A circa un anno dalla pubblicazione – in pieno lockdown – del progetto collettivo “Quarantine Scenario”, tornano i Casino Royale con un nuovo EP intitolato “Polaris” che – a detta della band – era già pronto da prima che la pandemia irrompesse nelle nostre vite. Possiamo dunque oggi considerare “Quarantine Scenario” una fuoriuscita dal nucleo iper denso costituito da “Polaris” che – a differenza dei novantanove minuti di “Scenario” – con i suoi scarni ed essenziali trenta minuti di musica, sintetizza, riporta tutto a unità e lancia l’ennesima rivoluzione del suono Casino Royale, senza rinunciare ad alcuni trademark consolidati: la voce di Alioscia, l’attenzione per i bassi pesanti e un’attitudine libera che da sempre utilizza il suono inglese come terreno di caccia.
La cartolina, affascinante e dispersiva, di “Quarantine Scenario” si adoperava per mettere in musica l’ansia e l’alluvionale afflusso di impressioni che emergevano – in tempo reale – dalla stasi imposta dalla pandemia e dalla sensazione di trovarsi tutti uniti nel distacco e nella separazione. Sospeso tra ambient e ritmiche avvolgenti, riascoltato oggi il disco provoca una certa nostalgia e un senso di rimpianto per quelle che presto appariranno come occasioni di ridefinizione perdute e non sfruttate.
“Polaris” adesso cerca di rifocalizzare, presentandosi conciso e capace di andare dritto al punto con pochi ma ben assestati colpi.
Si tratta di otto tracce, su cui si stagliano in particolare tre canzoni di notevolissimo livello.
Si comincia con “Tra Noi” incipit che, unito alla seconda traccia/reprise “Tra Noi Dis-Version”, rappresenta un avvio fulminante di oltre 7 minuti e mezzo in cui vengono frullati disossamenti dubstep, bassi pesanti e vischiosi, frattaglie glitch e quella sensazione di rallentamento che coglie la notte un attimo prima che svolti verso il mattino.
Il testo che Alioscia ci soffia nell’orecchio, assieme al respiro, tratteggia un mondo sospeso tra apocalissi future (“Io ora vedo e non prevedo… aria di feste e apocalisse) e una desolata e desolante incapacità di far fruttare la nostra condizione di minorità coatta:
Voragini e distanze da dover colmare
schiacciati tra noi proviamo a respirare
Babilonia ha linguaggi che dividono e non lingue
noi conquistati dalle nostre conquiste
Ci ritroviamo stranieri, straniti dall’estraneo
Estraneo che mi rassomiglia nella sua voglia di uscire dal fango del suo karma
risalendo per respirare aria”
Si continua con un refrain (“fra noi, fra noi, fra noi e noi)” in accorato coro gospel bianco, che omaggia i Gladiators e introduce lo scat, tra editing e sporcizia, della dis-version con un Alioscia sopra le righe, ma perfettamente dentro il personaggio:
Non si salva nessuno
L’arma presente, passata e futura è la paura
Benvenuti nei tempi dei denti a sciabola
Che concludere con un retorico, quanto ben posto, quesito:
Io mi domando quando noi capiremo dove stiamo andando
perché l’umanità è l’unico codice comune che abbiamo.
La seconda delle tre canzoni del programma si intitola “Ho combattuto”. Introdotta dal cuscinetto orchestrale di “Contro me stesso e al mio fianco”, splendidamente confezionato dalla Orchestra ad Alta Felicità, prosegue il mood di “Tra noi”, ma – oltre ad aggiungere accordi drammatici di piano e una ritmica autistica e ostinata- sposta lo sguardo dalla dimensione collettiva a quella individuale, affrontando il tema della depressione e della lotta interiore. Temi giustapposti al fine di rendere la continuità tra disagio sociale e i suoi effetti a livello di depressione individuale. La depressione come malattia sociale che non deve nascere e morire nella sfera personale, perché cagionata dal combinato letale tra pre-condizioni personali e il tessuto socio-politico che le accoglie:
C’è una distanza ideale e necessaria tra il resto e me
Noi, passo a passo per risalire/ riconoscendoci solo scendendo
goccia a goccia, vuoi ripulire quell’acqua che vogliamo bere.
Cammino sul lato illuminato della strada/ segno il cammino per ritrovarmi presto verso casa
Sceglie di scendere giù/ Voglia di crescere/ Pronti a comprendere
Vuoi sentirti, vuoi seguirti, rincontrarti, perdonarti.”
La voce poi va in mantra nel ritornello:
Contro me stesso ho combattuto e ho combattuto al mio fianco
Ho perso il senso, il tempo e il resto, ma ora qui sto cercando
Contro me stesso ho combattuto e ho combattuto al mio fianco
Ho perso il senso, il tempo e il resto, ma ora sto rinascendo”
Perfetta l’interazione tra gli strumenti acustici, quelli digitali e le orchestrazioni editate. Uno dei pezzi più belli mai scritti dai Casino Royale, piazzato giusto all’incrocio tra le melodie spoken/soul di “Reale” e il freddo disorientamento digitale di “CRX”.
Il terzo brano, introdotto dal gioiello in miniatura di “FVDL” (piccola sceneggiatura cinematografica espressa in forma di interludio per piano, fiati e crescendo d’archi) si intitola “Fermi Alla Velocità Della Luce”.
Oltre ad aver anticipato il disco come singolo, si può ascoltare anche in una bella versione “garage” diffusa in rete con tanto di video a supporto.
Il brano rivendica da un lato identità e attitudine tramite un testo diretto e alcuni marcatori sonori ben riconoscibili (battito incombente, basso wave ma con pesantezza trip-hop, archi struggenti, oasi noise e crescendo ipnotici di chitarra nel finale) e dall’altro – tramite il refrain di “Non si vede l’alba ad ovest/ Fermi alla velocità della luce” – coglie uno zeitgeist di esistenza vissuta a una velocità fittizia, che non trova corrispondenza in una reale evoluzione: la stasi totale interrotta solo dal falso movimento dell’upgrade costante e della crescita marginale, che non lascia intravedere né un alba da vagheggiare, né un futuro da coltivare.
Completano il programma “Scenario” che è lo spoken di apertura di “Quarantine Scenario”, piazzato quasi in chiusura a ricordare quello che è avvenuto dopo (o prima…) e il finale di “Fame D’Aria”, peana liberatorio infestato da vocalizzi etno-soul, sfregiato da bordate di synth e sorretto da una combinazione basso/beat che iscrive tutto nel solco del continuum hardcore britannico, fiume carsico di cui i Casino Royale hanno spesso rappresentato il riaffioramento in terra italica, ricoprendo il preziosissimo ruolo di “pontiere” e “corpo intermedio”.
Insomma, ennesimo grande lavoro per Alioscia, Geppi, Patrick Benifei e Ferdinando Masi, che per l’occasione si sono avvalsi delle splendide partiture di Giorgio Mirto e della sua Orchestra ad Alta Felicità, ma soprattutto della produzione del giovane Francesco Leali, già coinvolto nel progetto “Quarantine Scenario”, che in un corto circuito generazionale trova il modo di far rinascere questi vecchi guerrieri della battuta storta, confezionando loro un vestito gelido dentro cui far pulsare un nucleo bollente e che della contemporaneità coglie, più che la moda sonora, l’umore diffuso, fornendo un battito accorato e sincero, capace di risvegliare l’attenzione intorpidita dal nostro presente infinito.
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