I Low sono una delle band più importanti del rock degli ultimi 30 anni o giù di lì.
Una dinamica comune nella vita delle band più longeve e influenti vuole che, dopo una fase di crescita ed evoluzione, ne sopraggiunga un’altra più “pianeggiante”, in cui si amministra (magari con meno eccitazione…) l’impero che si é costruito disco dopo disco, plauso dopo plauso. A questa fase sembravano essere giunti i Low, quando nel 2013 con “The Invisible Way“ raggiungevano una perfezione formale e sostanziale capace di cristallizzare la bellezza che per vent’anni i coniugi Sparhawk avevano saputo declinare in musica. Quel disco, assieme al precedente “C’mon” (2011), si rivelava talmente appagante per gli ascoltatori che probabilmente nessuno avrebbe preteso un ulteriore scatto in avanti dalla band del Minnesota.
Seguendo la dinamica di cui sopra, si poteva dunque prevedere per i Low un percorso “in pianura”, tutto volto a levigare di album in album la perfezione acquisita, increspandola al massimo con le piccole variazioni cagionate dalle scelte di qualche produttore di peso.
A pensarla in maniera differente erano però proprio quei due mormoni venuti dal freddo che, di fronte al bivio tra la comoda strada verso una pensione di lusso e un viottolo accidentato e tortuoso con destinazione ignota, hanno optato per quest’ultimo.
A ben vedere, già nel 2007 con il controverso “Drums & Guns” la band aveva lanciato segnali di inquietudine e tentazioni di discontinuità: pubblicato dopo il più rock e accessibile “The Great Destroyer”, quel disco preferiva al sound corposo e solare del suo predecessore delle sonorità più cupe e minimali e una presenza piuttosto marcata di elementi elettronici. Il risultato, per quanto interessante, parve all’epoca irrisolto e anche la band sembrò fare un passo indietro, pubblicando proprio i due instant classic di cui si è detto: “C’mon” e “The Invisible Way”.
Tuttavia possiamo oggi dire che il superamento del suono chitarristico e l’atmosfera plumbea di “Drums and Guns” hanno adesso fatto ritorno nel sound dei Low, costituendo anzi i pilastri su cui Alan e Mimi, con maggiore consapevolezza e padronanza, hanno tracciato la nuova e diversa strada verso la consueta meta: la trascendente bellezza targata Low.
Un nuovo corso che prende le mosse da un disco e un produttore: “Ones and Sixes” e BJ Burton.
BJ BURTON – IL TERZO UOMO
Nativo di Raleigh, North Carolina, BJ Burton, a partire dalla seconda metà degli anni ‘00, riesce a inserire nel proprio curriculum di produttore una serie di band che spaziano dal rap all’indie-rock, come Love Language, Sylvan Esso, Marjuana Deathsquad, The Staves e Lizzo.
Fondamentale per il prosieguo della carriera si rivelerà l’incontro con i DeYarmond Edison, band giunta dal Wisconsin per cercare nuovi stimoli, ma che finisce piuttosto per sciogliersi e figliare due band per i quali BJ lavorerà come produttore: i Megafaun e Bon Iver. E’, in particolare, con la band di Justin Vernon che BJ instaura un rapporto di collaborazione estremamente proficuo, che – dopo la partecipazione di Burton alle registrazioni di “Repave”, secondo disco dei Vulcano Choir – sfocia nelle fondamentali session dell’attesissimo terzo disco di Bon Iver “22, A Million” (2016).
Le strade con Alan Sparhawk si congiungono invece nel 2014, quando il chitarrista dei Low è impegnato nella produzione di “Wild Animals” del gruppo bluegrass Trampled by The Turtles e si ritrova BJ alla console di registrazione.
Alan finirà per trovare in BJ la spalla perfetta per spostare il suono dei Low verso quel “gospel evoluto” che il produttore di Raleigh indirizzerà verso un suono “digitalmente addizionato”, in una operazione concettualmente non dissimile da quella compiuta assieme a Justin Vernon.
Il primo parto della collaborazione tra i Low e BJ è dunque “Ones And Sixes” (2015), che riesce laddove “Drums And Guns” falliva: essere il perfetto disco di transizione tra la fase classica della band e quella più sperimentale. In “Ones and Sixes” si resta dunque ancora a metà del guado: da un lato brani tradizionali, come l’accorata ballata “Lies” o il gioiellino pop di “What Part Of Me”, dall’altro pezzi più glaciali, come “Gentle”, “No Comprende”, “Congregation” e “The Innocents”, che preconizzano già il suono che da lì a poco deflagrerà in “Double Negative”.
Alan e Mimi tornano ad avventurarsi nel suono, cercando – attraverso l’interazione con Burton e le sue manipolazioni sonore – un punto di approdo che dia nuova veste al rapporto tra la forma e la sostanza della loro musica.
L’esito ultimo di questa ricerca saranno le saturazioni digitali di “Double Negative”, sperimentate dapprima con Bon Iver in “22, A Million” e nate – come racconta lo stesso BJ – quasi per errore:
“Abbiamo inciso le prime registrazioni di quell’album su un registratore a nastro che poi useremo su tutto il disco. Il suono è in “clipping” e risulta distorto per via della saturazione. La prima canzone su cui abbiamo lavorato è stata la seconda traccia dell’album [“10 d E A T h b R E a s T”, che è davvero “scoppiettante”. Justin stava colpendo la grancassa per provare il registratore; nel frattempo io ho alzato “a manetta” l’input. Quello che è venuto fuori è stato uno strano pattern ritmico. Alla fine abbiamo finito per utilizzare quella tape machine molto spesso, inserendo in ingresso le tracce e clippandole per ottenere diversi ritmi”
La scoperta di questa tecnica di registrazione rappresenta un momento di illuminazione involontaria… ma d’altronde – come sosteneva tempo addietro Brian Eno – occorre sempre onorare il proprio errore come fosse un’intenzione nascosta.
I suoni volutamente saturi, densi e distorti visti in alcuni episodi di “Ones And Sixes”, come ad esempio “Gentle”, diventano la pietra angolare su cui viene costruito il suo successore. Nell’acclamato “Double Negative” del 2018 la trasfigurazione delle parti suonate viene operata tramite la distorsione ottenuta con l’utilizzo non ortodosso delle tecniche di registrazione. Il risultato è un suono inedito e inaudito che raggiunge l’obiettivo di superare il sound chitarristico dello slow-core, evitando da un lato il ricorso all’elettronica “tradizionale” e dall’altro richiamando l’impatto e la dinamica delle distorsioni chitarristiche.
Una densità di suono che sembra comprimere il fattore umano, con le voci dei due coniugi costrette a lottare per non soccombere al rumore bianco del suono digitale e compresso. Uno scontro da cui si origina non solo l’ennesimo picco della discografia del gruppo e del rock più recente, ma anche una nuova perfetta rimodulazione del rapporto conflittuale tra forma e sostanza.
Un conflitto che trova un equilibrio ancora diverso e maggiormente pacificato nel nuovo lavoro della band: “Hey What”.
HEY WHAT?
Pubblicato nel settembre del 2021, sempre sotto la supervisione di un BJ Burton ormai diventato a tutti gli effetti il terzo polo creativo dei Low, Hey What presenta una struttura per cui, in mezzo ai due estremi rappresentati dall’incipit di “White Horses“/“I Can’t wait“ e dal finale di “The price you pay“, viene collocato il singolo che ha anticipato l’uscita del disco “Days like this“.
Il risultato è una bipartizione del disco. La prima parte (“All Night”, “Disappearing”, “Hey”) é dominata da sonorità ambient: un oceano di suono che procede a ondate per lo più lente e solenni, ma che saltuariamente si concedono picchi rumoristici. Le canzoni sono per lo più dei gospel armonicamente piuttosto semplici, ma che vengono resi magici dall’impasto celestiale delle voci di Mimi e Alan, la cui interazione da sempre rappresenta uno dei segreti della “formula Low”.
A mo’ di intermezzo provvede il singolo “Days Like This” che, oltre a far sentire il primo strumento non manipolato del disco (la chitarra elettrica di Alan), funge da paradigma e riassunto di quanto ascoltato finora (linee melodiche gospel, canto corale, picchi di rumore saturo, placide oasi ambient).
Segue una seconda parte più varia e movimentata, in cui si susseguono le ondulazioni noise di “There’s a Comma After Still“ e le chitarre elettriche, deformate digitalmente, di “More”, per finire con l’apice emotivo del disco (nonché dei Low tutti) ovvero il finale di “The Price you Pay (It Must Be Wearing Off)”.
L’approdo verso una versione moderna e digitalmente disturbata dello Spiritual assieme alla dilatazione ambient delle trame sonore rappresentano i fattori che più distinguono “Hey What” da “Double Negative”.
Si tratta infatti a ben vedere di due dischi diversi negli intenti.
Se “Double Negative”, nel demolire ciò che era stato e avviare un nuovo inizio, raccontava il mondo moderno, digitale e saturo di informazione con un suono che nella distorsione sonora riecheggiava quella cognitiva; “Hey What” esprime invece l’anelito a quella trascendenza che giunge dopo l’accettazione serena dell’impossibilità di gestire le cose terrene.
Un esempio di tale poetica ce lo offre il testo di “Days Like These”:
“When you think you’ve seen everything
You’ll find we’re living in days like these
….
It isn’t something you can choose between
It isn’t coming in twos and threes
Always looking for that one sure thing
Oh, you wanted so desperately
No, you’re never gonna feel complete
No, you’re never gonna be released
Maybe never even see, believe
That’s why we’re living in days like these again”
Se in “Double Negative” infatti la dimensione politica era notevole (i due coniugi hanno dichiarato più volte che il disco era stato molto influenzato dalle politiche dell’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump), “Hey What” parla un linguaggio più umano, che pacifica il conflitto tra la componente elettronica e quella umana, allentando la pressione della densità noise per far così espandere nuovamente l’elemento umano.
Un nuovo equilibrio che potrebbe anche sanare la frattura che “Double Negative” aveva creato tra l’incarnazione live della band e quella immortalata negli studi di registrazione. Chi ha avuto la fortuna di assistere al tour del lavoro del 2018 avrà infatti potuto constatare come i brani del disco venissero presentati al pubblico in una veste più simile al suono classico della band, confinando di fatto le esplorazioni elettroniche alla sola dimensione discografica.
Le nuove canzoni presenti in “Hey What” sembrano poter colmare la distanza tra le due incarnazioni, ricercando una sintesi e trovando nella trascendenza del suono gospel/ambient un’identità capace di rappresentare in maniera unitaria e completa l’esperienza del suono Low.
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