi brani del nuovo album Hannah Caughlin e Helene Bradley cantano insieme: è stato proprio il modo in cui si combinavano le loro voci che mi ha spinto a scrivere dei brani pensando a loro e a costruire gli arrangiamenti attorno a loro; questo approccio si può applicare a tutte le persone coinvolte, ovviamente in maniera diversa per ognuna. I collaboratori sono probabilmente la più grande influenza sul mio lavoro, perché sono le persone che creano il suono tanto quanto me. Alla fine spesso la maggior parte del mio lavoro si riduce nel registrare, riascoltare e modificare.

Parlaci dei due volti della band, quello acustico impegnato nelle esibizioni dal vivo e quello immortalato nelle prove in studio.
Mi considero un “performer per caso”. Il mio sogno non è mai stato suonare sul palco davanti a un pubblico; volevo solo fare dischi, cosa che ho iniziato a fare soprattutto con le macchine in studi casalinghi. Poi successivamente mi sono trovato, in maniera del tutto inaspettata, a eseguire musica dal vivo e ho scoperto che non solo era una cosa divertente, ma la gente veniva pure ad ascoltarmi! La maniera più facile e ovvia con la quale avrei potuto eseguire la mia musica dal vivo era quella di usare sul palco un computer e le attrezzature da studio, ma ho pensato che sarebbe stato più divertente e stimolante mettere insieme piuttosto, una formazione acustica per provare a interpretare la mia musica e vedere dove mi avrebbe portato. Cerco anche di evitare di suonare la musica allo stesso modo due volte sul palco, giusto per aumentare il rischio.

Cosa intendi per nuovo approccio verso la musica tradizionale? Sei d’accordo che il folk migliore risulti ancora oggi moderno grazie a radici profonde e consapevoli del passato, che gli consentono di adeguarsi al presente e cogliere lo spirito dei tempi?
E’ qualcosa che ha a che fare più con la struttura della musica che con la filosofia. La maggior parte della musica descritta come musica folk è incentrata sul prendere melodie tradizionali e arrangiarle in termini di variazione armonica e sviluppo degli accordi, per creare narrazioni emotive. Questo è molto comune in molte forme musicali, ma non è quello verso cui punto nel mio lavoro. Sono il ritmo e la melodia che governano il mio mondo: mi piacciono i loop, i suoni e gli spazi sonori; cerco di fare in modo che sia lo sfondo e non il centro a essere in primo piano. Tuttavia, allo stesso tempo, coinvolgo nel progetto un musicista come Fred Thomas che è un maestro della progressione armonica come dimostra il suo album Bach trio su ECM. Perché tutto ciò in cui credo lo metto continuamente in discussione e ogni regola che ho deve essere messa alla prova.

Come pensi che il folk debba rapportarsi con il presente e il futuro? Pensi che la sua vitalità futura sarà legata alla capacità che avrà di ibridarsi con altri generi, magari affini per istanze, obiettivi o sensibilità? Percepisci in tale processo il rischio di un’eventuale perdita di identità del folk tradizionale? E infine, a prescindere dalla forma che assume, quando a tuo avviso una musica può dirsi “folk”?
Le voci sulla scomparsa della musica folk sono state molto esagerate dal momento in cui la gente ha iniziato a parlarne. Forse un tempo avevo delle opinioni sulla musica folk, ma le ho scartate molto tempo fa. Personalmente mi piacciono molto le melodie, tanto che non posso fare a meno di tornarci su. Riguardo all’ibridazione sono sempre incline a pensare che sia la promiscuità di una cultura ad assicurarne la sopravvivenza piuttosto che la sua purezza, ma si tratta solo della mia opinione.

Veniamo al nuovo disco “Colours”. Una delle cose che ci ha colpito di più è l’utilizzo dei fiati, tanto che In alcuni brani – come nella conclusiva “A wooded world”- il nome “Memory Brass Band” sarebbe stato adeguato… Ci puoi parlare di questa scelta e dirci se c’è una ragione particolare per la quale i fiati appaiono nei primi e negli ultimi brani, ma non nella sezione centrale?
I flauti rappresentano da tempo una caratteristica del nostro suono. Ho sempre usato i fiati nella tavolozza musicale di The Memory Band, ma con molta parsimonia, soprattutto perché non riuscivo a farli suonare come volevo. Negli ultimi anni questo è cambiato. Tutti i fiati su Cursus” sono stati registrati da Sam Ewens che ho incontrato attraverso Sam Genders. Quando ho deciso che volevo registrare una sezione di fiati su un certo numero di pezzi ho chiesto a Olie Brice, il nostro bassista, di mettere insieme il trio e di scrivere tutti gli arrangiamenti perché ha molta più esperienza e contatti di me in questo ambito; avevo sentito abbastanza musicisti tra quelli con cui aveva già lavorato per sapere che avrebbe fatto un buon lavoro.
A Wooded World è una ripresa improvvisata di Albion’s Daughter e ho sempre avuto la sensazione che dovesse essere l’ultima traccia del secondo lato. Penso che il primo lato sia molto focalizzato su colori primari e tratti decisi, mentre sul secondo lato le cose diventano più diffuse e psichedeliche, prima di tornare ai fiati per gli ultimi due pezzi, non accompagnati e senza vincoli. Quando ho scelto l’ordine dei brani ho anche cercato di ottenere una successione circolare, in modo che, anche iniziando ad ascoltare in qualsiasi punto, avesse comunque un qualche senso.

Il disco ci è sembrato più malinconico e notturno rispetto ai precedenti e per giocare con il titolo il colore che sembra prevalere è il blu? Cosa ne pensi?
Se vuoi riprodurre l’intera gamma di colori, allora ci saranno inevitabilmente molti toni cupi. Penso che tutta la mia musica si muova tra il buio e la luce, mentre molta musica sceglie di rimanere per la maggior parte su un lato della barricata o sull’altro. L’album inizia con una canzone ‘As I walked out one midsummer morning’ (ndr: “The Sweet Primroses” ), quindi forse la penso in maniera diversa. Ho sempre pensato che ci fosse molto giallo nell’album, è stato certamente un colore dominante nella mia mente quando ho mixato l’album. Nell’artwork, comunque, c’è molto blu.

“Colours” pur nella sua brevità punta in diverse direzioni come ad esempio il jazz, le suggestioni minimaliste, rimasticazioni elettroniche fino al suddetto riferimento alle brass band oltre ai consueti riferimenti cameristici e folk. E’ stata una scelta voluta quella del patchwork sonoro o semplicemente sono state le canzoni che hanno dettato la linea?
In realtà si tratta di un enigma che devo ancora risolvere… se mai lo farò, immagino che sarà il momento di cambiare strada! Alcune delle linee temporali di questi enigmi si estendono ben oltre un singolo lavoro, sono i punti focali attorno ai quali si sviluppano anche i lavori successivi. Sono anni che cerco di fare il mio ‘album jazz’, forse questa volta ci sono riuscito. Ho anche cercato di fare il mio ‘album londinese’ per molto tempo e forse con ‘Colours’ ci sono riuscito. Chi lo sa? Forse dipende molto da quello che viene dopo, piuttosto che da quello che è stato fatto.

Concludiamo con un grande classico: quali sono i tuoi dischi da isola deserta? Immaginiamo non possa mancare qualcosa della Penguin Cafè Orchestra o magari la colonna sonora del cult movie The Wicker Man (dal quale nell’ultimo disco hai proposto la bellissima cover di Gentle Johnny), ma forse ci vorrai stupire…
Il mio album preferito della Penguin Cafe Orchestra è l’album dal vivo ‘When In Rome‘, ma se dovessimo andare su un’isola deserta, probabilmente prenderei qualche disco brasiliano piuttosto che della musica che proviene da paesi freddi. Qui ci sono alcuni dei miei preferiti che mi vengono in mente in questo momento:

Moacir Sansantos – Coisas
Quarteto Em Cy – Quarteto Em Cy
Joyce – Feminina
Nara Leao – Nana
Edu Lobo – Missa Breve
Sergio Mendes e Brasil 66 – Stillness
Marcos Valle – Braziliance! A Musica De Marcos Valle
Vinicius De Moraes e Baden Powell – Os Afro-Sambas