E’ il 15 giugno del 2021, mi trovo presso un HUB milanese. Devo farmi somministrare la prima dose di un vaccino che dovrebbe proteggermi contro un virus che ha sconvolto, nelle vite di tutti, qualunque cosa potesse essere sconvolta. Temo da sempre i “tempi morti” e ho avuto la precauzione di portare con me un libro. Si tratta di “Un paziente, Storia vera di una malattia rara”. Sarò sincero: non l’avesse scritto Ben Watt, metà del duo Everything But The Girl, nonché apprezzato solista, non credo avrei mai letto le avventure di un malato che, per gran parte del libro, descrive le proprie esperienze ospedaliere, mentre la scienza medica cerca di capire cosa diavolo sia successo al suo organismo per cominciare ad attaccare se stesso in una specie di seppuku molecolare. Il fatto però è che il libro, al di là del suo autore, mi sta piacendo davvero parecchio e va a finire che, immerso nella lettura, devo stare attento a non mancare il mio turno di vaccinazione.

E’ il 1994 quando sento per la prima volta la canzone “Missing”. Brano degli Everything But The Girl tratto dal disco “Amplified Heart”. E come fare a non sentirla? E’ dappertutto. Adesso ci si è messa anche la versione remix di Todd Terry a tormentare l’etere. Io ho tredici anni e ascolto solo roba con le chitarre elettriche bene in evidenza. Cose tipo i Led Zeppelin, per intenderci… e francamente non so che farmene di quella canzoncina pop cantata da uno strano duo in cui la ragazza non è nemmeno carina (che dire?! Ho solo tredici anni…). Lui però ha una faccia che mi rimane impressa con quei tratti vagamente orientali o almeno così mi sembra. Mi sbaglio: è un inglese nato dal matrimonio tra un musicista jazz scozzese di nome Tommy Watt e una giornalista britannica di nome Roman Bain.

E’ il 1982 quando Tracey Horn, voce degli Everything But The Girl e del tormentone “Missing”, pubblica il primo disco solista “Out of the woods”. “Solista” perché la ragazza viene dal gruppo post punk Marine Girls, band che ha all’attivo due lavori (“Beach Party” del 1981 cui poi farà seguito “Lazy Ways” del 1982) di wave cantautoriale, arruffata, ma non troppo che comunque fa capire chi, tra Ben e Tracey, sia il più selvatico. Ben infatti è un ragazzino tranquillo, cresciuto in una famiglia “bene” e piena di cultura. Nel dicembre del 1981 ha registrato, nientedimeno che con Robert Wyatt, l’EP “Summer Into Winter” e da lì a poco darà alle stampe il suo disco d’esordio intitolato North Marine Drive, che verrà pubblicato nel 1983. Un lavoro di cantautorato britannico, delicato come vetro, che – oltre che a Robertino Nostro – siamo certi sarebbe piaciuto anche a John Martyn.

Ci vuole una certa dose di coraggio e sfrontatezza per il giovane Ben, quando – utilizzando per scopi puramente privati l’altoparlante della Hull University – chiama “la Tracey Horn delle Marine Girls”, invitandola – se all’ascolto – a venire presso la reception dell’università. Il piano di Ben è molto semplice: sia “Out the woods”, il disco di Tracey, che il suo “Summer Into Winter” sono editi dalla Cherry Red: questo dovrà pure essere un argomento di discussione e magari una maniera per rimediare un appuntamento…. Fatto sta che i due già nel maggio del 1982 passano la prima notte assieme a Scarborough, in una pensione che serve solo da base d’appoggio per passare il weekend a “girare le spiagge o i vicoli, mangiando patatine, sedendo nei caffè con davanti tazzoni di caffè, guardando il vento forte che soffiava dal mare del nord”. Finisce che i due, che ormai condividono la stessa stanza all’università allestita secondo i medesimi punti cardinali (poster “Vota laburista”, il bacio di Robert Doisneau, la copertina del secondo singolo degli Smiths, “This charming Man”), non si separano più: avranno tre figli e ancora oggi sono una coppia.

E’ il 1984 l’anno magico in cui la carriera del duo prende il volo. Prima partecipando a “Café Blue”, esordio degli Style Council di sua maestà Paul Weller (Tracey canta il brano “Paris Match” con Ben alla chitarra), poi esordendo a nome Everything But The Girls con il disco “Eden”, giunto dopo che la pubblicazione in singolo della loro cover di Night and Day aveva acceso i riflettori iscrivendo il duo nel filone, sofisticato e pop, del nuovo cool jazz inglese, assieme a nomi come Style Council, Sade e Matt Bianco.

E’ il 1985, quando il duo pubblica il suo secondo disco, intitolato “Love not money” che per la curiosità di amici e parenti resta il loro disco che preferisco con brani come “Angel”, “Heaven Help” (presente nella sola edizione americana), “Sean” e “Shot me down” capaci ancora oggi di trapanarti il cuore con la loro miscela di chitarre smithsiane, uggiosa britannicità eighties e melodie che aprono i polmoni.

E’ il 1991 quando Ben comincia a stare male. Gli EBTG vanno bene: hanno inciso un disco intitolato “Worldwide” e sono una band di buon successo, ma Ben ha una sorta di tracollo. Ne viene fuori il calvario che viene descritto nel libro “Patient: The true story of a rare illness”, edito nel 1996 quando tutto sarà passato, che racconta la lotta di Ben con una rara malattia autoimmune che si scoprirà essere la sindrome di Churg-Strauss. Ben ne darà conto dettagliatamente in un romanzo sui generis che, nonostante parli delle avventure di un paziente durante la propria permanenza ospedaliera, riesce a tenerti incollato per tutte le 205 pagine della versione italiana, raccontando in modo, adesso asciutto, adesso lirico, dei riti di passaggio che trasformano un uomo in un paziente di lunga degenza, della fragilità della condizione del malato come sineddoche di quella umana, e delle incertezze che inevitabili avvolgono qualunque futuro (“… e la sola cosa a cui riesco a pensare è chiedermi se negli anni a venire, se e quando mi rimetterò da tutto questo, sarò come mi ricordo, indomito, organico, forte. Oppure sarò per sempre debole, in cerca di riparo, suscettibile al vento e alla pioggia?”).

E’ il 1994 quando Tracey e Ben (quest’ultimo ormai ristabilito, ma smagrito in maniera evidente) pubblicano “Amplified heart”, il disco del loro ritorno. Quello con cui la band fa il botto, soprattutto, grazie a “Missing” che, come detto, si ascolta davvero ovunque. Parla di una donna che prende un treno e torna a visitare la casa in cui viveva il suo vecchio amore mai dimenticato. L’uomo non vive più lì (“you always were two steps ahead of everyone”) e il vuoto dell’assenza fa nascere nella donna un lancinante sentimento di mancanza, tale da suscitare in lei il desiderio di invertire il tempo trascorso e violare l’ordine delle cose, così come perfettamente espresso nell’inciso killer: “…and I miss you, like the desert miss the rain”. La musica è di Ben, le parole di Tracey, che durante la lunga malattia del marito è stata sempre presente: nel memoir di Ben viene spesso descritta mentre attende i tempi morti della malattia, leggendo un libro. Così come sempre presente è la madre di Ben, che non lascia mai l’ospedale. Nella sua sfortuna, Ben è un uomo fortunato: certe donne possono salvarti la vita.

E’ il 1988, quando Ben scrive e canta per gli EBTG il brano “The Night I heard Caruso Sing”, contenuto nel disco “Idlewild”, in cu la parte da leone viene affidata come al solito a Tracey che manda in classifica una cover di “I Don’t want to talk about this” capace di spezzare anche il cuore più duro. Nel brano in cui si menziona il tenore italiano Enrico Caruso, Ben fa i conti con l’eredità del padre. Se la madre è stata la giornalista che ha abituato il giovane Ben alla cultura, è stato Tommy Watt ad averlo predestinato alla carriera di musicista. Il figlio gli rende omaggio con una delle sue melodie più belle, in cui si celebra un virtuale passaggio di testimone (“He’s (Caruso) almost as good as Presley/ (…)/ I’ll sing my song to my father/ I’ll sing my song to my child”) e il potere della musica di cacciare anche i dubbi più pesanti (“I’ve thought of having children/But I’ve gone and changed my mind/ it’s hard enough to watch the news/ left alone to explain it to a child/ (…) then someone sat me down last night and I heard Caruso sing”).

Durante la malattia, Tommy Watt non sa bene come relazionarsi con il figlio Ben. Risulta spesso assente, distratto o comunque incapace di affrontare il dramma che sembra strappargli ingiustamente un figlio (“Mio padre venne a sedersi accanto a me. Ce ne restammo lì così, uno con le gambe attaccate a quelle dell’altro e iniziammo a parlare a bassa voce; nulla di importante o significativo, solo sciocchezze sull’auto, il cricket, il jazz. Era come fossimo ragazzini. E capii quanto lo desiderasse. Non voleva essere il mio papà adulto. Voleva stare sul mio stesso livello, confidenziale, in sintonia. Due bravi ragazzi. Come moschettieri. Gli dissi che mi piacevano le sue scarpe e mi disse che me ne avrebbe procurate un paio. Era qualcosa di concreto che era in grado di fare”).

E’ il 1999, quando esce “Temperamental” ultimo disco degli EBTG. Tracey (che nell’anno d’oro 1994 aveva prestato la voce anche alla epocale “Protection” dei Massive Attacks, divenendo semplicemente “leggenda”) e Ben decidono di dedicarsi ai propri figli e abbandonare la musica. Non è un addio, ma un arrivederci dettato semplicemente da quelle che sono le loro priorità del momento.

E’ il 2014, quando Ben pubblica, “Hendra”, il suo secondo disco solista che segue di ben trent’anni l’esordio di “North Marine Drive”. Prende il titolo dalla canzone omonima dedicata alla sorella morta in breve tempo di cancro. Il disco è bellissimo e sembra quasi indurre a fantasticare su quale sarebbe potuta essere la carriera di Ben, se non si fosse innamorato di Tracey e avesse dato vita assieme alla Compagna agli Everything But The Girl, proseguendo piuttosto con una carriera da songwriter britannico a metà tra Bill Fay, John Lennon e Robert Wyatt.

E’ il 22 febbraio del 2017, quando riesco a vedere per la prima volta Ben Watt dal vivo in un locale di Milano. Ben porta in giro le canzoni del suo secondo disco solista, “Fever Dream”, in coppia con il fido chitarrista/produttore Bernard Butler. Subito dopo il concerto scrivo alcune note per ricordarmi dell’evento:

Ben Watt indossa un cappellino grigio e la solita barbetta che gli corre a un niente dalla guancia. Il suo aspetto è quello di uomo minuto, provato dal tempo, ma non restituisce un’idea di malattia, piuttosto quella del reduce che l’ha scampata, ottenendo in cambio una rinnovata serenità. Una consapevolezza che non solleva dagli affanni, ma che almeno riesce a renderli più accettabili. La sua figura risulta gentile come la voce, divenuta sempre più calda ed accorata. Non è diventato un gran cantante con gli anni, Ben, questo no, ma la sua voce ha acquisito la capacità di avvolgere e cullare. Accanto a lui, la figura di Bernard Butler risulta perfettamente abbinata, col suo aspetto da nobile medievale dai lunghi ciuffi di capelli a coprire le tempie e le rughe del viso da ex ragazzo prodigio della chitarra.

Ben si divide tra due chitarre e un piano wurlizer. Vi appoggia delicatamente le proprie melodie e le proprie storie (la sorella morta, il padre – musicista in declino – che a certo punto ha cominciato a bere troppo, gli Everything But The Girl e Tracey). Butler lo segue discreto, sgranando accordi, inanellando ricami su ricami e concedendosi solo occasionali e misuratissimi assoli dai colori saturi e psichedelici, come nell’incalzante “Nathaniel” condotta a passo di carica dalla Guild acustica di Ben.

Il repertorio pesca soprattutto dagli ultimi due dischi in studio, ovvero i graditi dispacci dal pianeta Watt che ci hanno ricordato come Ben sia vivo, esista e stia bene, oltre ad averci rammentato da dove tutto era iniziato ovvero da quella perla nascosta di cantautorato britannico che è “North Marine Drive”, da cui viene ripescata (purtroppo) solo la bellissima “Some Things Don’t matter”.

Per il resto, “Fever Dream” si conferma una delle migliori melodie che la terra di Albione ha prodotto negli ultimi anni, “Hendra” spezza il cuore come su disco, “New Year of Grace” si appoggia su una melodia di cristallo e “Spring” rappresenta il perfetto commiato.

La gloriosa sigla degli Everything But The Girl viene omaggiata con “The night I heard Caruso sing”, “Rollercoaster” e “25th December”. Tutti brani che sembrano tornare a casa, trovando ristoro domestico nella gola di Ben che li intona mentre socchiude i suoi occhi dal taglio orientale e sembra chiedere al proprio pubblico di fare altrettanto”

 

E’ il 20 luglio del 2021. Mi trovo in Sicilia. Il giorno prima sono passato dal vecchio negozio di dischi in cui andavo sempre fino a quando ho lasciato l’isola per la mia vita da adulto. Mi fa sempre piacere ritornare in quel luogo e, più che i costosissimi vinili, mi piace rovistare fra i vecchi CD, ridotti a residuati bellici di un’altra epoca, messi da parte per non essere riusciti a stare al passo con i tempi e le mode.

Scovo alcuni tesori che non vi dico e alla fine prendo anche il disco che Ben ha pubblicato nel 2020, “Storm Damage”. Lo porto con me e lo ascolto in auto mentre vado a farmi somministrare la seconda dose del vaccino che dovrebbe rendermi un po’ meno vulnerabile agli attacchi di quello che è diventato il nostro mondo.

In “Figures In The Landscape”, Ben canta:

One more day to live through

Take a stand

One more day to live for

Clap your hands.

Ben Watt - Figures In The Landscape