… ed eccoci giunti al turno dei Black Midi, che della nuova ondata di gruppi londinesi emersi nel corso dell’anno rappresentano quelli più vicini a certo math-rock anni novanta. Ciò in ragione di un tasso tecnico strabordante che – come controindicazione – si è attirato diverse accuse di onanismo ed esibizionismo.
Diciamo subito la nostra: se è vero che i ragazzi a volte eccedono in soluzioni strumentali eccessivamente funamboliche (figlie – a nostro avviso – di sincero furore giovanile… magari mal riposto), è anche vero che tale perizia viene posta quasi sempre al servizio di un art-rock raffinato e affatto scontato. Magari l’equilibrio tra queste due componenti risulta ancora da registrare e a volte la tecnica appesantisce una scrittura che di contro si sta però innegabilmente affinando.
Ne è un perfetto esempio il brano di apertura “John L” (di cui ci eravamo già occupati QUI), che parte a rotta di collo in maniera esaltante, ma che via via si auto-sabota con inutili stop & go e un finale allungato e snervante, che finisce per togliere mordente proprio all’effetto “cavalcata” che vorrebbe ottenere.
Il disco si riscatta subito con “Marlene Dietrich” che dimostra come la band sia in grado di scrivere una grande canzone e di saperla arrangiare con accorata misura. Un art-rock decadente che ci ha ricordato i Wild Beasts (che a casa nostra è un gran complimento), cui fa seguito – come Jekyll segue Hyde – “Chondromalacia Patella”, che mostra l’altra anima della band, cervellotica e tendente a complicare gli affari semplici. Un approccio che piace a certa gente… e, dunque, se siete fra questi, godrete in particolare per la notevole accelerata che i ragazzi piazzano nel finale con tanto di fischio finale, che però sfiora l’effetto comico involontario.
“Slow” invece fa tutto per bene: bello il riff, bella la dinamica, bella la parte vocale. La band non si lascia mai scappare la mano e forse solo nel finale il brano perde un po’ di mordente, proponendo – dopo aver giochicchiato troppo con lo stesso riff – un crescendo un po’ telefonato ed emotivamente poco coinvolgente.
“Diamond Stuff” mette in campo un terzo registro, avvolgente ed etereo: piazzato al punto giusto della scaletta, certifica una certa varietà stilistica, senza rinunciare alla propria identità, che viene invece confermata in tutto e per tutto da “Dethroned”, solido brano dall’anima prog che coniuga scrittura ed esecuzione ed evita inutili complicazioni.
Lo stesso non può dirsi di “Hogwash and Balderdash” che sembra prestare il fianco a tutte le accuse che si sono lette sui Black Midi (freddo autocompiacimento, soluzioni cervellotiche figlie di puro esibizionismo e non di vera e benvenuta follia), ma che ha il pregio di durare poco e introdurre “Ascending Forth”, in cui ritorna il mood di “Marlene Dietrich”, con un cantato raffinato e un equilibrio notevole tra intensità emotiva e perizia esecutiva.
Un’ottima chiusura per un disco che, al netto di alcune derive tecniche in alcuni casi davvero superflue, mostra una band in crescita che si sta muovendo verso territori cari a certe sofisticatezze britanniche d’altri tempi, ma anche in grado di lambire lidi musicali cari a certo avant jazz newyorkese degli anni novanta.
Le accuse che vorrebbero i ragazzi solo degli ottimi studentelli dotati di grande talento tecnico, ma sprovvisti di genio e anima ci sembra ingenerosa e non veritiera. Se e quando riusciranno a trovare una sintesi tra le componenti del proprio sound ad oggi ancora non perfettamente amalgamate avremo di fronte un’ottima realtà.
Non resta che attenderli al “difficile terzo album”.
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