Bastano pochi secondi per restare intrappolati nella musica. Una serie di accordi di piano, scintillanti e melodici, un discreto drumming con un colpo sul charleston e uno sulla grancassa, una chitarra elettrica liquida e distorta e una voce rauca e vissuta. L’album degli Springtime comincia così, con il crescendo inesorabile di questo pattern, la cui ripetizione ciclica finisce per travolgere i sensi dell’ascoltatore.

Springtime - Will To Power (Official Video)

Al termine della prima canzone, “The Will To Power”, avevo già deciso di iniziare la mia recensione con le parole sopra riportate ma già con il brano successivo, “The viaduct love suicide”, avevo cambiato idea, completamente irretito dalle poche note sparse di piano immerse nel riverbero e da una batteria quasi impercettibile in sottofondo. Un incantesimo che ti proietta in riva al mare accarezzato dal suono delle onde. Quando poi entra quella voce sofferta, dotata di un magnetismo alla Nick Cave, ecco che cominci involontariamente ad avanzare, immergendoti, passo dopo passo, sempre di più nell’acqua. Il brano prende lentamente corpo, una forma spumosa, il suono di una chitarra ti attira come il canto delle sirene e ti accorgi di non sentire più la terra sotto i piedi, ma di stare galleggiando. La vita di tutti i giorni non ti è mai sembrata così lontana.

Springtime - The Viaduct Love Suicide (Official Video)

Aprire quindi con entrambi questi paragrafi così differenti, come del resto sono i due brani, mi è parsa la maniera più adatta a inquadrare il disco nel migliore dei modi; si tratta, infatti, di un album che si caratterizza proprio per un vertiginoso “dislivello”, espressivo ed emozionale, i cui picchi e avvallamenti sono perfettamente rappresentati dalle prime due tracce.

Ma chi sono gli Springtime? Si tratta di un trio australiano formato da Gareth Liddiard (voce, chitarra) dei Tropical Fuck Storm e prima di The Drones, Chris Abrahams (piano, organo) di The Necks e Jim White (batteria) dei Dirty Three e dei Xylouris White e mille altri progetti. Un supergruppo dunque, un termine ricorrente nel rock che spesso porta con sé grandi aspettative e risultati modesti. Non è questo il caso però, anzi, l’album prenota già un posto nelle classifiche di fine anno.

Non si tratta di una mera giustapposizione dei tre componenti, come spesso accade appunto nei supergruppi, ma di una sintesi alla quale ognuno contribuisce con le proprie caratteristiche e sensibilità. Usando una metafora cinematografica potremmo dire che, se l’album fosse un film, Gareth Liddiard si candiderebbe a migliore interprete per la sua interpretazione vocale (i miei soci mi dicono che se la giocherebbe con Joe Talbot degli Idles) e agli effetti speciali (rigorosamente analogici e artigianali) per il suo lavoro chitarristico, Chris Abrahams a miglior attore non protagonista per il suo magistrale lavoro in secondo piano, mentre Jim White alla migliore scenografia per la capacità di creare l’impalcatura scenica attorno alla quale si sviluppano i brani. Ma ciò che fa la differenza è la sinergia instaurata tra i tre che, esaltando le peculiarità individuali, si concretizza in un’interpretazione di intensità mostruosa e quasi, soprattutto nel caso di Liddiard, da “ o la vita o la morte” (artistica).

Se a questa densità emotiva affianchiamo una scrittura potente, il risultato finale è un album più che semplicemente “bello”, ma anche memorabile e, come tale, destinato a restare, cosa non da poco in un momento storico in cui ogni cosa sembra effimera. I brani sono tutti significativi e degni di menzione: c’è la litania di “Jeanie in a bottle” con un piano rotolante travolto nel finale da un impeto noise, l’accorata ballata (registrata dal vivo) “West Palm beach” (cover di Bonnie Prince Billy periodo Palace ma fatta propria dal trio) che culmina in un superbo e dissonante assolo di chitarra, ”The Island” dove a un delicato incedere succede un delirio psicotico e i drammatici nove minuti di “The killing of The village Idiot”.

Ho lasciato volutamente per ultimo il traditional irlandese “She moved through the fair”, reinterpretato in una versione che, nella sua declinazione lirica e moderna, sospesa tra uno spirito avant e un incedere statico quasi slow core, non perde un briciolo della sua originale identità, evocativa e spettrale.

Non sappiamo se si tratti di un episodio isolato o se Springtime sia destinato a diventare un gruppo effettivo, ma l’album sembra rappresentare uno di quei rari momenti di allineamento dei pianeti che si riescono a vedere una sola volta nella vita, quando si è fortunati. Speriamo di sbagliarci, ma in fondo non è così importante visto che possiamo goderci, qui e ora, ciò che la buona sorte e i tre artisti australiani ci hanno donato.