“Gli Sparks mi hanno salvato dai Queen”.
Tutte le volte che rimetto su un disco degli Sparks, mi capita sovente di ripensare a questa frase… E ultimamente mi capita sempre più spesso di riascoltare la sterminata discografia di Russell e Ron Mael, complici probabilmente gli ultimi due eccellenti dischi “Hippopotamus” e “A steady drip, drip, drip” che hanno certificato uno stato di salute persino sconveniente, tenuto conto dell’età dei due fratellini americani.
Si trattava di una frase che ironizzava sul fatto che gli Sparks per anni sono stati considerati “l’alternativa intelligente” ai Queen. E se è vero che i due gruppi si muovevano su territori affini (glam rock poco allineato, cabaret e music-hall, vocalità estrema e tentazioni operistiche), c’è anche da dire che le similitudini finivano qua: il genio eccentrico e l’ironia surreale dei fratelli Mael ne facevano infatti un animale strano, del tutto differente non solo dal gruppo di Freddy Mercury, ma da qualunque altra band mai apparsa sul pianeta.
Avevo letto quella frase da qualche parte ma non ricordavo più dove. Magari si trattava di un giornalista, che rievocava la propria educazione sentimentale… Poi il lampo del ricordo e, immaginate la mia sorpresa, ho rammentato che la frase era stata pronunciata da quell’essere sospeso (in soluzione alcolica) tra Musica e Realtà che risponde (non sempre) al nome di SirBilly. Siccome non credo troppo alle coincidenze, non mi restava che contattare il suddetto baronetto, sperando di poter attingere alle sue sconfinate conoscenze in materia sparksiana.
Gli Sparks ti hanno salvato dai Queen e da cos’altro?
Comprendo come la boutade possa sembrare un vezzo snobistico da vecchio babbione, ma ho sempre pensato ci fosse un fondo di verità. Per me come per chiunque altro. Se, nel corso del tempo, più gente avesse avuto modo di approcciare in prima battuta i Mael al posto di Mercury forse oggi ne parleremmo diversamente. Forse. Gli Sparks non mi hanno salvato la vita (ci pensarono i Ramones a farlo) ma ebbero il grande merito di salvarmi da ‘altri’ ascolti, di togliermi molti paraocchi e paraorecchie, di instillarmi curiosità, di costringermi a essere sempre attento. Dovevi (e devi) essere multitasking per seguire una band simile, non si sono mai adagiati in un unico stile, anzi sovente l’hanno anticipato o addirittura l’hanno inventato. Ti costringevano a rimanere sveglio. Non è facile seguire un gruppo simile, ne sono conscio. Se stendi sul tavolo un domino con tutti i loro singoli ti piglia un colpo. Sembra un ottovolante, la discografia di tre o quattro gruppi eterogenei. Non puoi etichettarli o incasellarli in un genere musicale.
Magari l’amico ti chiede ‘sì, ma che musica fanno gli Sparks?’. ‘Fanno gli Sparks’ gli dici. Non puoi rispondere che così. Almeno io non saprei che dire, alla fine.
Partiamo dall’inizio. Gli Sparks in origine nascono come Halfnelson, band che esordisce nel 1971 con un disco prodotto nientemeno che da Todd Rundgren e con il patrocinio di Albert Grossman, che all’epoca gestiva gente come Bob Dylan… Insomma tutto sembrava apparecchiato per il successo, anche il singolo “Wonder Girl” non passa del tutto inosservato… eppure i due fratellini mollano tutto e vanno in Inghilterra.
Cosa è andato storto? E se fossero rimasti negli States?
Au contraire, mio caro. Au contraire. È andato tutto per il verso giusto, per merito dei Mael. Loro sentivano di avere un’anima e un pentagramma britannici dentro un corpo yankee. La loro fortuna fu capirlo e fare outing subito, mollando tutto per volare in Albione. Fossero rimasti in USA credo che non avrebbero mai osato così tanto, tarpandosi le ali. Ma lo credo io, sebbene le classifiche siano lì a testimoniarlo (l’unico singolo che sfiorò quelle USA fu ‘Cool Places’ che si inerpicò a fatica fino al numero 49).
Il cruccio che mi rimane è che non si portarono appresso Earl Mankey, chitarrista stratosferico che non poco contribuì a definirne il suono nei primissimi anni Settanta. Ricordo, en passant, che poi l’uomo mise le mani in sede di produzione a pepite tipo Three ‘O Clock, Runaways, Dickies, 20/20, Leaving Trains.
Quindi, tornando alla tua domanda, il vero colpo di genio degli Sparks fu comprendere dove si poteva situare il loro pubblico; perchè avevano capito dove potevano situare la loro musica.
Li immagini suonare al Whisky A Go-Go o all’Olympia? Ecco.
In Inghilterra seguono un po’ il percorso di Jimi Hendrix: gli fa da manager un ex bassista degli anni sessanta (John Hewlett dei John’s Children, vicenda da noi ricordata recentemente QUI) che gli costruisce attorno una band di musicisti autoctoni, dando vita a un’inedita collisione. Con Hendrix c’è anche un altro elemento in comune: entrambi rappresentano realtà aliene piombate a sconvolgere la quieta esistenza inglese. La formula degli Sparks è originalissima: praticano il rock n’ roll, ma rifuggono il blues; sono ispirati dall’opera e dalla musica classica, ma evitano le prolissità del prog; il loro amore per la music-hall più sontuosa viene stemperato da quello per il cabaret; infine, suonano talmente sovraeccitati da anticipare l’algida isteria della incombente new-wave. Cos’altro possiamo dire per rendere l’originalità della loro formula?
La conversione fu immediata, ma al contrario. Ovvero furono loro a convertire l’Inghilterra e non viceversa. Ron Mael aveva bene in mente come dovesse suonare la loro miscela, e probabilmente era consapevole che un ambiente ancora conservatore come quello statunitense non gliel’avrebbe mai permesso. Dai baffetti in giù (che gli crearono non pochi problemi anche da noi, ricordo una assurda querelle pseudo nazi scatenata da Ciao2001). Miscela è la parola giusta, nel loro caso. Gli Sparks sono come la Coca Cola, hanno quell’ingrediente in più che li rende unici.
Nessuno poteva aspettarsi un ordigno come Kimono My House dopo due album ispirati sì, ma di maniera. Arrivarono in Inghilterra sulla scia di un timido interesse della Island. Zero canzoni pronte. E nessuno che credesse in loro. Leggenda narra (ma pare sia stata artificiosamente propagata da Ron) che Elton John – all’ascolto di This Town Ain’t Big Enough For Both Of Us – sfidò Muff Winwood (il produttore). ‘Questa non va da nessuna parte’, disse il parruccone. Muff scommise sulla Top Ten. Arrivò al numero due.
Quella sera, a Top Of The Pops, scoppiò l’isteria Sparks. Persino John Lennon rimase fulminato (negli annali la sua frase, vedendo Ron: ‘Hey c’è Hitler in TV a Totp!’). Forse lo sai già, ma l’apparizione a Top Of The Pops dovette essere rinviata di due settimane perchè i Mael non avevano ancora firmato il contratto con il sindacato dei musicisti britannici.
This Town Aint’ Big Enough For Both Of Us (“Il singolo più interessante prima del punk” parole del Melody Maker, non mie) è ancora oggi qualcosa di alieno e senza tempo. Potrebbe uscire domani o essere una rilettura degli anni venti. Inventano i Franz Ferdinand ma lo fanno da un’immaginaria Repubblica di Weimar. C’è il cabaret, il Circo Barnum, Ziegfield Folies, prodromi di rock and roll, sfilettature glam (il glam rock non era mai stato COSÌ fino ad allora, forse solo in Virginia Plain). C’è già la new wave, peraltro: pensa a Spizzenergi. O Punishment Of Luxury.
Kimono My House avrebbe dovuto produrlo Roy Wood, fortemente voluto dai Mael, ma non si concretizzò. Questo la dice lunga su come fosse già focalizzata la loro visione.
Gli Sparks sono un sinuoso ermellino dai denti aguzzi.
Parliamo del periodo d’oro o comunque di quello più noto: il trittico glam “Kimono”/”Propaganda”/”Indiscreet”. Cos’erano all’epoca gli Sparks e cosa rappresentavano all’interno della scena glam inglese questi due alieni americani?
Beh ragazzi, lì – in quei due anni e in quelle due testoline – si è inventato gran parte dello scibile che ancora si ascolta. Il parterre de roi di seguaci indefessi dei Mael e di Kimono/Propaganda è trasversale: da Bjork a Joey Ramone, da Steve Jones a Billy MacKenzie, da Martin Gore a Bette Midler. Stephen Morris in un’intervista disse che “Number One Song In Heaven” era la canzone più ascoltata dai Joy Division mentre registravano “Love Will Tear Us Apart”. Peter Hook raddoppiò la dose ammettendo che “Temptation” dei New Order era palesemente ispirata dalla stessa. Ma potremmo proseguire per pagine, tanto che negli anni novanta – in Inghilterra – si diceva (un po’ per celia un po’ anche no) che se volevi vedere tutti i tuoi beniamini riuniti dentro una sala concerti bastava che andassi a qualsiasi concerto degli Sparks. Era vero.
Resta il fatto che, nel 1974, erano diventati improvvisamente inglesi, per pubblico e critica, nessuno si sarebbe mai potuto immaginare dei natali californiani. “Kimono My House” ripudia visibilmente l’America e lo fa immaginando un glam rock che è un bubblegum velenoso e decadente masticato con stizza nella casa di Jay Gatsby. Ancora oggi, anche tra molti seguaci, si dà per scontato che gli Sparks siano europei, non vi possono essere altre alternative ‘ascoltandoli’. La mutazione, sonora e mentale, dei due ebbe dell’incredibile in quel biennio. Se Kimono ha muscoli sotto il belletto, Propaganda viaggia nella terra di mezzo, quasi asessuato. Indiscreet invece, secondo me, qualche crepa la mostra. Ma veniva dopo due due titani di bellezza.
Tra l’altro, e lancio la trivia che fa sempre bene: Michi Hiroda (una delle due attrici ritratte sulla copertina di Kimono My House – è quella di destra) fece i cori per It’s No Game di David Bowie. Mi piace pensare che sia l’ennesimo cerchio concentrico che si avviluppa a spirale.
Dopo i fasti glam, i due tornano in America e vivono un periodo interlocutorio, dove – sebbene la qualità della musica non subisca grossi scossoni (“Big Beat” e “Introducing” sono due dischi molto solidi, irrobustiti dal suono delle chitarre) – appaiono alla ricerca di novità capaci di rivitalizzarli.
Novità che giungono con la svolta techno-pop di “N°1 In Heaven” prodotto da Giorgio Moroder. Un disco che mi ha sempre fatto pensare a “End of the century” dei Ramones, prodotto da Phil Spector: in entrambi i casi mi sembra ci sia un’accoppiata produttore/band che a prima vista diresti improbabile, ma che alla prova dei fatti rivela affinità che ti sorprende non aver colto da subito…
Questo la dice lunga sulla capacità della coppia di saper guardare ovunque. Dici bene riguardo il parallelo con i Ramones, sebbene qui davvero si cambi radicalmente genere, spiazzando tutto e tutti. “N.1 In Heaven” inventa il technopop senza se e senza ma. E lo fa da par suo, mettendo in fila Depeche Mode e similia, insegnando loro a osare. Passiamo da Babylon Berlin al futuro. La disco di Moroder si fa ‘Dolce Vita’. Non dimenticare che all’uscita di “N.1 In Heaven” i due viaggiano verso i trentacinque anni, età in cui la maggior parte dei musicisti ha già tirato i remi in barca e – se può – vive di rendita in un rassicurante rifarsi il verso ad lib.
Parliamo del periodo degli anni ottanta e novanta. Tu a quel tempo eri già un adepto al culto e ne seguivi le uscite nell’indifferenza più totale, nonostante molti artisti del tempo facevano a gara a citarli. Penso a Martin Gore, Morrissey, ma anche a gente come Mike Patton e molti altri.
Che ricordo hai di quegli anni?
Io ho sempre preso i dischi degli Sparks. Sin da quel giorno del 1979 in cui li vidi in Tv. Ma non posso non ammettere che quei mediani anni ottanta furono davvero il periodo peggiore, qualitativamente parlando. Dischi senza direzione, pieni di buone canzoni ma senza la zampata. Stavano girando a vuoto, sembravano diventati una band ‘normale’. Ok, mi dicevo, fisiologico. Hanno quarant’anni, sono stati superati. Fisiologico, appunto. Li seguivo per una sorta di devozione personale, perchè avevano rappresentato molto per la mia maniera di intendere la musica. Non li davo per spacciati, questo no, ma pensavo fossero tornati tra i mortali. Poi, nel 1994 (dopo uno iato di otto anni da Interior Design), esce Gratuitous Sax & Senseless Violins e lì, fin dal titolo, ho capito che erano risorti.
Che mi dici dei lavori straordinari che hanno cominciato a pubblicare nel nuovo secolo a partire da “Lil’ Beethoven”? Non trovi abbiano raggiunto una nuova maturità sospesa tra reiterazioni magniloquenti e una coralità classicheggiante?
Ron e Russell Mael hanno capito una cosa che molti artisti non capiscono in tre vite. A una certa età puoi permetterti di fare ciò che davvero vuoi e ti diverte. Puoi esplorare, fare l’anziano con uno spirito adolescente e viceversa, puoi calibrare le tue origini con l’immaginario. Il fatto è che loro l’hanno capito a venticinque anni, non a cinquanta. Detto questo: Hello, Young Lovers (2006) e Hippopotamus (2017) sono lavori stratosferici.
Parliamo dei due fratellini. Due californiani della upper class che da piccoli andavano a giocare a casa dei Kennedy, ma che poi raggiungono il successo improvvisandosi gentlemen europei. Da un ambiente familiare decadente alla Tenenbaum ai salotti buoni della musica dove amavano atteggiarsi a sofisticati freak. Chi sono i Mael?
I Mael sono i Fratelli Marx del pop, né più né meno. E Ron Mael è Groucho. Ma – visto che raramente favella – anche Harpo, quello muto. Lo diceva sempre anche Grossman, solito canzonarli così (la sigla Sparks fu solo una storpiatura di Marx). La loro grana sonora è talmente densa che non è per tutti. E me ne dispiaccio, lo dico davvero. Non è una band che considero solo ‘mia’, è una band che avrei voluto vedere al numero uno (‘In Heaven’ ma anche nelle classifiche) dal 1972 all’eternità. Il mondo sarebbe stato un posto migliore.
Aggiungo: considera che hanno origini ebree, l’humour dei testi di Ron si spiega tutto.
Parliamo di Russell Mael. Oltre a una voce straordinaria e a una presenza scenica notevolissima, c’è di più?
C’è che a 73 anni quel figlio di puttana devo ancora sentirlo stonare. C’è che è la perfetta spalla per Ron, c’è che non ha mai avuto paura di cadere nel ridicolo. C’è che è camp ma un camp cinico che non si prende sul serio, c’è che tanti hanno provato a fare Russell Mael ma sono caduti miseramente. Il mio terrore è che ci si accorgerà cosa sono stati i due fratelli (da mezzo secolo una cosa sola) solo quando non ci saranno più. Tra l’altro, unico caso di fratelli NON coltelli.
Ron Mael. Il genio con i baffetti a metà tra Hitler e Chaplin, ma anche l’autore di melodie e arrangiamenti funambolici e di alcuni dei testi più sagaci della storia del pop (a proposito, a mio avviso, si tratta anche di uno dei migliori “titolisti” di tutti i tempi: ho sempre avuto l’impressione che partisse dal titolo e poi ci costruisse sopra la canzone…).
Non lo so, davvero. So solo che pochi geni (e non lo dico a caso) nella pop music sono riusciti ad essere così trasversali. Scrive musiche sghembe ma dal gancio killer, verga titoli che sono immaginari, lancia (iper)testi pieni di riferimenti, ironia e cinismo, può incidere un’orchestrazione classica o una canzoncina mirabile che sembra i Rubettes. A 75 anni non ha paura di farsi il balletto a ogni concerto, ha sempre preferito vestiti eleganti e fuori moda. Cazzo vuoi dire a uno come Ron Mael?
La loro ironia, oltre che nel look, si esprimeva anche tramite copertine semplicemente geniali e surreali: qual è la tua preferita?
“Indiscreet”. C’è la tragedia, il mistero, lo sberleffo. Una crasi tra qualche disaster movie e il set di Gola Profonda. GENIALE.
Gli Sparks dal vivo. Se non sbaglio tu li hai visti in occasione del disco con i Franz Ferdinand… Cosa pensi di quella collaborazione e come fu quel concerto?
Quella collaborazione l’ho vissuta come un appuntamento mancato. Sulla carta fibrillavo, come tutti. Padri e figli che si mettono a tavolino, scrivono un album, lo provano e lo portano in giro per il mondo. ‘Cazzo, chissà che bomba’ avevo pensato. Alla realtà dei fatti si disinnescarono a vicenda. Ma ringrazio comunque il progetto FFS che mi permise di vedere finalmente su un palco i due fratelli.
Inutile che io sottolinei come il carisma di Ron e Russell quella sera fagocitò in un sol boccone Kapranos e compagnia.
Cosa sono oggi gli Sparks per la scena mondiale? E cosa sono oggi per te gli Sparks?
La scena mondiale non si è ancora accorta veramente dell’importanza dei Mael nello scacchiere sonoro dell’ultimo mezzo secolo. Temo che mai accadrà. Lo sanno loro e lo sappiano noi adepti al culto. Per quanto mi riguarda sono stati il passepartout per gran parte delle musiche che mi sono passate in casa e tra le orecchie. Non è poco.
Non avendoli mai completamente capiti vengono chiamati per noblesse oblige in qualche festival e magari inseriti in scaletta alle sei del pomeriggio per trenta minuti (come è successo al Primavera Sound di qualche anno fa), giusto per fregiarsi della sigla. Non è un caso se in quattro lunghe decadi non abbiano mai inserito una data dei loro tour nel nostro paese.
Forse ce l’hanno giurata dai tempi di Ciao 2001.
https://www.facebook.com/SirBillyExperience/posts/10157646424901923
SirBilly
Scrivi un commento