In un film di qualche tempo fa si diceva che una delle cose più frustranti della vita é che nessuno ti rivolge mai le domande giuste. Che non sono, per intenderci, quelle di cui conosci la risposta, ma quelle a cui ti piacerebbe poter fornire la tua risposta.
Ad esempio, per quanto mi riguarda, una delle domande che vorrei qualcuno mi rivolgesse è: “Qual è la canzone più drammatica di Brian Wilson?”
Ecco la mia risposta: “Mona”.
Mona
Come-a come-a come-a come to me
Gimme gimme gimme some lovin’
Tell me tell me tell me you want it
Listen, listen, listen, my Mona
Già il fatto che il brano si trovi sull’album “Love you” rappresenta ben più che un indizio: quel disco era una sorta di dispaccio inaspettato, giunto dal luogo in cui Brian si era nascosto, afflitto da un crollo nervoso che durava da anni e che ne aveva praticamente distrutto il genio.
Pubblicato nel 1977, “Love you” nasceva dalle ceneri di un disco solista poi mai realizzato e veniva distribuito nel pieno di una campagna pubblicitaria che sfruttava il claim “Brian’s back”. Ma l’ispirazione e l’arte non sono una questione di marketing e Brian Wilson, in quel momento, poteva giusto permettersi di spedire questa (preziosissima) cartolina da quello che più che un luogo fisico, era un altrove mentale.
“Love You” era qualcosa a metà strada tra l’alienazione di “Madcap Laughs” e gli esperimenti proto lo-fi di “McCartney II”, e non poteva certo rilanciare una carriera, quella dei “Beach Boys”, che non si era mai ripresa dalla mancata pubblicazione di “Smile”. Poteva però regalare alcune perle: diamanti grezzi, oggi celebrati purtroppo solo dai cultori di questo disco quasi dimenticato.
La più lucente fra queste gemme è una stupida canzonetta che Brian affida alle corde vocali del fratello mezzano, Dennis Wilson, ovvero il batterista sprovveduto e belloccio della band, capace di tenere a stento i quattro quarti, ma che piano piano, oltre a rivelare pericolose tendenze autodistruttive e distinguersi per certe cattive frequentazioni (Charlie Manson su tutti), era venuto fuori alla distanza come il migliore autore della band (dopo Brian ovviamente): suo il primo singolo mai pubblicato dalla band che non presentasse la firma del Wilson maggiore (“Slip On Through”), suoi alcuni dei brani più belli del post-”Smile” (“Celebrate The News”, “Forever”, “(Wouldn’t Be Nice) To Live Again”), suo l’unico capolavoro pubblicato da un Beach Boys solista (“Pacific Ocean Blue”).
“Mona” viene dunque cantata da un Dennis che nel 1977 ha sperimentato di tutto in termini di abusi e che sta per pubblicare il suddetto capolavoro solista e che, infine, non sa che gli restano ancora solo cinque anni di vita, prima di annegare – mezzo ubriaco – nelle acque della sua California.
Il segreto della canzone risiede nella combinazione tra la musica giocosa, ma che non riesce a nascondere una punta di struggimento, un testo che fa presto a compiere il tragitto che dal ricordo conduce alla nostalgia e una voce roca di alcool, droga e sigarette che rende plasticamente sia l’offesa che il tempo e la vita possono arrecare alla gioventù, sia il peso che viene generato da tutte le promesse di felicità poi disattese. Una voce dal fiato corto che più che celebrare i bei tempi andati sembra voler suggerire come tutte le cose che secondo il senso comune rappresentano la felicità si rivelino in realtà un bluff. “Mona” è la canzone più drammatica dei Beach Boys perché sembra rivelare che non c’è alcuna speranza. Se già il famoso giornalista britannico Nick Kent, riferendosi al primo periodo surf della band, ricordava che “all’inizio i loro dischi sembravano allegri in modo inebriante, ma c’era sempre un’atmosfera dolente sotto la superficie, una sfumatura pura di delizioso struggimento che, quando le voci armonizzavano su accordi dolcemente malinconici, erano capaci di strapparti il cuore a brandelli”, adesso quelle note di struggimento e malinconia sembrano aver preso il sopravvento e per di più in una maniera non del tutto gradevole, annegate come sono in un mix di depressione e abuso alcolico.
Quella vita da provincia americana drive-in e tavole da surf, che per anni i ragazzi hanno celebrato, nascondeva solo un vuoto annichilente:
How’s about an eight o’clock dinner
How’s about a nine o’clock movie
Won’t it won’t it won’t it be groovy
Put your lovin’ arms around me
Aren’tcha aren’tcha glad that you found me
Do you do you like fine wine now
Don’t it don’t it don’t it taste fine now
Can’tcha can’tcha can’tcha just hear it
Così come vuoti sono quei punti fermi su cui si è soliti costruire la propria vita. L’amore, il matrimonio… persino la musica:
Rock ‘n’ rock ‘n’ rock ‘n’ roll music
Get-a get-a get-a that beat now
Does it does it does it feel neat now
Will you will you will you just kiss me
When you leave me don’t you just miss me
Could we could we could we get married
Enough enough enough of goin’ steady
Disco disco discoteque mama
Show me show me show me the boogie
Start a start a start a little dance now
Take a take a take a little chance now
La Musica in “Mona” è presente nel testo, ma soprattutto è celebrata da un mood che vorrebbe essere spectoriano e nostalgico, ma che risulta invece bloccato in una reiterazione priva di sbocchi armonici, la cui grandeur suona (inevitabilmente, si direbbe) dimessa e stracciona, priva di quel vitalismo seppiato che si associa al ricordo della giovinezza:
Come on
Listen to “Da Doo Ron Ron” now
Listen to it “Be My Baby”
I know you’re gonna love Phil Spector
“Mona” è un catalogo di luoghi comuni destinati al fallimento, cantato da una voce distrutta e compilato da un genio che, in un lampo di coscienza e lucidità, suggerisce verità che non è detto si abbia voglia di voler ascoltare… Più comodo derubricare tutto a canzonetta spectoriana, omaggio a un Maestro da sempre modello e rivale.
Genio spezzato dalla pressione del sistema commerciale americano informato sulla logica della competizione (nel suo caso verso Spector, verso McCartney, verso se stesso) e dell’arricchimento senza limiti (il tormentato rapporto con la Capitol, le pressioni di Mike Love), annichilito da figure paterne traditrici (il padre-padrone Murray Wilson, lo psicologo Eugene Landy) e da istituzioni che si rivelano fallaci (il matrimonio dei genitori, quello con la prima moglie Marylin), Brian Wilson è passato da cantore dello stile di vita americano a incarnazione del suo fallimento.
Ma, citando ancora Nick Kent, “a chi importava veramente se quelle fantasie erano in realtà vuote promesse e la schiuma delle onde solo immaginaria?”
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