Ci aspettavamo un piccolo locale, adatto ad ospitare le delicate creature che i Non Voglio che Clara di Fabio De Min propongono ormai da quasi vent’anni e invece ci ritroviamo in un enorme spazio aperto, con più di trecento tavoli su cui sembra essersi riversata l’intera popolazione di Bergamo.
In questa enorme location facciamo fatica a scorgere il palco che poi scopriamo essere un piccolo spazio sopraelevato su cui si esibisce inizialmente Alessio Lonati in arte Loneriver, che si produce in un set breve e molto coraggioso: privato degli arrangiamenti voluttuosi con cui è solito vestire le proprie composizioni, le presenta al pubblico con il solo supporto della sua notevole voce, riuscendo a portare a casa un risultato assolutamente convincente.
Sul medesimo palco, circondati da una platea numerosa e – almeno inizialmente – dedita ai propri affari, si sistemano per nulla intimoriti i tre Non voglio che Clara. Siamo piuttosto noi ad aver paura che un luogo troppo dispersivo possa in qualche modo rovinare l’esibizione della band… Ci sbagliavamo: quando il gruppo sale sul palco, gli spazi si restringono e tutto diventa d’un tratto intimo e confidenziale.
Fabio De Min è probabilmente il più dotato autore di canzoni emerso negli ultimi anni e lo scriviamo non tanto perché ancora incantati dall’esibizione cui abbiamo da poco assistito, ma quanto perché dal 2004, anno dell’esordio del gruppo con il disco “Hotel Tivoli”, la sua penna non ha fatto altro che comporre melodie mai meno che memorabili e testi sempre originali anche quando trattano di temi abusati come l’amore o il rimpianto. E questo grazie a una sensibilità non comune, a un gusto sopraffino per il dettaglio e la parola e a una capacità di fare poesia che definiremmo “artigianale” (la maniera più vera e, incidentalmente, la meno pretenziosa).
Ma se questo lo sapevamo già almeno dal 2004, quello che non sapevamo è che i Non Voglio Che Clara sono anche dei musicisti sopraffini e dei performer eccezionali. A Bergamo hanno presentato una scaletta di 14 brani, suonati in trio, senza batteria acustica e con i musicisti a dividersi tra tastiere, basso, chitarra acustica ed elettrica e infine uno splendido organetto Riviera (sì, quello di Robertino Nostro).
De Min padroneggia perfettamente l’intonazione e non sbaglia nulla, coadiuvato dai compagni Martino Cuman e Marcello Batelli che ne arricchiscono le trame vocali con splendide armonizzazioni. I due soci creano un ambiente sonoro perfetto per accogliere le parole del cantante, scambiandosi gli strumenti quasi ad ogni brano, con la sicurezza di chi ha alle spalle un perfetto lavoro di ri-arrangiamento dei brani per adeguarli alla formazione a tre.
Ma le vere protagoniste della serata sono ovviamente le canzoni dei Non Voglio Che Clara.
Prendete “La Bonne Heure” una sceneggiatura di tre minuti in cui è presente tutto quello che c’è di interessante in una storia: una passeggiata notturna in cui si è in vena di bilanci e che finisce con una visita al commissariato, il ritratto di due miserie delineate con poche ma precise pennellate, la noia delle serate televisive che rivela quel particolare senso di vuoto che può spingere anche a uccidere (ricordate “Lo Straniero” di Camus?), un bridge in cui il punto di vista e la voce narrante cambiano per aumentare la tensione e infine la geniale ellissi narrativa che non mostra il momento dell’omicidio e conclude quella che alla fine è una straniante murder ballad, travestita da rotonda e saltellante pop-song.
Per il resto… Si parte con una “Cary Grant” da brividi in cui alla fine De Min aggiunge al nome dell’attore britannico quello di alcune pornostar (perché l’essere profondi e poetici non vuol che non si possa anche essere ironici o – ancora meglio – auto-ironici). Si passano in rassegna il bilancio esistenziale di “Superspleen” e la melodia struggente che nasconde il cinismo de “Gli Acrobati”. Si coverizza la Mina de “L’ultima occasione” e si rinnova l’equilibrio magico de “Le mogli” che alterna bridge e ritornello, facendo a meno delle strofe.
“L’oriundo” poi ha un sapore retrò fin dalla scelta del titolo e de “La bonne heure” abbiamo già detto.
Con “Le Anitre”, i tre armonizzano le voci in maniera meravigliosa come fossero dei piccoli Crosby Still Nash & Young, mentre quando viene il momento de “La sera”, De Min confessa che si tratta di uno dei suoi pezzi preferiti tra quelli che ha scritto e non si fa fatica a credergli considerato come il suo autore sia riuscito a rendere in parole e musica l’accettazione del passato, immodificabile, ma che non smette di tormentare (Immagina una macchina del tempo/ Non tanto per rifare tutto ma/ Per osservare ogni dettaglio). Segue “San Lorenzo” che forse è la canzone italiana più bella pubblicata l’anno scorso, peccato che se ne siano accorti in pochi… e “Le Guerre” che viene dedicata a Gino Strada che proprio quel giorno era venuto meno a questo mondo. Resta ancora il tempo per una “La Croazia” condotta sul battito di una drum machine e “L’inconsolabile” dove si fanno ancora una volta i conti con il tempo (Qui si dice che fu per amore, ma io lo so/ Ciò che ho pianto era una stagione della vita che è finita già) con una serenità per nulla rovinata dal poetico cinismo di versi come “e mi consola che nessuno in questo secolo ami qualcuno”.
Chiusura con “Gli anni dell’università” che anche dal vivo risulta essere il medesimo massacro emotivo conosciuto su disco.
Quando finisce il concerto, i tre si rilassano fumando una sigaretta. Il posto comincia a svuotarsi e Fabio De Min fuori dal palco appare molto più timido e riservato di quanto apparisse on stage.
Lo salutiamo e, oltre ai complimenti, vorremmo fargli un sacco di domande sulle sue canzoni, su come nascono e come riesce a coltivarle così bene da ormai vent’anni.
Poi desistiamo perché, davvero, a quelle canzoni non serve affatto aggiungere altre parole.
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