Damon Albarn – “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows 

Si potrebbe anche parlare di capolavoro, ma la verità è che questo disco è solo l’ennesimo, bellissimo, tassello di un capolavoro più grande, quello rappresentato dalla crescita umana e artistica di uno dei musicisti inglesi più importanti degli ultimi trent’anni. (D)

Damon Albarn - Polaris (Live Performance)

ZAÄAR – “Magická Džungl’a”

Si tratta di una costola del collettivo belga Neptunian Maximalism, che continua a esplorare paesaggi sonori allucinati e mostruosamente pesanti, da fare invidia ai Magma. “Magická Džungl’a” appare come una lunghissima e interessantissima jam di un’ora e mezza, per gli amanti del jazz più violento e dei ritmi tribali. (TL)

 

ZAÄAR - Respiration Aérobie (From album “Magická Džungl’a”)

The Colorist Orchestra & Howe Gelb – “Not On The Map 

Sono passati poco più di 5 anni da quando la dipartita di Leonard Cohen ha lasciato un vuoto difficile da colmare. Beh, ascoltare questo disco è un colpo al cuore, perché la voce di Howe, col passare degli anni, si é abbassata e arrochita il giusto per farci sobbalzare e rievocare il grande canadese. Ma è solo un attimo, perchè Gelb e la Colorist Orchestra ci regalano un disco sublime, che brilla di luce propria; un album dove i sussurri dell’artista americano si poggiano su trame, ordite dalla band (anzi orchestra), che impastano magistralmente suoni elettro-acustici, minimalismo, neoclassicismo, jazz, suoni latini, country folk, suggestioni  balcaniche con la spaziosità del deserto così caro a Gelb. Da Lassù il vecchio Leonard apprezzerà sicuramente. (M)

 


Dummy – “Mandatory Enjoyment

Di seguaci degli Stereolab e dei (troppo) spesso dimenticati Broadcast ne abbiamo visti tanti. Ma i Dummy hanno un qualcosa di speciale: dei due gruppi prendono la componente più krauta e, al classico motorik, affiancano spesso e volentieri chitarre shoegaze e un suono narcotico e “svogliato” alla Yo La Tengo …. I pezzi sono quasi sempre brevi e ficcanti ma soprattutto tremendamente catchy. Brani come “Fissured Ceramics”, “Punk product No. 4”, “Daffodils” e “X-Static blanket” si conficcano inesorabilmente nel cervello, mentre “Tapestry Distorsion” e la conclusiva “Atonal Poem”, vi trasporteranno in un altroquando, lo stesso da cui vi scrivo ora… (M)


Silk Sonic – “An Evening With”

Disco solare che risplende della medesima luccicanza che aveva il soul degli anni settanta quando, nel passaggio dal sacro al profano, aveva conservato un po’ dell’estasi spirituale del gospel. E proprio al soul degli anni d’oro il disco si rifà chiaramente, tra archi alla Isaac Hayes, melodie lussuriose alla Al Green e groove alla Funkadelic (presente anche Bootsy, d’altronde…). Il rischio è quello di apparire leziosi, ma i due ragazzi ne vengono quasi sempre fuori con un sorriso. Perfetta anche la durata del disco: un minutaggio maggiore avrebbe richiesto maggiore profondità, mentre con i suoi nove pezzi “An evening with” resta in superficie e vola alto. Feel Good Record! (D)

 

 


Lil Ugly Mane – “Volcanic Bird Enemy and the Voiced Concern

Il rapper e produttore di Richmond, spesso associato alla scena di Memphis, torna sulle scene con un album dal titolo improponibile, tutto autoprodotto e auto-distribuito. 

Non c’è però rap: si tratta di un disco di garage rock carico di componenti psichedeliche e ritornelli ben piazzati. (TL)


Tonnstartsbandht – “Petunia

Come si fa oggi della musica psichedelica che non sia un semplice revival? Il duo della Florida dal nome volutamente impronunciabile, non avrà LA risposta con la R maiuscola, ma di certo ne ha una propria, sgangherata e libera da vincoli, come si presenta questa band, che vanta ben 18 (!) dischi registrati in casa. Una risposta che parte da Haight Ashbury e dal Laurel Canyon, passa dai fratelli Wilson, fa una sosta in Arizona dai Meat Puppets, per poi jammare con i Sonic Youth più placidi di “Murray Street”, solo però dopo aver preso lezioni di suono “slacker” dai Pavement e… potrei andare avanti per un pezzo, ma mi fermo qui! E’ ora di ascoltare… (M)

 


Pist Idiots – “Idiocracy”

Sia benedetta l’Australia! Che ci regala questa band stracciona e poetica come da retorica loser anni ottanta, che suona come dei Rolling Coastal Blackout Fever sbronzi e punk. Insomma l’Aussie Rock è tornato nelle fattezze di questo cantante corpulento con i baffi: un terzo D. Boon, un terzo John Belushi (guardate il video e ditemi se, quando si spacca una bottiglia in testa da solo, non siamo in piena zona Bluto Blutarsky!), un terzo Jack Black. Shakerate bene e godetevi le bordate punk di “Idiocracy” che neanche gli Idles, le rullate finali di “Deadshit”, il jangle pop, perfetto per il pub, di “Juliette” o l’epica dimessa di brani come “Light Up Your World”, “She Yells Jack” o la conclusiva “Swill”! (D)

Pist Idiots - Juliette

 

Parannoul / Asian Glow / Sonhos Tomam Conta – “Downfall of the Neon Youth”

Di Parannoul avevo già parlato proprio in questa rubrica. Questa volta invece è per parlare di uno “split album” con altri due dei talenti più promettenti del mondo shoegaze. Un’improbabile collaborazione sull’asse Seoul – San Paolo produce un disco di rara intensità e dalla percepibile emotività. Provatelo! (TL)


The James Clark Institute – “The Colour Of Happy

Dopo l’acquisto del disco, ricevo una mail: “We thank you for your support and hope that “The Colour of Happy” brings you 34 minutes of happiness”. Raramente un messaggio di ringraziamento potrebbe rivelarsi più azzeccato. Perché “The Colour Of Happy” il nuovo disco del James Clark Institute esaudisce esattamente tale augurio, dispensando felicità a piene mani lungo il suo programma. Tutto già sentito, ma tutto semplicemente perfetto. Magari non ti cambia la vita, ma… vuoi mettere la soddisfazione di poter inserire un altro disco accanto a quelli di Alex Chilton, Ray Davies, Richard Swift, Minus Five e Jayhawks? (D)

 

The James Clark Institute - "Broken Boy"

Sarah Louise – “Earth Bow

Quello di Sarah Louise è un moto musicale perpetuo. Ad ogni disco la cantante e chitarrista americana si muove ed esplora nuovi lidi: dal fingerpicking american primitive dell’esordio, alle sperimentazioni avant e ambient di  “Nightime Birds and Morning Stars” , passando per il folk evocativo di “Deeper woods”. Il coprotagonista, però, rimane sempre il medesimo, ovvero la natura che ritroviamo nel nuovo “Earth Bow”; disco che rappresenta un po’ la summa e la sintesi di tutte le sue esperienze precedenti. L’effetto è uno straordinario trip naturalistico, sotto forma di canzoni legate a formare una duplice suite. Il cantato, stilisticamente vicino al folk britannico, è sospeso in una trama avvolgente, costituita da strati apparentemente infiniti di chitarre, tappeti elettronici, percussioni, batterie che vanno e vengono e inserti di strumenti acustici. Insomma una vera meraviglia (M)


Injury Reserve – “By The time I get To Phoenix

A poco più di due anni di distanza dall’omonimo primo album e reduci dalla morte di Stepa Groggs, il duo dell’Arizona torna sulle scene con un album destrutturato, dalla rara potenza emotiva e violenza sonora, il cui ascolto, come capitava per i cLOUDDEAD, spinge a chiedersi: “ma questo è ancora hip-hop?”. (TL)

Injury Reserve - Knees