Uno scrigno di meraviglie. Non c’è altro modo per definire “Lover’s Leap” il terzo disco di Alex Pester, vent’anni e una faccia da liceale, ma che – a dispetto della giovane età – esibisce una imbarazzante naturalezza nel mischiare riferimenti alti come le pagine bucoliche del Paul McCartney post-separazione, i bozzetti ad acquerello della Penguin Café Orchestra o gli esperimenti “britannici” dell’ultimo Elliott Smith.
Una sicurezza che viene subito esibita nella scelta di aprire Lover’s Leap con “Love On Our Shoulders”, suite di ben quattordici minuti che è una specie di fascinoso ed onirico girovagare dentro un immaginario in piena espansione.
Non è che l’inizio di una sequenza di brani semplicemente formidabile: dopo le timbriche profonde alla Richard Hawley di “My Darling” e le chitarre luminescenti che impreziosiscono il finale di “Insecurity”, il disco inanella una serie di brani che rappresentano una lunga e chiaroscurale apnea per poi risalire in superficie con la meravigliosa “Help Us!” e, infine, raggiungere l’apice nella accoppiata di “Night” (altra suite in miniatura che sembra dilatare all’infinito i suoi cinque minuti e mezzo) e “Wound” (spettrale e struggente come una pagina di Robertino Nostro).
Una volta finito l’ascolto non potevamo non aver voglia di conoscerlo… anche solo per dirgli “bravo” e ovviamente “grazie”.
Ecco quello che ci siamo detti.
Ciao Alex. Innanzitutto complimenti per il tuo disco. Ti ringraziamo per questi settanta minuti di grazia… ma partiamo dall’inizio!
Raccontaci come è nata e quali suggestioni hai seguito per comporre il lungo brano di apertura “Love On Our Shoulders”. A noi è parso – come scriviamo sopra – un girovagare onirico… ma intorno a cosa? Che tipo di paesaggio dipinge? Reale? Immaginario? Mentale?
La prima e l’ultima sezione sono create a specchio l’una dell’altra. Sono state le prime che ho composto, in modo da fornire un contesto narrativo in cui far muovere le sezioni centrali che avrei successivamente scritto, come si trattasse di un libro o un racconto. Trovo che con i brani lunghi tale approccio compositivo, fatto di numerosi movimenti differenti e di variazioni sul tema, funzioni meglio rispetto a una composizione lineare. Le sezioni centrali sono state spostate e cambiate numerose volte, con l’idea di creare un andamento a saliscendi, fatto di picchi e avvallamenti sonori, secondo uno schema tipico del post-rock. Penso che il risultato finale possa essere considerato come un “tone poem” (poema sinfonico), una composizione fortemente influenzata dall’impressionismo musicale e dalle forme di musica progressiva. Tutto ciò che è espresso in ‘Love On Our Shoulders’ è reale e proviene da esperienze personali. Ho voluto creare un mosaico di ricordi concentrati che abbracciano un tema compositivo più ampio. Credo che faccia parte semplicemente della continua lotta che affrontiamo nel trasmettere le proprie emozioni attraverso l’arte. Siamo molto bravi a complicare il vero significato delle parole.
Raccontaci di Bath, il luogo in cui sei nato e dove vivi: che tipo di città è? In che modo ha influenzato la tua musica, se lo ha fatto? E se sì, dove possiamo scorgerla all’interno del disco?
Sono nato a Barnstaple, una cittadina del North Devon. Sono cresciuto in mezzo alle coste e al folklore. C’è una forte tradizione di canzoni popolari e pub culture nel Devon, motivo per cui la mia scrittura deve molto a questa regione: ho anche fatto i miei primi concerti qui! Ora abito a Bath, che è la città più vicina con una grossa tradizione folk ed è anche dove studio. Bath ha sicuramente influenzato gli arrangiamenti delle mie canzoni, anche perché ci sono tantissimi musicisti talentuosi in zona con cui poter collaborare!
La trovo una bellissima città e trovo che il mio trasferimento a Bath sia stato un passaggio naturale nel mio percorso di crescita.
Nel tuo suono sentiamo il legno e le corde tese che vibrano. Ci sembra richiamare certe svagatezze acustiche che dagli anni sessanta portavano alle forme più libere e progressiste degli anni settanta (un nome su tutti: John Martyn). Cosa scorgi in questo mood quasi pastorale, che non trovi nei suoni moderni? Si accordano meglio al tuo mondo interiore?
Sì, “legnoso” è una parola interessante per descrivere la sensazione che il suono trasmette.
Sento di appartenere a un mondo musicale piccolo e confortevole, anche se poi “Lover’s Leap” suoni come un lavoro vasto, e sento anche che il calore che deriva dal luogo intimo da cui scrivo si manifesti negli arrangiamenti degli archi. Cerco di scriverne ogni singola linea come fosse una melodia a se stante, perché mi piace quando i miei arrangiamenti si snodano lungo il corso delle canzoni.
Da “(little boats)” a “(goldfish bowl)” abbiamo scorto un’altra suite nascosta che si snoda lungo cinque acquarelli che sono una lunga discesa da cui si risale con “Help Us!”. Ci abbiamo visto giusto? Avevi in mente questa dinamica?
Sì! Era intesa come una mini suite all’interno della struttura narrativa. Sono io che scompaio nel mio subconscio per circa 20 minuti. Ho pensato quella parte dell’album come un viaggio dal mare verso la terra: “Little Boats through to Help Us”.
Mi sono ispirato molto alla suite “Anthems in Eden” di Shirley e Dolly Collins.
Il tuo Beatle preferito era Paul McCartney? Scherzi a parte: quali sono stati gli ascolti con cui ti sei formato musicalmente, anche se – data la tua giovane età – immaginiamo che la tua formazione sia ancora in divenire
Lavorare in un negozio di dischi aiuta. Penso sia un po’ strano e fuori dal comune avere un simile approccio alla musica folk.
Non sono un collezionista alla Cecil Sharp, ma più una gazza ladra che costruisce un nido musicale a partire da quei rami che sono le canzoni.
Imparo in continuazione: è come cucinare!
Sicuramente c’è un continuo esercizio nel bilanciare le proprie influenze, ma non vorrei mai che la mia musica si riducesse semplicemente a un effetto nostalgia, fino al punto di distogliere l’attenzione dal contenuto. Al contempo però voglio celebrare i suoni che amo.
Nelle nostre conversazioni con gli artisti inglesi stiamo conducendo una sorta di indagine sul Folk britannico. Per noi italiani è difficile capire l’importanza e l’influenza che il patrimonio musicale folk esercita su un singer-songwriter britannico. Che rapporto hai con la musica folk della tua terra e quali influenze ne trai come musicista?
È un’influenza davvero molto importante. La mia ragazza è un’incredibile ricercatrice di suoni “lost and found” dal catalogo delle canzoni popolari inglesi. Mi piacciono le storie non scritte, tramandate a voce. È una vera e propria passione. La tradizione folk esercita anche una notevole influenza sul modo in cui suono i miei strumenti. Non posso suonare un mandolino senza pensare a Richard Thompson che rimbalza sulla tastiera in ‘Over The Hill’.
Nonostante abbiamo apprezzato molto i tuoi due lavori precedenti, crediamo che con questo terzo disco tu abbia fatto un balzo in avanti notevolissimo… Cosa è successo? Come si rapporta questo nuovo lavoro con i precedenti?
È stata davvero solo una questione di tempo. Ho passato un anno e mezzo a produrre Lover’s Leap, ovvero più tempo dei due lavori precedenti messi insieme. E credo anche di averci messo più impegno di quanto avessi mai fatto prima. Le prime tracce che ho registrato per l’album sono in realtà brani che non andavano bene per Seasons; ‘When This Is Over‘ e ‘Help Us’. Allora non sapevo cosa farne, così li ho messi da parte e ho iniziato a lavorare sul pezzo forte, ‘Love On Our Shoulders‘.
In “Lover’s Leap” abbiamo notato, rispetto ai lavori precedenti, una maggiore presenza della chitarra elettrica e attraverso di essa il manifestarsi di una vena sottile di morbida psichedelia che conferisce un suono sospeso e arcano a molte composizioni. Ci abbiamo visto (o sentito..) giusto?
Trovo sia un’osservazione pertinente. Ero consapevole, quando stavo registrando l’album, che la chitarra elettrica stesse guadagnando un ruolo più importante e influenzato per lo più dalla maniera di suonare di Lee Underwood sugli album jazz folk di Tim Buckley. Le canzoni ne avevano bisogno più di quanto non ne avessero mai avuto le altre che avevo mai scritto. “Devotion” è stato creato durante una session piuttosto breve, è stato scritto e registrato in un mese con gli stessi 6-7 musicisti che hanno contribuito attivamente agli arrangiamenti strumentali, mentre “Seasons” è stata più una raccolta, che una serie di canzoni legate da un flusso narrativo. Erano entrambi lavori leggeri come una piuma e la presenza della chitarra elettrica non era necessaria. In questo album invece la chitarra elettrica mi ha permesso di ampliare maggiormente il mio sound.
Stamattina ho ascoltato il disco mentre preparavo la colazione ai miei figli. Un momento in cui occorre fare attenzione ai tempi, se no fanno tardi a scuola… e, invece, mentre ascoltavo la tua musica, il tempo è sembrato scorrere più lentamente. Come se le tue composizioni riconnettessero a una percezione più naturale del tempo, diversa rispetto a quella mentale e frenetica che ci imponiamo. Qual è il tuo rapporto con il tempo? Lo chiediamo a un autore di soli venti anni, che piazza una suite di quattordici minuti come incipit del disco e, in generale, consegna un album della durata di settanta minuti…
Non ce n’è mai abbastanza, o troppo… e c’è sempre qualcosa da fare. Tutto nella mia vita è secondario rispetto alle mie relazioni con gli altri e alla mia musica. Non è affatto una coincidenza che le mie canzoni siano tutte più o meno basate su un aspetto della condizione umana. È un continuo studio sui rapporti umani e su come affrontarli. Si può dire che i primi due dischi affrontavano principalmente la mia relazione con me stesso nel tempo presente, mentre Lover’s Leap è maggiormente rivolto verso l’esterno, sia nella visione che nel suo raggio d’azione, ma si concentra anche fortemente sulla mia relazione con il passato.
Ti piacerebbe stampare il disco in formato fisico? Magari in vinile? Che rapporto hai con la musica in digitale?
Sono un collezionista di dischi, amo i supporti fisici. Sono anche un artista. Mi piacerebbe avere qualcosa di mio da poter mettere al posto d’onore in quella collezione. Immagino Lover’s Leap come un’esperienza in vinile dei vecchi tempi – avrà sicuramente bisogno di una copertina gatefold di tutto rispetto e conterrà anche un poster con illustrazioni aggiuntive.. Prima o poi accadrà, devo solo capire chi può farlo e nel migliore dei modi.
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