… alla fine finisce che uno dei migliori dischi pop dell’anno lo pubblicano due ragazzi di Roma, Dominique D’Avanzo e Emanuele Sterbini, che dietro la ragione sociale di Sterbus danno alle stampe con “Let Your Garden Sleep In” una delle migliori scalette dell’anno, se quello di cui andate in cerca sono le melodie dei Pastels e la verve gentile dei Belle and Sebastian, ma anche gli steroidi chitarristici che irrobustiscono da trent’anni le filastrocche pop dei Guided By Voices o le melodie a presa rapida dei They Might Be Giants.
Senza dimenticare la guida spirituale rappresentata dal compianto leader dei Cardiacs, Tim Smith, in relazione al quale noi e Emanuele ci eravamo già fatti una bellissima chiacchierata QUI.
Il disco ci è piaciuto talmente tanto che abbiamo deciso di ripetere l’esperienza con una nuova intervista, facendoci raccontare la genesi di “Let Your Garden Sleep In” e in generale tutto quello che gira attorno al progetto Sterbus.
INTERVISTA STERBUS
Partiamo innanzitutto dal titolo di questo nuovo lavoro “Let Your Garden Sleep In”. Da dove nasce?
Emanuele: Avevamo diversi “titoli di lavoro”, come “Pop Secret”, “Pop Gun” e “Quick and To The Chorus”… poi abbiamo incrociato questo cartello su Facebook, in cui campeggiava la scritta che è poi diventata il titolo del disco: ci sembrava ricco di metafore e significati. Il cartello – come il nostro disco – invitava a prendersi il proprio tempo prima di far sbocciare i propri frutti, anche a costo di dare l’idea di essere rimasti indietro.
Facciamo allora un passo indietro e partiamo dall’inizio. Come nascono gli Sterbus? Se non sbaglio il gruppo è nato come un progetto personale del solo Emanuele al quale poi si è aggiunta Dominique.
Emanuele: Ho iniziato come bassista e per molti anni mi sono limitato a quello, anche se in realtà avevo cominciato da subito a scrivere canzoni, tenendole per me. Quando mi sono deciso a inciderle sono nati i primi dischi: “Eva Anger” del 2007, “Chi ha ordinato gli spinaci” del 2010, “Iranian Doom” del 2011 e “Smash The Sun Alight” del 2012.
La svolta avviene nel 2013, quando mi invitano a Londra a suonare a un concerto tributo dei Cardiacs. A quel punto dovevo mettere su una band ed è lì che è cominciata la collaborazione con Dominique che fin dal 2004 chiamavo ogni qual volta mi serviva una voce femminile e di cui ammiravo la capacità di scrittura (conservo ancora il sogno di produrre un suo disco con pezzi che si muovano tra i Low ed Elliott Smith).
Dalla serata londinese, è nato Sterbus come gruppo che stranamente ha acquisito, magari grazie alla “famiglia Cardiacs”, una fan base inglese e solo successivamente italiana. Il progetto si è assestato attorno a me e Dominique, che ne rappresentiamo il nucleo centrale, mentre gli altri musicisti girano un po’. Pensa che nel disco precedente “Real Estate/Fake Inverno” alla batteria siamo riusciti ad avere il batterista dei Cardiacs Bob Leith!
Dominique: Confermo tutto! Ho cominciato, canticchiando e suonando da autodidatta la chitarra, per poi fare qualche piccolo concerto con Emanuele. Da lì è nata l’idea di incidere alcune cover dei Cardiacs (“Dirty Boy” e “Anything I can’t Eat”), che credo siano state la prova generale per il concerto del 2013 a Londra, da cui – appunto – è nato il progetto Sterbus come gruppo.
Nel 2014 ho cominciato a studiare clarinetto, mentre nel 2015 Emanuele mi ha regalato il flauto traverso ed ho cominciato a fare il giocoliere durante i concerti con i vari strumenti a fiato.
Quando il progetto si struttura attorno a voi due cambia qualcosa a livello di scrittura? Come avviene la scrittura dei brani e la ripartizione delle parti cantate?
Emanuele: In linea generale io scrivo la musica e Dominique si occupa dei testi. Quando scriviamo non ci preoccupiamo mai di chi canterà il brano, così come non ci preoccupiamo di suonare solo arrangiamenti che possiamo riprodurre dal vivo. D’altronde quello che resta sono i dischi: sono contento che i Beatles abbiamo messo le trombe nei loro lavori e non mi sognerei mai di dire che però “dal vivo non c’erano”!
Dominique: Per quanto riguarda la scelta della voce che dovrà cantare, c’è da dire che Emanuele ha un repertorio di canzoni sterminato, perché scrive da quando era ragazzino e spesso capita di ripescarne qualcuna anche molto vecchia. In queste canzoni di solito prevale la sua voce, mentre le canzoni scritte più di recente spesso sono già pensate per la mia voce.
Emanuele: Le nuove canzoni spesso nascono improvvisando insieme. Come “Poligone Bye” oppure a volte ci si accorge in corsa che un brano che all’inizio dovevo cantare io, verrebbe meglio se cantato da Dominique, come ad esempio è successo per “My Friend Tim”.
Veniamo al nuovo disco. La prima domanda che sorge è relativa alla notevole differenza con il disco precedente, “Real Estate/Fake Inverno”. Gli Sterbus sono adesso più asciutti e se prima si muovevano quasi in area prog, ora presentano un piglio smaccatamente power pop. Se non un’altra band, sembra un gruppo che ha fatto una decisa scelta di campo.
Emanuele: Sono cresciuto amando diversi generi, a volte molto diversi e contrastanti fra loro! Il nuovo disco in effetti ha delle influenze molto anni novanta: puoi trovarci i Grandaddy, i Guided By Voices, qualcosa dei Pavement. Ma anche i R.E.M., omaggiati anche in un titolo (ndr “Gardeners at Night”), i Sebadoh o i Dinosaur Jr. Se nel disco precedente cercavamo un po’ di stupire con fuochi d’artificio, che magari potevano sembrare poco spontanei, qui abbiamo cercato una scrittura più vera e più pura, che fosse più inclusiva anche nei confronti degli ascoltatori.
Dunque è una scelta che nasce da un’autocritica rispetto a quanto fatto nell’album precedente?
Emanuele: Diciamo che dentro di me ci sono diverse personalità multiple e quando una prende il sopravvento odia tutte quelle che lo hanno preceduto! Scherzi a parte, il disco precedente soddisfava la mia passione per i tempi dispari, le strutture particolari e altre cose di cui sento il bisogno nella mia “dieta audio”. Nel nuovo album avevo voglia di ritornelli che andassero dritti al punto.
Crediamo si tratti comunque di un atto di coraggio: a volte dietro ai fuochi di artificio ci si può nascondere, mentre puntando tutto sulla canzone ci si mette a nudo e si scommette sulla propria capacità di scrittura. Oltre poi al rischio di scontentare chi amava le vostre cose più arzigogolate.
Emanuele: Effettivamente c’è la paura che chi ha amato il disco precedente possa trovarsi spiazzato, perchè non trova il tempo o l’accordo strano o magari non apprezza la semplicità e l’immediatezza di un ritornello… ma credo che un artista non debba preoccuparsi troppo di queste reazioni: se ha un’idea deve percorrerla e andare per la propria strada.
Dominique: Io non ho avvertito molta differenza: per me alla fine le canzoni sono belle o brutte. Però sicuramente ho seguito l’intenzione di Emanuele di fare un disco più dritto e powerpop… e credo sia venuto bene!
Chi sono i musicisti che vi hanno aiutato in questo episodio?
Emanuele: io mi sono occupato del basso e di tutte le parti di chitarra, mentre Dominique ha suonato il flauto e il clarinetto. Alla batteria c’è Pablo Tarli che è il figlio del mio caro amico Tiziano con cui suonavo già vent’anni fa (e con cui tuttora suono in un’altra band, gli Zac). Francesco Grammatico, proprietario dello studio dove abbiamo registrato, il “Jungle Factory” di Tivoli, ha suonato un po’ di tutto: tromba, trombone e violoncello. Dei tasti si è occupato il nostro tastierista Riccardo Piergiovanni che suona con noi anche dal vivo. Questo è il nucleo principale, poi abbiamo avuto qualche ospite esterno. Gli archi, ad esempio, sono stati suonati dal duo romano “Layer Bows”.
Facciamo un gioco sulle canzoni: noi diciamo il titolo e voi ce ne parlate liberamente. Cominciamo con “Nothing Of Concern”.
Emanuele: Il titolo nasce da un aneddoto. Spediamo il nostro disco precedente a un nostro fan australiano e il pacco viene fermato in dogana, ispezionato e poi inoltrato al ragazzo con un foglio che diceva appunto “Nothing of Concern”: era come se avessero ascoltato il disco e lo avessero trovato “niente di preoccupante”! Insomma, recensiti dalla dogana…
Dal punto di vista musicale mi ero innamorato di un singolo dei Lemon Twigs “The One” (altro gruppo che a sua volta si era molto “raddrizzato”) e volevo ricreare quel tipo di scrittura gioiosa. La parte per quartetto d’archi che abbiamo scritto e arrangiato con Riccardo Piergiovanni invece proviene dal mio trip verso la Electric Light Orchestra!
“Stalking Heads”
Dominique: Diciamo solo che il titolo di lavorazione del brano era “Belle & Sebastian”…
Emanuele: E’ una canzone piuttosto vecchia, ma che da subito prevedeva un botta e risposta uomo-donna. Alle suggestioni alla Belle & Sebastian, abbiamo aggiunto un assolo di chitarra alla Brian May (suonato da Andrea Sgarzi), l’harpsicord, il violoncello alla ELO e una parte reggae che arriva all’improvviso.
“Polygone Bye”
Emanuele: Originariamente era un pezzo molto più lento con un riff di chitarra che poteva ricordare le ballate dei Velvet Underground. Poi ha prevalso la vena beatlesiana: abbiamo inserito un omaggio a “Dear Prudence” (l’assolo di batteria finale ricalca quello di Paul McCartney) e nel testo c’è un richiamo a “She Said, She Said”…
“B-Flat Love”
Emanuele: Le prime bozze del brano risalgono addirittura al 2002, quando fui folgorato dal primo disco che ascoltai dei Guided By Voices, “Do the collapse”, che era prodotto da Ric Ocasek dei Cars, uno di quei musicisti che sa quando e come deve entrare un ritornello. Per anni l’ho suonato dal vivo, ma stavolta ho deciso che era giunta l’ora di registrarlo per bene.
L’abbiamo leggermente “cardiacsizzata” con i tempi dispari e le voci alternate nella terza strofa e poi c’è il finale epico rallentato con il nostro amico Emanuele Binelli che canta i ritornelli nella coda. C’è pure un piccolo omaggio ai Ramones, ma non vorrei passare per il citazionista a tutti i costi…
“Helpless waitress”
Emanuele: Non resisto! Questo è il nostro “brano Grandaddy”. La canzone è nata da questa melodia fatta un po’ a scalini in discesa. Quando poi è entrata la voce di Dominique , vi abbiamo costruito il resto del brano attorno. Alla fine è uno di quelli che preferisco.
“Gardeners at night”
Emanuele: E’ una delle prime canzoni che sono state scritte per il disco. Un brano con un sacco di lavoro dietro: l’intermezzo con il flauto traverso e il basso che suonano la stessa melodia, le voci cui abbiamo dato un suono molto moderno alla Porcupine Tree e che si intrecciano in un botta e risposta tra voci maschili e femminili… Insomma ci siamo divertiti! Non sono un tipo da “less is more”. Per me è sempre “more is more” ed é sempre un valore aggiunto se c’è qualcosa che arricchisce la parte vocale… forse perché non sono uno di quei cantanti che hanno una voce capace di reggere al 100% il brano. Da questo punto di vista la bellissima voce di Dominique è molto preziosa e per questo, quando scrivo, so sempre che le armonie vocali faranno parte dell’arrangiamento.
“My Friend Tim”.
Dominique: La canzone è dedicata a Tim Smith, leader dei Cardiacs, che è venuto a mancare nel 2020. Ad Emanuele è venuto questo primo verso “My Friend Tim” e quindi mi sono ritrovata investita della responsabilità di scrivere il testo di un omaggio a uno dei suoi più grandi idoli…
Emanuele: … e ha fatto un ottimo lavoro! Forse perché alla fine anche lei ha finito in questi anni per immergersi nel mondo dei Cardiacs. Ho conosciuto Tim di persona e volevo omaggiarlo non con una “canzone alla Cardiacs”, ma piuttosto con qualcosa di accorato.
Inutile dire che i Beatles hanno fatto capolino anche qua: un coro richiama quello di “Nowhere Man”, il suono della chitarra è quello liquido di George Harrison e poi … c’è il campanaccio che entra nell’assolo che fa molto “Drive My Car”. Ma dopotutto Tim Smith era un grande fan dei Beatles…
“The Accidentalist”.
Emanuele: E’ nata con il capotasto al settimo tasto come “Here comes the sun”: mi piaceva quel suono di acustica, cui abbiamo aggiunto atmosfere piuttosto pastorali tramite i flauti. Forse è il pezzo più americano del disco, un po’ “Trials of Van Occupanther” dei Midlake, con tanto di assolo di violino elettrico (di Mario Gentili) di ispirazione texana.
“Murmurations” (che forse è il pezzo che ricorda maggiormente i “vecchi” sterbus…)
Dominique: In effetti, è un po’ la nuova “Trapeze” (dal precedente disco) che era anch’essa una ballata un po’ più lenta con questo crescendo emotivo molto forte. Per il testo ho preso ispirazione dal mito di Orfeo e di Euridice: si racconta di Orfeo che canta l’uscita dalla caverna dell’Ade con Euridice fino al noto tragico finale.
Emanuele: Ho scritto la melodia in un periodo della mia vita in cui tornavo a casa sempre tardi e mi trovavo a suonare piano degli arpeggi sempre più quieti. Il brano è nato dunque solo chitarra acustica e voce. E stava per essere escluso dal disco perché ci sembrava fuori contesto, rispetto alle altre canzoni dirette e veloci. Poi è anche venuto fuori il finale rock durante una take con la band ed allora è diventato il finale del disco. In questo brano abbiamo avuto ospite alla tromba Al Strachan degli inglesi Crayola Lectern, che con i suoi interventi ci ha aiutato moltissimo a raggiungere l’effetto “late Talk Talk” che volevamo dare alla prima parte del brano.
Anche la scaletta sembra studiata molto bene, con una prima parte più veloce e tirata e una seconda più lenta e avvolgente…
Emanuele: Dedico sempre tantissimo tempo a capire qual è la scaletta migliore e non è mai facile. In questo caso abbiamo provato decine di ordinamenti e non sapevamo bene che principio rispettare e abbiamo pensato di fare come i Radiohead in ordine alfabetico o persino di metterle in ordine decrescente in base alla velocità di battiti per minuto…
Dominique: c’è stata anche l’ipotesi di mettere Murmurations come primo pezzo!
Emanuele: Volevamo fare come i Beatles che avevano la regola dei tre pezzi veloci e una ballata, ma in loro pezzi duravano 2 minuti e 20 non 4 minuti… Diciamo che l’idea principale era quella di non far scendere la tensione e l’attenzione, almeno fino a quando non arriva “Helpless Waitress”. E’ come una messa: fino al quarto pezzo stai in piedi e poi finalmente al quinto pezzo ti puoi sedere.
Pandemia permettendo, cercherete di portare il disco dal vivo con la band?
Emanuele: Ci piacerebbe riuscire a fare qualche bel concerto in formazione elettrica, cioè basso chitarra e batteria e stiamo cercando di organizzare qualcosa del genere a Roma. Ma sicuramente suoneremo in formazione acustica, io, Dominique e il nostro pianista. D’altronde il disco si presta anche a essere suonato chitarra e voce.
Dominique: Sicuramente la maggior parte delle date saranno acustiche, anche perchè è difficile trovare nella realtà del nostro territorio locali dove suonare full band in elettrico, ma vogliamo comunque fare qualche tentativo perchè il disco lo meriterebbe. In ogni caso, almeno la presentazione del disco sarà sicuramente in elettrico.
Come sarà il prossimo disco? Ci avete preso gusto con questi Sterbus più asciutti o sentite la mancanza di un po’ di quella follia sregolata dei dischi precedenti?
Emanuele: Ci sono varie possibilità… perché da una parte originariamente questo album avrebbe dovuto uscire in edizione limitata con un EP incluso che si sarebbe dovuto chiamare “Solar barbecue” con dentro tutti i brani strumentali, prog e “storti” che abbiamo registrato nei dischi precedenti (più un inedito registrato nelle session del disco nuovo).
Abbiamo deciso di aspettare… e adesso l’EP adesso rischia di diventare un’uscita vera e propria, anche perchè dopotutto dura solo 5-10 minuti meno del disco.
Poi vorremmo anche lavorare su un disco in italiano, ma sempre alla Sterbus. In passato abbiamo partecipato a un laboratorio condotto da Filippo Gatti, per cui abbiamo realizzato una canzone con testo in italiano intitolata “Metro” nella quale era ospita Motta alle percussioni.
Infine, abbiamo un progetto strumentale di colonne sonore. Grazie al flauto e al clarinetto di Dominique, abbiamo dieci, undici brani acustici, con atmosfere e melodie eteree che vanno un po’ a comporre la colonna sonora di un film che non esiste, ma che magari potrebbe interessare qualcuno….
O magari potremmo fare un disco senza uno stile preciso… che metta in fila stili differenti, come una sorta di “White album”.
Per ultimo volevamo citare l’esperienza della cover di “Another Satellite” trasmessa alla convention online 2021 degli XTC.
Emanuele: Quello è un pezzo degli XTC che mi è sempre piaciuto, ma che mi sembra spesso passi inosservato rispetto agli altri pezzi più ritmati di “Skylarking”. Mi è sembrato dunque interessante provare a velocizzarlo, nonostante sia sempre un rischio velocizzare un brano perché potresti dare l’impressione di prendersi gioco del pezzo originale o comunque di farlo diventare uno scherzo. Ha collaborato con noi un ospite americano, Max Crowe, conosciuto tramite la famiglia Cardiacs, che si è occupato dei synth e degli arpeggiatori e ha fatto davvero un bel lavoro. Mentre invece l’assolo di chitarra finale è di un nostro amico che si chiama Martino Petrella.
Potete trovare “Let Your Garden Sleep in” e gli altri dischi degli Sterbus sulla pagina bandcamp del gruppo
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